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10 Maggio, 2020

5. Il post mortem dei sādhaka secondo la dottrina di Śaṃkarācārya

    Il post mortem dei sādhaka secondo la dottrina di Śaṃkarācārya – V

    BRAHMA SŪTRA ŚAKARA BHĀṢYA

    IV Adhyāya – 3 Pāda

    Domanda: È stabilito che fino al punto in cui cominciano le [due] vie il processo di abbandono del corpo è simile. Ma la stessa via [del devayāna] è descritta in forma differente nelle diverse Upaniṣad. In una il percorso inizia con la connessione tra le nāḍī e i raggi solari: “Egli dunque sale lungo proprio questi raggi” (ChU VIII.6.5). In un’altra si parte dalla fiamma: “Essi salgono alla divinità della fiamma, da questa alla divinità del dì…” (BU VI.2.15). Il sentiero è così ulteriormente descritto: “Raggiungendo il sentiero degli Dei, egli va al mondo del fuoco” (KauU I.3). Infine, c’è ancora un’altra descrizione: “Liberi da ogni impurità, procedono lungo il cammino del sole dove dimora quel Puruṣa immortale e immutabile” (Muṇḍaka Upaniṣad (MuU), I.2.11). Perciò può sorgere il seguente problema: si tratta di vie differenti tra loro o sono la stessa via descritta in modo diverso?

    Oppositore del Vedānta: Quando ci si trova in tali frangenti si deve concludere che questi sentieri sono di sicuro diversi per il fatto che, riferendosi a [risultati di] varie pratiche di meditazione, si trovano in differenti contesti. Inoltre, la sicura affermazione “Egli dunque sale lungo proprio questi raggi” (ChU VIII.6.5) dovrà essere riconsiderata se si dà credito all’altra che riguarda la fiamma ecc. (BU VI.2.15). Allo stesso modo sarà messo in discussione anche il passaggio circa la velocità [di tale processo] “Egli raggiungerà il sole alla stessa velocità con cui la mente meditando va da un oggetto a un altro” (ChU VIII.6.5.). Perciò queste vie devono obbligatoriamente essere diverse tra loro.

    Vedāntin: Noi rispondiamo con il sūtra:

    1. [Il jīva se ne va] per la via che comincia dalla [luce della] fiamma, come è ben risaputo.

    Affermiamo che tutti quelli che raggiungeranno Brahman1 devono procedere lungo la via che inizia dalla fiamma. Perché con “come è ben risaputo” si vuole esprimere che questa via è ben nota ai saggi. Nel passaggio della śruti che dichiara “Coloro che così conoscono e coloro che con śraddhā meditano sul Brahman reale nella foresta, salgono alla divinità della fiamma” (BU VI.2.15), meditazione che riguarda i cinque fuochi, veniamo a conoscenza che, anche quelli che praticano altri tipi di meditazione procedono sulla via che parte dalla fiamma.

    Oppositore: Può darsi che questa via che parte dalla fiamma possa essere attribuibile a quelle meditazioni per le quali non si menziona alcun percorso. Ma nei passaggi testuali in cui sono descritti sentieri differenti, perché li si dovrebbe fare coincidere con questo percorso che inizia dalla fiamma?

    Vedāntin: Questa obiezione potrebbe essere valida se i percorsi descritti fossero completamente diversi. Ma di fatto questa strada che conduce al Brahmaloka è sempre la stessa anche se, avendo molte caratteristiche, in certi passaggi è descritta solo con alcune tra esse. Questo è quanto sosteniamo: poiché in tutte le differenti descrizioni i particolari possono essere riconosciuti come singoli aspetti dello stesso percorso, si può comprendere che fanno parte di un unico disegno, collegati tra loro da tutta una serie di nomi e aggettivi. Esattamente come una meditazione può essere compiuta su vari oggetti in fasi diverse e, alla fine, quegli aspetti differenti devono essere unificati poi in una singola esperienza, così anche le caratteristiche di questa via devono essere integrate tra loro. Sebbene le meditazioni possano differire, il cammino deve essere lo stesso, poiché è chiaro che si tratta di una serie di tappe sulla stessa via, presentate come suoi aspetti particolari; perciò la meta da raggiungere attraverso tutti [quei singoli passaggi] è la medesima. Che, seppure tramite differenti rappresentazioni, si punti allo stesso risultato è evidente dalle seguenti citazioni: “In quei mondi di Brahmā raggiungono la perfezione e vi permangono per un incalcolabile numero di anni. Essi non ritornano quaggiù.2” (BU VI.2.15); “Egli vive lì per anni illimitati” (BU V.10.1); “Vince ovunque e ottiene la stessa qualità onnipervadente di Brahmā” (KauU I.4); “Quelli che ottengono il Brahmaloka per mezzo del brahmacārya” (ChU VIII.4.3). L’obiezione secondo cui, se si accettasse la via che parte dalla fiamma, allora si contraddirebbe l’inequivocabile affermazione: “Egli dunque sale lungo proprio questi raggi” (ChU VIII.6.5), non pone alcuna vera difficoltà, poiché questo testo intende semplicemente indicare il raggiungimento dei raggi3. In base alla sola parola ‘proprio’ non si può sostenere che il raggiungimento dei raggi si contrapponga all’uscita attraverso la fiamma. Si deve perciò capire che quel testo semplicemente mette in evidenza il collegamento con i raggi. Nemmeno la via che parte dalla fiamma può essere contrapposta al passaggio che tratta della velocità [con cui il jīva procede] (ChU VIII.6.5), perché con ciò si vuole semplicemente dire che si raggiunge Brahmā più rapidamente di altre mete: è come quando si dice «sarò lì in un istante». Inoltre, il passo “Essi non se ne vanno per nessuno di questi due percorsi” (ChU V.10.8), che accenna a una terza categoria4, dimostra che, a parte la via degli antenati, c’è solo quella degli Dei a essere suddivisa in tappe quali la fiamma e le seguenti. Inoltre, in alcuni testi upaniṣadici che parlano del percorso che inizia dalla fiamma, le tappe sono piuttosto numerose, mentre sono poche in altri testi, ed è logico che il numero minore debba essere contenuto in quello maggiore. In base a questa considerazione è stato detto: “Il jīva percorre la via che parte dalla fiamma perché ciò è ben noto.

    2. [Il jīva di chi conosce il Brahman qualificato,] dall’anno raggiunge l’aria, in base all’assenza e alla presenza di precisazione.

    Questa volta le tappe dell’ascesa dell’anima dovranno essere descritte in un ordine preciso, indicandone nomi e qualità. Tale descrizione deve essere trasmessa da un maestro che si comporta amorevolmente. I [maestri che appartengono alla tradizione Kauśītaki] interpretano il loro viaggio in questo modo: “Raggiunta questa via degli Dei, egli va al mondo del Fuoco, va al mondo dell’Aria, va al mondo di Indra, va al mondo di Prajāpati [Viraṭ] e raggiunge il mondo di Brahmā” (KauU I.3). In questo contesto con “mondo del Fuoco” essi intendono la fiamma (BU VI.2.15), in quanto entrambi i termini descrivono la cremazione: così non è necessario alcuno sforzo per riconoscere in che ordine stiano. Ma dove si situerà l’Aria, dato che non è menzionata nel percorso che comincia dalla fiamma? La risposta è prontamente trovata nel medesimo testo menzionato: “Essi raggiungono la fiamma, dalla fiamma al dì, dal dì alla quindicina luminosa della luna, dalla quindicina luminosa ai sei mesi del viaggio del sole verso nord, dai sei mesi all’anno, dall’anno alla divinità del sole” (ChU V.10.1). La posizione dell’Aria deve stare tra l’anno e la divinità del sole. Si sa questo proprio “in base all’assenza e alla presenza di precisazione5. È così che sulla posizione dell’aria, che non si trova nel testo “va al mondo dell’Aria” (KauU I.3), si esprime chiaramente un’altra Upanisad: “Quando un uomo se ne parte da questo mondo, raggiunge l’aria, che per lui crea un’apertura come il mozzo di una ruota di carro, sale attraverso di essa e raggiunge il sole” (BU V.10.1). Poiché in questo testo l’aria è situata con precisione prima del sole, le deve essere assegnata una posizione tra l’anno e il sole.

    Oppositore: Perché, per la stessa ragione, dopo aver saputo che è menzionata la precisazione che l’aria viene dopo il fuoco (Kau I.3), l’aria non dovrebbe essere posta subito dopo la fiamma?

    Vedāntin: Noi affermiamo che tale precisazione non esiste.

    Oppositore: Ma come, non è stato forse citato il testo: “Raggiunta questa via degli Dei, egli va al mondo del Fuoco, va al mondo dell’Aria… (KauU I.3)”?

    Vedāntin: Quel testo soltanto enumera le cose una dopo l’altra, senza voler indicarne l’ordine preciso. Ciò che si raggiunge è qui elencato dicendo che il jīva va in tale o talaltro mondo; invece nel testo [della BU V.10.1] si spiega che, per raggiungere il sole, egli passa oltre un’apertura stretta come il mozzo di una ruota di carro, specificando così chiaramente l’ordine di successione. Perciò l’affermazione “in base all’assenza e alla presenza di precisazione” è razionalmente sostenibile. Tuttavia, i Vājasaneyin6 ne danno questa lettura: “dai mesi al mondo degli Dei (devaloka), dal mondo degli Dei al sole” (BU VI.2.15). Secondo quel testo, il jīva dovrebbe raggiungere l’aria salendo dal mondo degli Dei7, cosicché il sole dovrebbe essere posto subito dopo. Ma quando il sūtrakāra dichiara che l’anima raggiunge l’aria provenendo dall’anno, si basa sulla Chāndogya (V.10.1). Dunque, la Chāndogya non menziona il devaloka e la Bṛhadāraṇyaka ignora l’anno. Ma, poiché tutte e due sono autorevoli, si dovranno aggiungere entrambe le tappe. Per metterle in ordine si deve dedurre che l’anno, essendo connesso con i mesi, deve essere posto prima e il mondo degli Dei dopo.

    3. Varuṇa va collocato dopo la folgore essendo connesso con l’acqua.

    Nella śruti: “Va dal sole alla luna, dalla luna alla folgore” (ChU IV.15.5), Varuṇa deve essere posto dopo la folgore in forza del testo: “Egli va al mondo di Varuṇa” (KauU I.3), perché la folgore e il dio della pioggia sono connessi tra loro. Quando lunghi fasci di folgori danzano nelle viscere delle nuvole con rombi di tuono, poi cade la pioggia, come si legge anche nei Brāhmaṇa [qui per Upaniṣad]: “Scoppiano lampi e rombano tuoni: pioverà sicuramente” (ChU VII.11.1). Śruti e smṛti ci insegnano che Varuṇa è il dio delle acque. Sopra Varuṇa stanno Indra e Prajāpati, perché lo stesso passo citato dalla Kauṣitakī Upaniṣad lo afferma e non si può trovare da nessuna parte un’altra collocazione per loro. Il Varuṇaloka e i mondi seguenti devono essere situati verso la sommità, in quanto sono gli ultimi citati e non sono stati posti nel tratto che inizia dalla fiamma e arriva al mondo della folgore (Cfr. ChU IV.15.5; BU VI.2.15).

    Domanda: Ci si può chiedere se la fiamma e le seguenti tappe debbano essere considerate come segnali sulla via, come mondi di fruizione oppure come guide per i jīva che stanno salendo.

    Oppositore: A questo punto, la conclusione a cui si arriva è che sono semplicemente segnali sulla via, dato che sono descritti come semplici punti di riferimento. Anche nell’esperienza comune, quando qualcuno vuole andare in un villaggio o in città, gli si danno istruzioni come: «Raggiungi quella collina, poi troverai un albero di banian, poi un fiume e poi finalmente raggiungerai il villaggio o la città». Allo stesso modo, qui si dice: “Dalla fiamma al dì, dal dì alla quindicina luminosa” e così via. Oppure potrebbero essere mondi di fruizione [bhogaloka]. Infatti, il fuoco e le altre tappe sono anche chiamati con la parola mondo (loka), come, per esempio “Egli va al mondo del fuoco” (KauU I.3). Nel linguaggio comune la parola loka è usata per indicare luoghi dove si fanno esperienze [di certi risultati] come, per esempio: “Il mondo degli uomini, il mondo dei pitṛ, il mondo dei deva” (BU I.5.16) e così via. Anche in un testo tratto dai Brāhmaṇa si trova: “Essi si associano al mondo dei giorni e delle notti” (Śātapātha Brāhmaṇa, X.2.6.8). Perciò la fiamma e le altre divinità non sono guide. Inoltre, esse non possono logicamente condurre dei jīva perché non sono esseri coscienti e nell’esperienza quotidiana è un uomo competente che, su incarico di un Re, accompagna altri per rotte sconosciute.Vedāntin: Noi rispondiamo con il sūtra seguente:

    1. Come sarà evidenziato di seguito, in questo contesto con Brahman si intende sempre il non-Supremo, Brahmā.[]
    2. BU VI.2.15.[]
    3. Infatti una tale interpretazione letterale comporterebbe anche l’idea che chi muore di notte non possa raggiungere il devayāna; difficoltà che è facilmente superata se si integrano i testi che parlano dell’uscita dalla fiamma con quelli della risalita lungo i raggi solari.[]
    4. D’altronde quei piccoli esseri che trasmigrano senza posa, non sono nati seguendo nessuna di queste due vie. Questa terza condizione è descritta dalle parole «Vivi e muori!».” (ChU V.10.8) Śaṃkara così commenta: “Questi piccoli esseri come tafani, zanzare, pulci […] Questo percorso trasmigratorio è tanto doloroso che deve essere evitato. Anche perché le piccole creature, la cui vita passa solo sperimentando la sofferenza della nascita e della morte, abbandonate senza alcuna zattera alla terribile oscurità d’un abisso senza fondo da cui è difficile uscire, sono senza speranza d’attraversarlo. Si dovrebbe evitare, avere paura, detestare questo destino della trasmigrazione, in modo che non si possa ricadere in questa terribile, vasta corrente del saṃsāra.” (ChUŚBh V.10.8). L’immediata trasmigrazione, senza nemmeno passare per i naraka, è dovuta alla rituale dissipazione del prāṇa, e dei relativi prolungamenti sottili, di quei demoni umani (mānuṣa rākṣasa) che: “posseduti da desideri insaziabili e pieni di ipocrisia, superbia e ira, con perversa intenzione nata dall’illusione, compiono rituali a fini dissacranti […] nati in grembi diabolici, quegli stolti non vengono mai a me e peggiorano continuamente la loro condizione, o figlio di Kuntī.” (BhG XVI.10; 20)[]
    5. Per il Nyāya, “assenza e presenza di precisazione” significa che se un testo della śruti non menziona un certo particolare, un altro testo che tratta dello stesso argomento può fornire la precisazione richiesta: un testo integra l’altro. Al contrario, nel caso che un testo non precisi un particolare e che non si trovi alcuna ulteriore precisazione in altre parti della śruti, si dovrà recedere da ogni conclusione definitiva. Secondo il Vedānta, tale vuoto di informazione potrà essere riempito soltanto dall’esperienza dell’intuizione universale.[]
    6. I successori della linea di maestri fondata dal ṛṣi Yājñavalkya, appartenenti alla scuola dello Yajur Veda bianco.[]
    7. Si tratta degli svarga, i mondi di fruizione per i salvati, ovvero la sezione più alta del pitṛloka, che il jīva devayāni incrocia in questa fase. Invece, come si è già visto, il jīva pitṛyāṇi attraversa il pitṛloka immediatamente prima di raggiungere il cielo della luna.[]

    3. La Bhāvana Upaniṣad

      La Bhāvana Upaniṣad – III

      IV. Le caratteristiche di Śrī Vidyā

      La tradizione di Śrī Vidyā, in cui la meditazione sullo Śrī Cakra occupa la posizione centrale, annovera tra i suoi fondatori divinità, semidei (siddha1) e saggi. Si conosce, di norma, una lista di dodici maestri: Manu, Candra, Kubera, Lopāmudrā, Manmatha, Agastya, Nandīśa, Sūrya, Viṣṇu, Skanda, Śiva e Durvāsa. Si dice che ognuno di essi abbia fondato una propria scuola caratterizzata da una forma particolare di adorazione e di significato dello Śrī Cakra. Tuttavia solo due di esse si sono affermate: la dottrina istituita dal semidio Manmatha, chiamato anche Kāmarāja2, da cui il nome della scuola “Kāmarāja vidyā3, poi trasmessa dal saggio Agastya. L’altra scuola, fondata dalla moglie di Agastya, Lopāmudrā, è chiamata “Hādi mata”. La terza scuola ancora esistente, meno importante e meno seguita, è nota come “Sādi mata”. Ci limiteremo, perciò, a considerare principalmente le catene iniziatiche delle kādi e hādi mata.

      La scuola fondata da Manmatha, è chiamata “Kādi mata” (‘che comincia con ka’) perché il mantra di base, formato da quindici lettere che la caratterizza, inizia con la lettera ka. Non è soltanto più antica, ma anche più elevata (sāttvika) della “Hādi mata”. Tra i maestri divini di tale scuola si annoverano Paramaśiva, Durvāsa, Hayagrīva e Agastya. I testi fondamentali della sua dottrina sono il Vāmakeśvara Tantra, il Tantrarāja Tantra, lo Yoginī Hṛdaya, il Tripurārṇava, il Parānanda Tantra, lo Svacchānanda Tantra, la Lalitā Triśatī, il Tripurā Rahasya e il Śaktisaṃgama Tantra.

      Delle quindici lettere del mantra del Kādi mata ancor oggi in uso, il primo gruppo di cinque lettere o vāgbhava kūṭa (ka u ī la hrīṃ) è “kādi vidyā”, in quanto inizia con la lettera ka, ed è efficace per ottenere sapienza; il secondo gruppo di sei lettere (ha sa ka ha la hrīṃ), detto “hādi-vidyā” perché inizia con la lettera ha, è considerato il culmine dell’efficacia del mantra insegnato da Kāmarāja (kāmarāja kūṭa) poiché trasmette sapienza e potenza. Il terzo gruppo di quattro lettere (sa ka la hrīṃ), in cui prevale la potenza o śakti kūṭa del mantra, è chiamato “sādi-vidyā” in quanto inizia per sa.

      La scuola fondata da Bhagavatī conta tra i suoi divini fondatori Parameśvara, Paraśakti, Kālatāpānanda Nātha. È chiamata “Hādi mata” (‘che comincia con ha’) perché il mantra di base, formato da quindici lettere che la caratterizza, inizia con quella lettera. Questa scuola si richiama soprattutto all’autorità della Tripura Upaniṣad. Delle quindici lettere del mantra del Hādi mata, il primo gruppo di cinque lettere o vāgbhava kūṭa (ha sa ka la hrīṃ) è “hādi vidyā”, in quanto inizia con la lettera ha, è efficace per ottenere sapienza; il secondo gruppo di sei lettere (ha sa ka ha la hrīṃ), anch’esso detto “hādi-vidyā” perché inizia con la lettera ha, è considerato il culmine dell’efficacia del mantra insegnato da Lopamudrā, poiché trasmette sapienza e potenza. Il terzo gruppo di quattro lettere (sa ka la hrīṃ), in cui prevale la potenza o śakti kūṭa del mantra, è chiamato “sādi-vidyā” in quanto inizia per sa.

      Le tre scuole dedicano le cinque sandhyā quotidiane4 a divinità differenti. Nella scuola Kādi (chiamata anche Kālī karma), all’alba è adorata Kāmakalā Kālī, Bhuvaneśvarī al mezzodì, Chāmuṇḍā al pomeriggio, Samaya Kubjikā al tramonto e Kādi Pañcadaśī a mezzanotte. Nella scuola Hādi (chiamata anche Sundarī Karma) le divinità, venerate negli stessi cinque tempi, sono rispettivamente Ādyā Kālī, Tārā, Chinnamastā, Bagalā e Hādi Pañchadaśī. Questa adorazione è sconsigliata ai gṛhastha (capifamiglia). Nella scuola Sādi (anche detta Tārā Karma) le divinità venerate sono Dakṣinā Kālī, Tārā, Bālā, Jñāna Sarasvatī e Sādi Pañchadaśī. La dottrina Kādi è indicata come sāttvika, la Hādi rājasa e la Sādi come tāmasa5.

      Ci sono tre principali procedure per la meditazione dello Śrī Cakra: 1) Hayagrīva saṃpradāya, in cui l’adorazione è nella linea del dakṣiṇācāra o tantrismo della ‘mano destra’; vi si utilizza l’invocazione dei mille nomi di Lalitā (Lalitā Sahasraranāma) e dei trecento nomi di Lalitā (Lalitā Triśatīnāma) con l’offerta di zafferano (kuṅkuma); 2) l’Ānanda Bhairava saṃpradāya in cui la meditazione segue il vāmācara, la ‘mano sinistra’; infine 3) il Dakṣiṇāmūrti saṃpradāya, in cui si medita in accordo con il samayācāra, la scuola dottrinale. La terza via è ritenuta la più intellettuale e più nobile.

      In quest’ultima prospettiva, la meditazione dello Śrī Cakra segue una triplice modalità di concentrazione mentale. La prima modalità, quella della manifestazione (sṛṣṭi krama), richiede una concentrazione sui nove cakra compresi tra il punto centrale e il quadrato esterno; la seconda modalità di sviluppo o mantenimento (sthiti krama) dirige l’attenzione muovendo dal quadrato esterno al loto di otto petali, per poi estendersi dal punto centrale alla figura di quattordici angoli, in due alternati momenti di concentrazione ed espansione. Infine la modalità della dissoluzione (samhara-krama), concentrandosi partendo dal quadrato esterno verso il punto centrale.

      La modalità della manifestazione è usata per la pūjā dell’alba, quella del mantenimento al mezzogiorno, e quello della dissoluzione durante la notte. In aggiunta ai nove cakra dello Śrī Yantra, la meditazione in questa pratica è condotta fino ai tre cerchi concentrici (trivṛtta) tra il quadrato esterno e il loto di sedici petali. Questa parte è presente nel disegno di Śrī Cakra usato dall’Ānanda Bhairava saṃpradāya, ma questa adorazione non è guidata. Nel disegno di Śrī Cakra usato dall’Hayagrīva saṃpradāya questo dettaglio è del tutto assente.

      V. L’Atharva Veda

      La Bhāvana Upaniṣad è un breve testo che tratta del simbolismo dello Śrī Cakra e mette in evidenza l’importanza della meditazione su tale simbolo. È descritto come un’Upaniṣad nel senso di “dottrina segreta” e della “più alta sapienza”. È incluso nella classica raccolta delle 108 opere upaniṣadiche canoniche elencate nella Muktikā Upaniṣad (I.5) e, in particolare, nel gruppo di libri conosciuti come Śākta Upaniṣad, le Upaniṣad che esaltano la prospettiva tantrica e cercano di conciliarla con la tradizione vedantica.

      Tali Upaniṣad sono principalmente accorpate all’Atharva Veda. La Muktikā Upaniṣad, anch’essa una Upaniṣad minore, ne menziona più di 1.180, anche se ne enumera una lista di solo 108, divise in cinque gruppi: 10 di esse afferiscono al Ṛg Veda, 32 allo Yajur Veda Nero, 19 allo stessoYajur Veda Bianco, 16 al Sāma Veda, e 31 l’Atharva Veda. Tale classificazione, tuttavia, non è condivisa da tutti.

      Le Upaniṣad classiche, che costituiscono il primo blocco delle scritture tradizionali fondamentali della triade testuale vedica, sono circa trenta. Il maestro Śaṃkara Bhagavatpāda ha scritto il commento (bhāṣya) a dieci Upaniṣad e ha definito altre tre come autorevoli. Sono tutte parti integranti o dei Brāhmaṇa o delle Saṃhitā, in cui si divide la summa vedica. Sono recitate negli śākhā 6 vedici e quindi sono di indubbia antichità. Inoltre esse sono di natura puramente intellettuale, fondamentali per il pensiero indiano.

      In contrapposizione a queste, vi sono numerose Upaniṣad minori che sono in uso tra aspiranti e discepoli. La maggior parte di esse hanno poco in comune per stile o contenuto con le Upaniṣad maggiori e, quindi, appaiono plausibilmente di più recente composizione. Il pensiero che vi è trasmesso non è puro né fondamentale né originale né universale. Spesso prendono in prestito parole e frasi delle Upaniṣad più antiche, senza alcuno sforzo di cambiare qualche parola per dissimularne l’origine. Molti di questi testi, per approccio dottrinale e per essere rivolti a una particolare divinità, sono espressione di un singolo saṃpradāya, quindi è possibile classificarli come Śaiva, Vaiṣṇava, Śākta, Yoga Upaniṣad e così via. Sebbene vogliano essere delle Upaniṣad, giacché uniformemente rifiutano il comune ritualismo del karma kāṇḍa enfatizzando gli aspetti esoterici del rituale, presentano uno stile aforistico più simile a quello dei sūtra. Non è raro che le loro asserzioni siano troppo concise per essere chiare, troppo enigmatiche per essere prese alla lettera. Tuttavia, se si considera lo stile in cui è stata tramandata la Māṇḍūkya Upaniṣad, che fa parte delle Upaniṣad più importanti, questa tendenza era presente già da allora.

      La categoria di Upaniṣad di cui fa parte la Bhāvana è di fatto composta da testi tra loro autonomi, accorpati principalmente all’Atharva Veda. Quest’ultimo è senza dubbio la più recente aggiunta al corpus vedico il quale, anticamente, era rappresentato soltanto dalla triade dei Ṛk, Yajus e Sāman. Che queste Upaniṣad si siano state inserite nell’Atharva Veda è comprensibile, perché non sono soltanto perfettamente armonizzate alle varie parti della sua struttura, ma sono anche coerenti con il fine e lo spirito ātharvaṇa; sarebbe stato, perciò, impossibile includere questi testi in qualsiasi altra raccolta del triplice Veda. Le Upaniṣad accorpate all’Atharva Veda sono più di cento. La maggior parte di esse è raggruppata nel Caraṇa Vyūha, sezione dell’Atharva Pariśiṣṭa, che ne è un’appendice.

      L’inclusione di queste Upaniṣad all’Atharva Veda si spiega anche per un altro motivo. Sāyaṇa7, il più autorevole commentatore vedico, nel saggio introduttivo al suo commento dell’Atharva Veda disquisisce a lungo sui problemi della validità e dell’autenticità di questo Veda. Forse è da queste sue argomentazioni che è emerso il dubbio sulla genuina appartenenza dell’Atharva al corpus vedico. I ṛṣi degli inni ātharvaṇa non figurano nei tradizionali indici (anukramaṇī) dei compilatori del Veda. L’insieme delle tre raccolte, Ṛk, Yajus e Sāman, non solo è chiamato triplice (trayī) in tutte le antiche opere sulla conoscenza vedica, Tantra compresi, ma è completo e coerente in tutte le sue parti.

      Ciò nonostante Sāyaṇa sostiene che l’Atharva Veda è autentico quanto gli altri tre Veda, e che a esso è stato giustamente riconosciuto, come agli altri tre, l’alto appellativo di Brahma Vidyā8. Vi erano tre categorie di sacerdoti che officiavano il sacrificio vedico, ognuno dei quali era specializzato in una delle raccolte di testi vedici: hotṛ era l’officiante nella tradizione rituale del Ṛg Veda, l’adhvaryu dello Yajur Veda e l’udgatṛ del Sāma Veda. Il rituale necessitava di un altro sacerdote che coordinasse l’attività dei tre sopra menzionati come esperto ritualista principale del sacrificio. Era chiamato brahmā e doveva essere esperto, oltre che dell’Atharva Veda, testo di cui era specialista, anche degli altri tre Veda. Sua responsabilità era guidare il rituale nella sua unità, controllare lo svolgimento corretto del sacrificio prevenendo sbagli e imprecisioni. Era suo compito, inoltre, ottemperare con riti correttivi le indesiderabili conseguenze degli errori nella recitazione dei mantra o nella esecuzione degli atti rituali.

      L’importanza del brahmā era anche dovuta alla sua conoscenza perfetta del senso (artha) degli inni usati durante il sacrificio, mentre agli altri celebranti era sufficiente sapere come articolare i mantra in modo appropriato e come compiere in sequenza i numerosi atti rituali. Secondo Sāyaṇa, le parti essenziali del sacrificio, praticate grazie al preciso uso delle formule e del loro significato, erano descritte nei tre Veda; ma l’intenzione generale era trasmessa soltanto dal quarto, l’Atharva Veda9. Per questa ragione l’Atharva Veda assunse primaria importanza nell’esegesi vedica. Sebbene esso costituisse, anticamente, poco più che un motivo di discussione dottrinale, il contenuto di questo Veda divenne poi popolare e influente. Infatti la tradizione seguita delle masse era guidata più dalle prescrizioni di quest’ultimo Veda piuttosto che da quelle dei primi tre.

      L’Atharva Veda si distingue in modo caratteristico dalla triade più arcaica per linguaggio, stile, struttura e contenuto. Ignora completamente il contesto sacrificale e fini ultramondani, mentre focalizza l’attenzione su riti apotropaici e terapeutici, su procedure e pratiche per ottenere benefici specifici di questo mondo come salute, longevità, benessere, piaceri, potere politico, eliminazione degli ostacoli, distruzione dei nemici e così via. Vi è anche una tendenza verso aspirazioni più spirituali (brahmaṇyāyi), considerate fondamentali per una vita pregna di significato.

      Il saggio Atharvan, da cui l’opera ha preso il nome, è totalmente sconosciuto nel Ṛg Veda. Centosettantacinque inni nell’Atharva Veda sono attribuiti ad Atharvan, identificato al ṛṣi Bhṛgu che, si dice sia emerso dal sudore che fluiva copioso dal corpo di Brahmā mentre era immerso in severa ascesi10. La fama di Atharvan è rimasta legata alla sua capacità di alleviare le sofferenze (ye’thravaṇas tad bheṣajam) e, a tal fine, offriva all’umanità grandi benefici in salute, longevità e nutrimento (bhaishajyāṇi e pauṣṭikāni). Al contrario, Angiras, autore di quindici inni della stessa raccolta, era esperto in maledizioni e anatemi (ābhicāri kāṇi). Per questa ragione l’Atharva Veda, nella sua forma presente, è propriamente chiamato Atharvāngiras in quanto comprende entrambi questi aspetti di vita pratica.

      Il ruolo significativo che i sacerdoti dell’Atharva Veda svolsero nella società antica è ben evidenziato nei seguenti versi dell’Atharva Pariśiṣṭa (IV.6):

      Il regno in cui risiede un sacerdote Atharvan esperto nei riti di pacificazione è destinato a prosperare, libero da ogni calamità. Quindi il Re dovrebbe offrire speciali onori all’Atharvan che ha padronanza dei propri sensi e della mente.

      Poiché l’Atharvan era richiesto dai principi e dal popolo per procurare benessere e vantaggi materiali, doveva essere riconosciuto per le sue qualità di santità e di divinità. Nell’austerità (tapas) risiedeva il suo potere. Egli doveva essere costantemente impegnato in severi rituali onde rafforzare il suo potere. Questo è l’aspetto predominante nei testi upaniṣadici dell’Atharva Veda. Tra questi scritti, alcuni si definiscono ‘testa dell’Atharva’ (Atharva śiras) ossia vetta della dottrina ātharvaṇa.

      1. Generalmente, in ambito tantrico, con siddha s’intendono gli yogin che hanno il dominio sugli otto poteri straordinari: aṇimā, il potere di assumere dimensioni minuscole; mahimā, il potere di assumere dimensioni gigantesche; garimā, il potere di diventare pesantissimo; laghimā, la facoltà di diventare leggeri e di volare; prāpti, la capacità di soddisfare ogni desiderio; prākāmya, la facoltà di esercitare la propria invincibile volontà su esseri e cose; īśitṛtva, il totale controllo dei sensi e del corpo e la qualità di evocare cose inesistenti e di distruggere cose esistenti; vaśitva, il pieno dominio sul movimento dei corpi grossolani. I più potenti siddha hanno la capacità di viaggiare avanti e indietro nel tempo, apparendo agli uomini come semidei.[]
      2. Si tratta di una ipostasi di Kāmadeva, il Dio del piacere.[]
      3. Questa scuola è nota ovunque in India anche con i nomi “Madhumatī mata” e, soprattutto, “Kādi mata”.[]
      4. I punti nodali della giornata considerati favorevoli per compiere rituali: alba, mezzodì, metà pomeriggio, tramonto, mezzanotte.[]
      5. La tradizione Sādi, a differenza delle altre due, non passa dalla recitazione della pañcadaśī al mantra di sedici lettere (ṣodaśī), ma a uno di diciassette lettere (saptadaśī).[]
      6. Scuole sacerdotali che si trasmettono l’interpretazione di determinati testi.[]
      7. Il più celebre commentatore dei Veda (?-1387) e primo ministro dell’Impero di Vijayanagara, fratello di Vidyāraṇya, Jagadguru del pīṭha di Śṛṅgeri.[]
      8. Conoscenza del Brahman, che è attributo sia del Vedānta sia di Śrī Vidyā.[]
      9. Gopatha Brāhmaṇa, III.2; Aitareya Brāhmaṇa, V.33.[]
      10. Gopatha Brāhmaṇa, III.4[]