La menzogna dell’invasione “ariana”
Gian Giuseppe Filippi
La menzogna dell’invasione “ariana”
(Quale ostacolo geografico frenò gli “ariani” a entrare in Cina?)
Scopo di questo elaborato è la denuncia di una clamorosa falsificazione della storia usata a scopi politici, economici e ideologici. In questo caso ci occuperemo dell’India, che è stata ed è tuttora l’obiettivo privilegiato di una dissolvente critica storica applicata all’archeologia e agli studi letterari, perché rappresenta la civiltà più antica del mondo con la letteratura più ricca e che ha sviluppato il pensiero più alto mai prodotto dall’umanità. Per questo motivo l’India è in assoluto la tradizione più aristocratica. Questo è fastidioso, soprattutto nell’attuale periodo di appiattimento culturale, di mediocrità intellettuale, di egualitarismo sociale, tutto finalizzato alla realizzazione del secondo principio della termodinamica adattata alla specie umana.
Il nostro argomento è infatti la teoria della cosiddetta Invasione “ariana”. Cercheremo di fare un po’ di luce su questa teoria e di indicare le ragioni e gli scopi per cui è stata inventata. Prima di tutto, dobbiamo analizzare il significato del termine ārya. È un aggettivo, spesso sostantivato, che deriva dalla radice verbale sanscrita ‘ṛ’ che significa stare in alto o muoversi in alto, alzarsi. Nella śruti e nella smṛti, ārya significa eccellente in saggezza, dignità e comportamento. Essendo il vertice della società umana, ārya è identico all’arcaico greco ari (ἄρι), elevato, alto, buono, distinto. Nel greco classico è rimasta solo come prefisso (soprattutto nella sua forma comparativa aristos-on, migliore) per nomi e aggettivi, compresi aristocratico, aristocrazia, e per i nomi propri come Arione, Aristide, Aristeo, Aristogitone, Aristocle, Aristofane e Aristotele, sempre con il senso di distinto, superiore. Ārya può quindi essere paragonato al latino nobilis, nobile, esimio, egregio, eminente, illustre, fuori dal comune.
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Coloro che hanno inventato la teoria dell’invasione evitano il termine sanscrito ārya preferendo invece l’uso del neologismo “ariano”. Questa parola è mutuata dal nome di un’eresia paleocristiana, l’arianesimo, una dottrina eterodossa predicata da un sacerdote chiamato Ario (256-336 d.C.). Questa eresia si diffuse soprattutto tra i popoli germanici e anglosassoni. La scelta del termine “ariano” al posto del sanscrito ārya non è quindi innocente: è un uso adattato all’uopo di un termine familiare agli occidentali. Per i sostenitori della teoria dell’invasione, gli “ariani” sarebbero stati un popolo, una razza, se nell’attuale clima di libertà ci fosse ancora permesso l’uso di questa parola, con tratti antropologici ben definiti. Nella loro fantasia, gli “ariani” dovevano essere un popolo nomade di alta statura, robusto, biondo, dalla pelle chiara, con occhi chiari, simile a certe popolazioni nordiche anglosassoni o scandinave, di temperamento aggressivo ed esponente di una civiltà barbara e nomade. Di certo erano una popolazione violenta, barbara e rozza, anche se, curiosamente, erano già in possesso della tecnologia della lavorazione del ferro (ayas) e avevano già domato anche il cavallo.
Tutto il contrario rispetto alle caratteristiche etniche delle popolazioni indigene, che con lo stesso sforzo della fantasia sono descritte di bassa statura, di struttura gracile, con pelle e capelli scuri, di natura pacifica e dotate di una civiltà tecnologicamente avanzata e sedentaria. Sebbene più progredite, erano ancora allo stadio tecnologico di lavorazione di uno pseudo bronzo, composto da rame e arsenico, da cui la loro presunta inferiorità militare. Come prova si vogliono ancora distinguere due diversi tipi umani tra gli attuali abitanti del Subcontinente: il primo sarebbe diretto discendente degli “ariani”; il secondo, rappresentato dai dravida e da certi gruppi chiamati ‘tribali’ 1. In breve: la banale distinzione marxista tra oppressori e oppressi.
Perché è sbagliato trattare gli “ariani” e i dravida come due etnie? Perché il primo termine si riferisce a un’élite sociale, il secondo a una divisione linguistica. Questi aggettivi appartengono a due ambiti diversi che non si sovrappongono. È come distinguere il colore rosso dal gusto salato. Quello che sappiamo è che la famiglia linguistica dravidica non è imparentata con nessun’altra lingua in Eurasia. Per quanto riguarda l’origine geografica delle persone che parlano le lingue dravidiche ci sono due ipotesi non suffragate da alcuna evidenza. La prima sostiene che siano indigeni, la seconda che provengano da qualche zona dell’attuale Iran e, sempre ipoteticamente, da una precedente dimora africana.
L’antica civiltà della valle del Bholan è stata ormai riconosciuta come la vera fonte della civiltà Indo-Sarasvatī. Fin dai tempi della civiltà Bholan i cosiddetti “ariani” e dravida coesistevano già in un’unica civiltà. Per tornare alla valle dell’Indo-Sarasvatī, tale composizione mista della popolazione è stata confermata anche dagli scheletri rinvenuti a Mehrgarh in Baluchistan, risalenti al 6-5 mila a.C. I rari cimiteri rinvenuti a sud delle città e dei villaggi di questa vasta area, che coprono un periodo che va dal settimo millennio al 1500 a.C., confermano questi dati antropici.
Pertanto, non erano presenti tipi umani scandinavi o simili. Ciò che è sconcertante, tuttavia, è che in tanti millenni non ci sia mai stata una mutazione nella composizione etnica della popolazione di quell’area fino ai tempi attuali. Quindi, non c’è traccia di presenza straniera in India, fino alle invasioni persiane, degli sciti e dei parti 2 avvenute tra il III secolo a.C. e il III secolo d.C. Allo stesso tempo, tra più di mille e duecento siti che sono stati scavati, nessun insediamento della civiltà dell’Indo-Sarasvatī mostra tracce di violente distruzioni, incendi o massacri. Per lungo tempo gli archeologi hanno discusso su ventiquattro scheletri trovati bruciati e calcinati sulla superficie dello strato più esterno di Mohanjo Daḍo. I primi scavatori britannici hanno ipotizzato che fossero i resti di un massacro compiuto dagli “ariani” durante la distruzione della città. Questa ipotesi è stata confutata.
Innanzitutto quei resti umani sono stati trovati sopra le rovine dello strato archeologico più superficiale. Poi è stato dimostrato che portavano tutti i segni di un’epidemia di tifo. Alla fine, la conclusione più recente è la seguente: i malati di tifo erano stati espulsi dai villaggi circostanti, in un periodo che risale al XV secolo a.C., e si erano rifugiati tra le rovine dell’antica città. Una volta morti, i loro corpi erano stati bruciati per evitare il contagio. Nessuno scheletro presentava segni di pugnalate o ferite d’ascia. In altre parole, l’archeologia nega l’arrivo di qualsiasi popolazione straniera e di una conseguente invasione bellica. Qual era, quindi, la composizione della popolazione di quelle grandi città e porti fluviali, come Mohanjo Daḍo, Kalibhangan, Harappa, Surkotada, dei porti marittimi di Dholavira e Lothal, più l’altro migliaio di città e villaggi? Semplicemente la stessa di oggi.
Tutti questi insediamenti umani hanno caratteristiche simili, appena cambiate nel corso dei secoli. La città era progettata con un piano urbano razionale. In essa possiamo ancora oggi distinguere i quartieri caratterizzati da residenze più ricche, da quelli con edifici riservati agli artigiani e ai mercanti, da quelle con case meno ricche ma ancora funzionali e dignitose. Appena fuori le mura della città, su una collina artificiale è stata costruita una cittadella fortificata, con edifici pubblici, forse templi, una piscina di abluzione e alcuni edifici residenziali. Solo in alcuni casi la cittadella era racchiusa all’interno delle mura cittadine. Non è difficile riconoscere come la cittadella, più alta del resto della città, rappresentasse il centro religioso e governativo. La struttura urbana, quindi, corrisponde ai modelli delle più recenti città indiane.
Nel 2000 ho diretto personalmente gli scavi della città di Kāmpilya, localmente conosciuta come Drupad Kilā, scoperta dal mio team vicino a Farrukhabad, che nel Mahābhārata è menzionata come la capitale del regno di Re Drupad del Pañcāla meridionale. La mappa di Kāmpilya, sorprendentemente, può essere perfettamente sovrapposta a Dholavira per forma, dimensioni e orientamento3.
Ciò dimostra che nel corso dei secoli l’urbanistica del Vastu Śāstra non è cambiata. Soffermiamoci un po’ sull’archeologia. Un’intera corrente di filologi occidentali e di filologi indiani di fede marxista o cristiana ha cercato di interpretare gli scritti della civiltà dell’Indo-Sarasvatī. Si sono mossi con l’intenzione unanime di dimostrare che la lingua scritta per mezzo di pittogrammi era una lingua dravidica. In particolare sono state le scuole filologiche sovietiche e finlandesi a indagare su questa materia per decenni, utilizzando strumenti informatici e multimediali sempre più sofisticati. Fiumi d’inchiostro sono stati scritti per dimostrare la certa origine dravidica: tutto al fine di affermare che il sanscrito, parlato dall’ipotetica popolazione degli “ariani” oppressori, era una lingua estranea all’India. Tutti questi sforzi sono stati vani: la scrittura della Valle dell’Indo-Sarasvatī non è mai stata decifrata.
Invero il sanscrito appartiene a una famiglia linguistica che è stata chiamata indoeuropea, diversa dal ceppo delle lingue dravidiche. Fino a qualche decennio fa prevaleva la filologia ottocentesca che descriveva lo sviluppo delle lingue a partire da un linguaggio primitivo, sul modello dell’‘albero della vita’ darwiniano. Ora, però, poiché l’opinione degli esperti è cambiata e le lingue sono raggruppate in famiglie, sono state riconosciute tre famiglie principali dell’indoeuropeo: il sanscrito-iranico, le lingue tuttora prevalenti in Europa e il tocarico.
Mi si permetta la seguente osservazione: glottologi e filologi confrontano metodicamente il sanscrito ṛgvedico con il persiano avestico, non considerando, in perfetta malafede, che c’è un divario di oltre duemila anni tra Ṛg Veda e Avesta. L’Avesta, infatti, è stato scritto in persiano dell’epoca sasanide (III-VII secolo d.C.). I rapporti tra le tre famiglie linguistiche citate, sono semplicemente segnati da affinità dovute alle reciproche influenze e non procedono da un’unica origine come richiede l’applicazione filologica della teoria darwiniana. Pertanto, la ricostruzione della cosiddetta lingua proto-indoeuropea è il risultato di un esercizio di fantasia, non diverso dal linguaggio artificiale esperantista.
Infine, poiché la scrittura della civiltà dell’Indo-Sarasvatī non è mai stata decifrata, non è possibile stabilire quale lingua vi si parlasse. Sembrerebbe che la scrittura sia stata scritta da destra a sinistra, come suggerisce un esempio di sovrapposizione. Nemmeno questa osservazione porta ad alcuna conclusione definitiva. Infatti, anche le lingue pracrite e il sanscrito delle iscrizioni in Brāhmī e Kharoṣṭhī sono state scritte indifferentemente da destra a sinistra e viceversa. Oggi, anche l’audace ipotesi di un’origine semitica di questi due alfabeti è stata negata. Pertanto, l’indagine sul sistema grafico harappano non porta alcun indizio sulla sua corrispondente lingua.
Tuttavia, l’archeologia ci porta alcune testimonianze materiali di grande utilità per ricostruire soprattutto l’aspetto religioso della civiltà con cui abbiamo a che fare. Ad esempio, la presenza di diversi liṅgam ci dice molto a riguardo. Un famoso glifo, inoltre, mostra un asceta con una testa di bufalo, assalito da una tigre che porta sulla schiena una figura umana.
Intorno all’asceta sono collocati una forma umana, un bufalo, un rinoceronte, un elefante. Con ogni probabilità è la rappresentazione iconica del mito di Mahiṣāsura e del suo duello con la dea Durgā. Come è noto, Mahiṣa, durante la battaglia narrata nel Devī Mahātmya, assunse la forma di un uomo, un rinoceronte, un bufalo, un elefante e d’una tigre. Questa seconda tigre è assente dal sigillo, che è mutilo. Nel Kālikā Purāṇa il mito è narrato negli stessi termini, ma la conclusione è un po’ diversa: dal cadavere dell’asura emerge infatti Rudra, che è la vera identità di Mahiṣa. E non è certo un caso che sotto il sedile dell’asura compaiano due gazzelle, che ricordano il mito vedico di Rudra che uccide due gazzelle, tradizionalmente identificate come Prajāpati e Uṣas.
Questi e altri dettagli alludono chiaramente alla tradizione tantrica. Molti indologi, soprattutto occidentali, sostengono che il tantrismo fosse l’antica religione pre-ariana, senza portare alcuna prova a questa teoria4.
Essi, al contrario, sostengono che è impossibile trovare tracce della tradizione vedica nella civiltà dell’Indo-Sarasvatī. Ma questo non è affatto vero: anche il dott. Asko Parpola, pur ardente sostenitore delle origini dravidiche di questa civiltà, ha scritto un libro che prova il contrario della sua stessa credenza. Questo libro analizza attentamente le sculture che si trovano in questa vasta area e che rappresentano le figure sacerdotali brahmaniche. In particolare, si concentra su quello che è comunemente noto come il Re Sacerdote. Questo dimostra al di là di ogni dubbio che l’abito indossato dai sacerdoti era una dhotī (sskr. dhautī) di forma esattamente uguale a quella indossata da brāhmaṇa ancora oggi. Si nota che l’abito indossato dal Re Sacerdote porta ancora tracce di colori rosso e blu negli interstizi del suo disegno che rappresenta il cielo stellato. Il dott. Parpola ha brillantemente identificato in questa dhotī l’abito tarpyā utilizzato dai sacrificatori vedici per i rituali più solenni. Oltre alle piscine d’abluzione circondate da colonne di mattoni, a Kalibhangan e a Lothal sono stati scoperti altari vedici del fuoco.
Un’altra caratteristica fu l’attenzione che gli abitanti della zona rivolsero ai bovini. Glifi, figure in argilla, decorazioni vascolari riproducevano ogni tipo di toro, bufalo, zebù, oltre ad altri animali cornuti. Ci sono centinaia di figure di un bovino considerato da alcuni come unicorno: si tratta evidentemente di un tipo di bue le cui corna appaiono sovrapposte. Le corna di bovino, inoltre, erano anche direttamente applicate alla testa di figure umane o innestate su un copricapo; anche tigri ed elefanti erano talvolta coronati da un paio di corna di bovino. Questo suggerisce una particolare attenzione religiosa al toro, che rimane oggi con il rispetto degli hindū per la mucca, il vitello e il toro, divinizzato come Nandin.
Inoltre, figure di persone in posizioni yogiche in sculture o incise nei glifi sono abbastanza comuni.
È anche indubbio che le sepolture erano piuttosto rare, mentre abbondano ceneri di cremazione raccolte in vasi di terracotta. A questo punto possiamo trarre alcune conclusioni. La tradizione religiosa di questa antica civiltà indiana ha lasciato chiare tracce di coesistenza della religione sacrificale vedica e del tantrismo, esattamente come si può verificare nell’attuale realtà del sanātana dharma.
Ora prenderemo rapidamente in considerazione le informazioni contenute nel monumento letterario più arcaico del mondo, la Ṛg Veda Saṃhitā. Secondo la teoria dell’invasione, il Ṛg Veda sarebbe stato elaborato, in un sanscrito ‘primitivo’, come testo sacro di un proto-induismo chiamato ‘Vedismo’, intorno al 1200 a.C., data vicina alla presunta invasione “ariana” dell’India settentrionale. Consideriamo brevemente queste prime affermazioni. Prima considerazione: il sanscrito vedico, lungi dal rappresentare una lingua primitiva, era in realtà più complesso del sanscrito classico di Pānini e di Patañjali: il sostantivo aveva otto casi invece di sette, la coniugazione dei verbi conosceva il modo congiuntivo, che è scomparso nel linguaggio classico, e l’ottativo aveva quattro tempi invece di uno solo. Inoltre, qui la regola biologico-darwiniana applicata alla linguistica di un’evoluzione da ‘semplice a complessa’ è completamente contraddetta.
Seconda considerazione: la datazione dei Veda è stata proposta da Friedrich Max Müller, il sanscritista della corte vittoriana, in seguito a questo ragionamento. Buddha visse nel 500 a.C. circa. Questo, almeno, fu stabilito dagli indologi europei di epoca coloniale. Tradizionalmente i buddhisti lo datavano intorno al mille a.C. Poiché alcune Upaniṣad, quali la Bṛhadāraṇyaka, la Chāndogya e la Taittirīya sono evidentemente pre-Buddhiste, quindi dovevano essere state scritte intorno al 600 a.C. Le Upaniṣad sono una letteratura altamente sofisticata e astratta. Pertanto, evoluzionisticamente parlando, devono rappresentare uno stadio avanzato della civiltà umana rispetto ai tecnicismi ritualistici di Brāhmaṇa e Āraṇyaka. Essendo quindi considerati ‘meno avanzati intellettualmente’, questi testi sono stati collocati in un periodo compreso tra l’800. e il 600 a.C. Le Sāma e Yajus Saṃhitā, su cui si basano Brāhmaṇa e Āraṇyaka, sarebbero state composte tra il 1000 e l’800 a.C. Il Ṛg Veda, che presenta il linguaggio più arcaico, è stato quindi datato da Max Müller intorno al 1200 a.C. Esso rappresenterebbe quindi il giovane e spontaneo canto poetico dei guerrieri “ariani” durante la loro invasione dell’India settentrionale.
Sono passati centocinquant’anni da quando è stata formulata questa datazione completamente ascientifica e arbitraria, e finora nessun indologo o sanscritista, nemmeno indiano di nascita, ha avuto il coraggio di denunciare la sua totale insensatezza.
A dire il vero, la data del Ṛg Veda in particolare, va riportata a tempi più antichi. In questa saṃhitā, soprattutto, il fiume sacro per eccellenza non è la Gaṅgā, ma la Sarasvatī, il più copioso, impetuoso e divino corso d’acqua a paragone degli altri fiumi della regione dei sapta sindhu (sette fiumi).
La Sarasvatī aveva origine dall’Himalaya orientale e scorreva da nord-est a sud-ovest quasi parallelamente all’Indo, attraversando il deserto di sale del Rann nel Kach (Kutch) in Gujarat5. Abbondante di acqua per diversi millenni, alimentata dai ghiacciai rimasti dall’ultima era glaciale, la Sarasvatī nel tempo perse il suo slancio, dividendosi in corsi d’acqua minori. Alla fine scomparve, inghiottita dal deserto del Thar (di cui il Rann è una propaggine), perché il suo sottosuolo non ha uno strato impermeabile di argilla. Abbondanti studi idrogeologici hanno dimostrato che il fiume Sarasvatī è scomparso completamente tra il 2000 e il 1900 a.C., lasciando solo alcuni sporadici meandri emergenti come il Gagghar, Hakra, Satlej e altri minori. Questo dimostra che i Veda, e il Ṛg Veda in particolare, attestano un’antichità molto più grande di quella ripetuta continuamente non solo nei libri di divulgazione, ma anche nei manuali universitari. C’è, però, un altro strumento di datazione che i Veda offrono e che non è falsificabile, cioè la memoria di eventi celesti. Il Ṛg Veda (V.40.5-9) descrive un’eclissi parziale di sole avvenuta sul meridiano di Kurukṣetra, nel pomeriggio del giorno seguente il solstizio d’estate. Questa eclissi può essere avvenuta solo il 26 luglio 3928 a.C. Herman G. Jacobi, nel 1894, basandosi sullo studio della precessione degli equinozi, retrodatò la composizione di Ṛg Veda intorno al quinto millennio a.C. Yajur Veda e Atharva Veda collocano l’equinozio di primavera, che oggi è in Pesci, in Kṛttikā nakṣatra (le Pleiadi), cioè dal 26° 40’ dell’Ariete al 10° del Toro; lo stesso vale per il solstizio d’estate, oggi in Cancro, che cade in Magha nakṣatra, dall’8° al 13° 20’ del Leone. Questi due dati corrispondono all’incirca al 2400 a.C. In questo modo il periodo di elaborazione dei Veda si collocherebbe tra il 4000 e il 2000 a.C. E sembra incredibile che tali dati non siano affatto presi in considerazione.
È notevole che le datazioni, ottenute raffrontando i dati geo-archeologici sulla scomparsa della Sarasvatī con i calcoli astronomici basati sulle descrizioni astrali letterarie, coincidano perfettamente. La civiltà descritta nei Veda e nel Ṛg Veda, in particolare, coincide con la fase matura della civiltà di Bholan e il suo sviluppo nella pianura dei sette fiumi. Gli ārya vi appaiono come una classe colta e raffinata, non certo votata al nomadismo, anche se si registrano colonizzazioni di nuove terre. Il famoso termine ayas, spesso tradotto come ‘ferro’, in realtà significa metallo in generale. E questo corrisponde esattamente ai risultati degli scavi archeologici che non hanno trovato alcuna presenza di manufatti in ferro in India se non dal 1300 a.C. in poi, cioè quando la civiltà vedica si era trasferita nel Doab, la terra tra il Gange e Yamunā, a causa della desertificazione del Thar e della scomparsa della Sarasvatī. È in quel periodo dell’età del ferro che il Gange fu riconosciuto come il principale fiume sacro dell’India.
Non c’è poi alcuna traccia di popolazioni indigene, più civili ma più deboli, da soggiogare. Tuttavia l’immaginazione dei sostenitori dell’invasione “ariana” ha trovato il modo di colmare questa lacuna. E così, le lotte mitologiche tra deva e asura, tra āditya e daitya o dasyu, sono state interpretate come guerre per la conquista dei territori degli abitanti originari (ādivāsi6) da parte degli invasori “ariani”. Purtroppo i Veda raccontano che āditya e daitya erano fratellastri, figli dello stesso padre, Kaśyapa, e di due sorelle: Aditi e Diti. Anche il rapporto tra deva e asura è simile: in molti passaggi gli asura sono definiti come antenati dei deva, come nella mitologia greco-romana i titani erano avi degli dei. Il passaggio dagli Dei della notte agli Dei solari avviene con il passaggio attraverso l’alba, Uṣas; ed è un dato di fatto che Varuṇa, il Dio della volta celeste, appare alternativamente come asura e deva. Inoltre, sia i deva sia gli asura sono divisi in quattro caste: per esempio Bṛhaspati è il Dio di casta brahmanica. Allo stesso modo, Vṛtra è un brāhmaṇa tra gli asura. Nel mito vedico, dopo aver ucciso Vṛtra, Indra ha dovuto subire lunghe penitenze perché lui, uno kṣatriya, aveva osato uccidere un brāhmaṇa. È definitivamente dimostrata essere pura ideologia la teoria secondo la quale nei Veda gli Dei siano le controfigure degli Ariani e gli asura o dasyu (o dāsa, cioè servo) della popolazione indigena schiava degli invasori.
Uno degli argomenti più forti a favore della teoria dell’invasione “ariana” è stata a lungo l’assenza di immagini di cavalli tra i risultati degli scavi della civiltà Indo-Sarasvatī. Erano stati trovati un paio di statuette in terracotta, forse giocattoli, e un unico sigillo raffigurante un cavallo; ma il dubbio restava se si trattasse di cavalli, asini o onagri, allora come oggi numerosi nel Gujarat. Infatti, i Veda fanno spesso riferimento all’importanza di questo animale domestico, che trascinava i carri da battaglia dei guerrieri ārya. Fu la vittima privilegiata dell’aśvamedha, il solenne sacrificio che, nel giro di un anno, consacrava un re (adhipā, rājanya) al rango universale di imperatore (samrāt, cakravartin). Sono noti anche nella mitologia vedica, Dadhikrā, il cavallo del re Trasadasyu, Dadhiañc, il saggio dalla testa di cavallo, i gemelli divini Aśvini, medici degli dei dalla testa di cavallo con il loro destriero Paidva, ed Etaśa, il cavallo del sole e molti altri.
Infine, però, a Surkotada sono stati trovati sei scheletri di cavallo databili tra il 2200 e il 1700 a.C. Quindi anche questo problema è stato definitivamente superato. La cosa più interessante è che questi scheletri hanno 34 costole, come i cavalli arabi, e non 36 come i cavalli dell’Asia centrale; questo conferma che non sono stati importati da invasori provenienti da Nord7. Rimane irrisolto il problema del perché il cavallo compaia una sola volta nei glifi, forse a causa di qualche divieto religioso. D’altra parte, nemmeno il leone indiano è mai raffigurato, anche se la regione dei sette fiumi è l’habitat naturale di questo grande felino.
C’è però un episodio importante narrato in Ṛg Veda (VII.18 e LXXXIII.4-8) che gli studi accademici non tengono sufficientemente in considerazione. È il racconto della Guerra dei Dieci Re. In sintesi si tratta del conflitto tra Sudāsa8, Re dei Purus orientali, le tribù alleate di Tṛtsu e di Bharata da una parte, e un’alleanza di dieci tribù dall’altra. Prima del conflitto, tutti i partecipanti di entrambe le schiere erano ārya. Ci asteniamo dal raccontare l’intero episodio. Basterà raccontare che alla fine Sudāsa prevalse, spingendo il nemico ai confini della patria ārya, l’āryāvarta. Alcuni di loro furono dichiarati anārya, ignobili, e scomparvero dall’area del Subcontinente. Le dieci tribù erano:
Alina: tribù di tipo Iranico che fu dichiarata anārya; occupò l’attuale Nuristan;
Anu: tribù ārya che rimase stabile in India;
Bṛghu: tribù ārya che rimase stabile in India;
Bhalana: tribù di tipo Iranico che fu dichiarata anārya; si stanziò nella valle del Bholan in Baluchistan;
Dāsa: in Persiano Daha, tribù di tipo Iranico che fu dichiarata anārya; migrò nell’attuale Turkmenistan;
Druhyu: tribù ārya che risiedeva nel Gandhara;
Matsya: tribù divisa in due gruppi: il primo, ārya, si stanziò sulla riva destra della Yamunā a sud del Pañcāla; il secondo, dichiarato anārya, chiamato Madhya in Iranico, cioè i Medi, si stanziò in Persia;
Parśu: i Persiani, tribù di tipo Iranico che fu dichiarata anārya;
Puru o Pṛthu era anche divisa in due gruppi: il primo, ārya, si stanziò nel Pañcāla del nord. I Kuru discendevano da quello; il secondo, diventò la tribù anārya dei Parti che si mossero verso la Persia;
Pani or Parni: tribù di tipo Iranico che fu dichiarata anārya; popolo conosciuto anche con il nome di Sciti o di Śāka, migrò in Transoxiana.
A proposito di questa guerra c’è un episodio importante9 che racconta di una battaglia vicino alla città di Hariyūpīyāh, dove i Puru furono sconfitti. Possiamo ipotizzare che Hariyūpīyāh sia oggi il villaggio di Harappa; è noto che i nomi geografici cambiano raramente. Molti toponimi sono di origine veramente preistorica.
Con questo mi sembra sia abbastanza chiaro che l’invasione degli “ariani” non ha un vero e proprio fondamento e che è stata prodotta in epoca coloniale per scopi precisi, che ora esamineremo.
Motivazioni pregiudiziali:
- Pregiudizio religioso. Per i cristiani, soprattutto i protestanti più attenti all’Antico Testamento della Bibbia, è poco tollerabile l’idea che ci possa essere una religione più antica di quella ebraica di Abramo e Mosè. La religione espressa nella Bibbia deve essere in ogni modo all’origine della storia spirituale dell’uomo. Pertanto, le civiltà apparse prima di quella ebraico-semita, devono essere postdatate per adattarsi alla Bibbia. E Max Müller è sempre stato un fervente luterano.
- Pregiudizio culturale. La civiltà storica più evoluta è la greca, che si è diffusa nel mondo antico attraverso l’espansione imperiale romana. Vale a dire, la civiltà occidentale. Tutto ciò che è diverso dalla civiltà occidentale deve essere considerato barbaro, corrotto, vizioso, dispotico. In una parola: ‘orientale’.
- Pregiudizio religioso-culturale. È la mescolanza dei primi due pregiudizi: la sublime civiltà greco-romana è stata perfezionata dalla rivelazione del Dio della Bibbia. Questo rappresenta la superiorità assoluta della civiltà occidentale sul mondo intero.
- Pregiudizio sociale. La schiavitù, cioè dove un essere umano è proprietà di un altro essere umano, è stata mantenuta fino al 1833 in Inghilterra; ma in India il sistema di obbligazioni o di schiavitù per debiti è stato usato dai Britannici fino al 1920. La schiavitù fu abolita solo nel 1848 in Francia e nel 1865 negli Stati Uniti, e così via. Nonostante ciò, gli europei continuano a criticare il sistema delle caste come disumano, sistema che è destinato a uomini liberi anche se gerarchicamente organizzati. Ciò ha portato a una valutazione moralistica sfavorevole all’India e a tutta la sua storia.
- Pregiudizio darwiniano. Nel corso dei millenni gli uomini sono progrediti grazie alla selezione naturale e all’adattabilità alle nuove circostanze. Una civiltà rimasta immutata per secoli e millenni deve essere il prodotto di una razza umana non evoluta. Pertanto, la razza bianca, e in particolare quella anglosassone, è la più evoluta e destinata a guidare le altre razze meno fortunate. Darwin stesso ha teorizzato i principi del razzismo biologico nel suo The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex.
- Pregiudizio progressista. In accordo con il punto precedente, una razza non evoluta non progredisce tecnologicamente, sociologicamente, politicamente.
Motivazioni ideologiche:
In questo contesto, gli stessi dati falsi sull’invasione di cui abbiamo parlato finora sono utilizzati in due modi diversi e apparentemente opposti. Il primo modo assume una visione favorevole all’invasione “ariana”:
- Ideologia colonialista. Secondo l’ipotesi darwiniana, il più forte deve sopravvivere e dominare. Gli “ariani” erano un popolo giovane, pieno di energia, perciò hanno prevalso sui deboli e decadenti indigeni, i cosiddetti dravida. Successivamente ci furono altre ondate di “ariani” che arrivarono in India, sottomettendo le ondate precedenti: i Parti, gli Sciti, i Sasanidi. Ognuna di queste ondate aveva il diritto del più forte di sottomettere l’ondata precedente, perché è allo stesso tempo una regola biologica e storica. È così che procede il progresso dell’umanità, che legittima il diritto di invasione. L’ultima invasione “ariana” legittima sarebbe stata quella britannica. Questo è stato affermato più volte nel Parlamento da Winston Churchill quando era segretario di Stato per le Colonie (1921-1922)10.
Il secondo tipo di ideologia considera l’invasione in modo negativo.
- Ideologia missionaria cristiana. Gli “ariani” hanno invaso l’India per imporre il loro dominio con la violenza sulle pacifiche popolazioni native. L’occupazione è stata poi mantenuta con l’imposizione del sistema delle caste. Gli invasori si imposero nelle tre caste dominanti, così i nativi, i veri abitanti dell’India, furono costretti a diventare servi degli “ariani”. Con la conversione e il battesimo, la casta dei servi poteva riacquistare un nuovo e più dignitoso status sociale. Anche gli inglesi erano cristiani protestanti, così gli ‘ādivāsi’ potevano acquisire diritti se non di uguaglianza, almeno di miglioramento sociale. In pratica, questo portò a una serie di conversioni, soprattutto tra i cosiddetti tribali. Nell’ambiente tribale, i missionari cattolici furono particolarmente attivi, aggiungendo un elemento rivoluzionario contro le alte caste considerate discendenti degli invasori, gli “ariani”. Dall’indipendenza dell’India in poi, s’è fatta spazio l’aberrante teologia della liberazione, con il conseguente sostegno dei missionari cattolici al terrorismo, soprattutto a quello tribale naxalita. Tuttavia, questa azione di sostegno ai gruppi eversivi si è spesso rivolta contro i suoi stessi propagatori. La buddhizzazione del movimento Dalit11 ha fortemente limitato i successi missionari cristiani.
- Ideologia marxista di varie tendenze. La predicazione dei diversi movimenti marxisti, marxisti-leninisti o maoisti era per molti versi simile a quella dei missionari cattolici, se non in collusione con essi. Anche qui l’obiettivo era quello di convertire gli strati più bassi della popolazione alle varie “chiese” comuniste. L’obiettivo era quello di scatenare una rivoluzione sociale e politica contro le classi dirigenti razziste, capitaliste e sfruttatrici, al soldo delle potenze imperialiste ed ex-colonialiste, per fare dell’India un vassallo dell’Unione Sovietica o della Cina.
- Pratica del Divide et impera: In questa pratica sono coinvolti centri di potere molto diversi tra loro, per indebolire l’Unione indiana o addirittura per spezzarla, continuando il lavoro iniziato con la Partizione. Si tratta di gettare i semi dell’odio tra i dravida del sud e gli “ariani” del nord e di predicare la secessione. Prima di tutto vi è la Cina con la sua politica di egemonia su tutta l’Asia, assistita dal Pakistan e in parte dal Nepal e dal Bangladesh, in secondo luogo, alcune multinazionali nordamericane, banche e speculatori finanziari. Questi ultimi gruppi si appoggiano per lo più alle sette protestanti e agli interessi israeliani, spesso in contrasto con quelli dei loro governi. Infine, la Chiesa cattolica e il suo piano di conversione di massa per far leva sulle classi più povere.
Bibliografia di base:
- Koenraad Elst, Still no trace of an Aryan Invasion: A Collection on Indo-European Origins, New Delhi, Aryan Books International, 2018.
- David Frawly, Myth of the Aryan Invasion of India, New Delhi, Voice of India, 2005.
- Swaraj Prakash Gupta, The lost Sarasvati and the Indus Civilization, Jodhpur, Kusumanjali Prakashan, 1984.
- S.P. Gupta, The Indus-Sarasvati Civilization, Delhi: Pratibha Prakashan (1996)
- Braj Basi Lal, The earliest Civilization of South Asia, New Delhi, Aryan Books International, 1997.
- B.B. Lal, The Rigvedic People: ‘Invaders’? ‘Immigrants’? or Indigenous?, New Delhi, Aryan Books International, 2015.
- B.B. Lal, India 1947-1997: New Light on the Indus Civilization, New Delhi, Aryan Books International, 1998.
- Bhagwan Singh, The Vedic Harappans, New Delhi, Aditya Prakashan, 1995.
- Navaratna Srinivasa Rajaram, Aryan invasion of India: the myth and the truth, New Delhi, Voice of India, 1993.
- N.S. Rajaram, Sarasavati River and the Vedic Civilization: History, Science and Politics, New Delhi, Aditya Prakashan,2006.
- Shrikant Talageri, The Aryan Invasion Theory: A Reappraisal, New Delhi, Aditya Prakashan, 1993.
- Shrikant Talageri, The Aryan Invasion Theory and Indian Nationalism, New Delhi, Voice of India, 2003.
- Sh.G. Talagheri, Rigveda and the Avesta: Final Evidence, New Delhi, Aditya Prakashan, 2009.
- Sh.G. Talagheri, The Rigveda: Historical analysis, New Delhi, Aditya Prakashan, 2015.
- Sh.G. Talagheri, Genetics and the Aryan debate: “Early Indians” Tony Joseph’s Latest Assault, New Delhi, Voice of India, 2019.
- Per la verità, nei cimiteri dell’Indo-Sarasvatī sono stati rinvenuti anche resti di tipi umani minoritari affini alle popolazioni iraniche, proto-australoidi e mongoliche. Le designazioni caucasici, mediterranei, e alpini sono designazioni ideologiche ‘antirazziste’, prive di basi antropometriche serie. Nel nord America con ‘caucasica’ si intende la razza bianca inclusiva dei due gruppi etnici ebraici, ma che esclude gli ‘ispanici’ e i mediorientali.[↩]
- Comunque, come vedremo più avanti quando parleremo della guerra dei dieci Re, queste popolazioni avevano arcaiche affinità etniche con gli abitanti dell’āryavarta, l’India del nord.[↩]
- G.G. Filippi & B. Marcolongo (ed. by), Kāmpilya: Quest for a Mahābhārata City, New Delhi, DK Printworld, 1999; B. Marcolongo (ed. by), First International Symposium on Kāmpilya Project, Padova, CNR, 2001.[↩]
- Ciò non tiene conto del fatto che la base di tutta la tradizione tantrica si trova principalmente nell’Atharva Veda, come testimonia la Muktikā Upaniṣad.[↩]
- Il deserto di sale s’è formato proprio a causa dello sprofondamento della Sarasvatī. Il fiume sfociava nel Mare Arabico dove oggi sorge la città di Dwarka.[↩]
- Termine gandhiano “politicamente corretto” che trasmette l’idea che questi popoli siano gli autentici abitanti originari dell’India, suggerendo così l’idea dell’”invasione ariana”. In realtà, la maggior parte di questi popoli che vivono nelle foreste, nei deserti e nelle montagne sono immigrati in epoca medievale dall’Indocina, dal Pamir e dagli altipiani del Transhimalaya, se non addirittura dalla Cina meridionale.[↩]
- Bökönyi, Sándor, “Horse remains from the prehistoric site of Surkotada, Kutch, late 3rd millennium B.C.”, South Asian Studies, 13, 1997. Cfr. the archaeological reports of J.P. Joshi and A.K. Sharma in Archaeological Survey of India. Indian Archaeology 1974-75.[↩]
- Il nome del Re contiene il termine dāsa, servo. Tuttavia, egli non era di casta servile né era un dasyu (o un dravida secondo la Teoria dell’Invasione). Al contrario, fu l’eroe campione degli ārya.[↩]
- Ṛgveda, VI.27.4-8.[↩]
- Ovviamente, questa teoria non ha mai tenuto conto delle invasioni degli arabi e dei turco-mongoli che non sono “ariani”.[↩]
- “Gli oppressi”, termine moderno e ideologizzato per definire i caṇḍāla, gli intoccabili resi impuri dal mestiere che svolgono, come quello dei becchini, dei macellai, dei conciatori di pelli ecc. I dalit, attratti dalla possibilità di avanzare socialmente, in passato si convertirono all’islam o al cristianesimo (soprattutto cattolico). Nel XX secolo preferirono passare a un “buddhismo riformato”, confezionato a loro misura, considerando che si trattava di una religione autoctona e non di provenienza straniera.[↩]