3. Il post mortem dei sādhaka secondo la dottrina di Śaṃkarācārya
Gian Giuseppe Filippi
Il post mortem dei sādhaka secondo la dottrina di Śaṃkarācārya – III
Com’è che il jīvātman se ne va dal corpo? Abbiamo già visto, come riporta il passaggio della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, che egli è seguito dalla conoscenza, dal karma e dall’esperienza passata.
Proprio come un orafo fonde una piccola quantità d’oro e ne modella un’altra, una forma nuova e migliore, così il [jīva]ātman abbandona questo corpo, lo rende insenziente, e se ne fa un altro – una forma nuova e migliore adatta a [fruire] del mondo degli antenati, dei gandharva, degli Dei, di Prajāpati, di Brahman o di qualsiasi altro essere.
Dopo aver così sinteticamente esposto il tema dell’assunzione di un corpo sottile (liṅga o sūkṣma śarīra) per godere o scontare nei diversi bhogaloka i risultati del karma compiuto nell’ultima vita, la śruti opportunamente ricorda che:
In realtà l’Ātman è il Brahman, anche se lo si identifica alla buddhi, al manas, al prāṇa, alla vista e all’udito, alla terra, all’acqua, al fuoco, all’aria e all’etere, ma che è diverso dal fuoco; sottoposto al desiderio [ma in sé] esente da desiderio, all’ira ma esente da ira, alla rettitudine ma privo di rettitudine, sottoposto ma esente da qualsiasi cosa percepita direttamente o dedotta indirettamente. Lo si pensa che agisca e che come agisce tale diventa. Compiendo cose buone diventa buono, compiendo cose cattive diventa cattivo; diventa virtuoso con azioni virtuose e vizioso con azioni viziose. Altri invece dicono che l’Ātman si identifica solo con il suo desiderio. Decide di agire per ottenere quello che desidera e ciò per cui agisce, quello diventa.
Come si è detto in precedenza, la conoscenza, per quanto insufficiente, e il karma accumulati nell’ultima vita conducono al cielo della luna il jīvātman dello yogi ignorante, che ha lasciato il cadavere per mezzo del fumo seguendo la guida delle divinità tenebrose. A questo proposito, si trova un commento più preciso nei Brahma Sūtra, dove Śaṃkara afferma:
Si comprende che il jīvātmā, con il prāṇa, gli indriya e il manas, avvolto dall’ignoranza, il karma e le impressioni della vita precedente, lascia il vecchio corpo e ottiene un nuovo corpo.
Ciò sta a significare che il jīvātmā se ne va in un altro corpo avvolto da elementi sottili che ne costituiscono le sementi causali (bīja) di rinascita. Il sūtra commentato da Śaṃkara, riferendosi alla Chāndogya Upanishad, risolve l’enigma che il re Pravahaṇa aveva sottoposto a Śvetaketu: “Com’è che l’acqua (āpa), per mezzo di cinque oblazioni nel fuoco sacrificale ottiene la voce umana?” Si tratta del vapore acqueo, ovvero del jīvātmā avvolto nelle sue modalità sottili e seminali, che in cinque tappe sale al cielo della luna per poi “ripiovere” sulla terra, ritornando a parlare con un corpo solido (sthūla śarīra). Non solo il corpo evaporato è rappresentato dalle acque, ma anche i risultati del karma compiuto in vita. Infatti l’uomo in vita compie i riti sacrificali (come l’agnihotra e l’homa) versando nel fuoco liquidi come latte, soma, burro chiarificato (ghṛta) e altri ancora, che a contatto col fuoco divengono vapore. Anche le azioni rituali, in questo modo, “evaporano” e diventano sottili. Questi “vapori karmici” sono anche chiamati śraddhā, perché la loro oblazione nel fuoco è determinata dalla retta intenzione (śraddhā) di compiere il rito. Nel commento dei Brahma Sūtra, Śaṃkara ci informa che queste acque sottili (apūrva) attendono la morte del loro produttore per condurlo, innalzandosi attraverso il fumo, fino al cielo della luna. Qui il jīvātmā gioirà dei frutti delle azioni rituali compiute nella vita appena conclusa.
Non avendo realizzato l’Ātman, il jīvātmā è chiamato, in senso metaforico e secondario, nutrimento degli Dei. La Śruti afferma la stessa cosa.
È evidente che qui non si tratta letteralmente di un nutrimento, ma di un suo senso trasposto, com’è dimostrato dalla seguente citazione:
In verità gli Dei non mangiano e non bevono, ma si saziano alla sola vista dell’amṛta.
Si deve pertanto interpretare il sūtra attribuendo alla parola “nutrimento” il significato trasposto di fruizione (bhoga): nutrimento è ciò che fa piacere e allieta. Così gli Dei gioiscono dei frutti delle azioni passate. E come le acque, sotto la loro forma invisibile (aḍṛṣṭa rūpa), assumono il ruolo di nutrimento, i jñānendriya del defunto, riavvolti nel prāṇa,sono qui identificati agli Dei che gioiscono assaporando nel cielo della luna l’amṛta dei risultati del loro sādhana. Per comprendere meglio la descrizione immaginifica di questa fruizione nei propri prolungamenti sottili, possiamo paragonarla allo stato di sogno (svapnāvasthā). Nella condizione onirica, infatti, i sensi del dormiente, rivolti, ovviamente, verso l’interno, fruiscono della fantasmagoria del sogno creata per mezzo delle vāsanā della veglia. Il simbolismo sacrificale deve essere interpretato in questo senso: i risultati del metodo usato in vita sono oblati nel fuoco del cielo della luna e qui goduti come oggetti di contemplazione dagli Dei, ossia dal soggetto (jīvātman) coadiuvato da tutti i suoi strumenti sottili (antaḥkaraṇa). Si tratta della prima oblazione nel fuoco della pañcāgni vidyā:
O Gautama, questo mondo [della luna] è il fuoco, il sole è il suo combustibile, i raggi il suo fumo, il giorno ne costituisce la fiamma, i punti cardinali le sue braci, i punti intermedi le scintille. In questo fuoco gli Dei offrono śraddhā e da questo sacrificio nasce il re Soma.
Dopo aver spiegato che il fuoco, il carburante e tutte le altre componenti del sacrificio vedico, preso a simbolo di queste esperienze postume, hanno il loro equivalente celeste nella sfera della Luna, nel Sole, ecc., Śaṃkarācārya prosegue:
Occorre rimarcare che questi prāṇa particolari [gli indriya], nel corpo del sacrificante divengono Indra, ecc., raggiungendo la loro forma simile agli Dei, rivestono lassù il ruolo di officianti del sacrificio che compiono nel fuoco del Cielo. Dopo aver dimorato qui sino all’esaurimento dei frutti del karma, discendono per la via inversa con un aṇuṣaya [residuo di karma] come si può riscontrare nella Śruti e nella Smŗti.
Il commento di Śaṃkara precisa che questo residuo non può corrispondere allo stesso karma che gli Dei hanno “mangiato” nel cielo della luna, perché quello è stato completamente esaurito. Il karma che è stato compiuto in vita allo scopo di raggiungere il candraloka, come vapore porta a quel cielo e lì viene consumato nel suo fuoco. Solamente questo karma è completamente esaurito in quel bhogaloka. Ma il metodo iniziatico, usato quando il jīva è ancora nel corpo, produce dell’altro karma che non genera soltanto effetti di cui fruire. Quest’altro karma è tale da produrre altro karma: perciò dovrà essere utilizzato dal jīva soltanto riprendendo un corpo grossolano in un karmaloka. È questo il residuo che non è bruciato ed esaurito nel fuoco del cielo della luna né negli altri quattro fuochi della pañcāgni vidyā.
L’aṇuṣaya, rimanendo sempre un aḍṛṣṭa phala durante l’intero ciclo migratorio dei cinque fuochi, determina dunque la ridiscesa del jīvātmā in un altro stato individuale. Diversamente, se ci fosse il completo esaurimento di tutto il karma nel cielo della luna, l’individuo sarebbe liberato; ma ciò sarebbe un assurdo, in quanto con l’azione non si esce dal dominio dell’azione.
Dopo aver fruito degli effetti del karma, e avendoli così bruciati e consumati del tutto, il jīvātmā, libero dal vapore-fumo che lo aveva fatto ascendere alla luna, discende sotto forma di re Soma nella sfera delle nuvole:
Avendo soggiornato colà fino a esaurimento degli effetti [karmici], egli ritorna proprio lungo la medesima via che aveva già percorso [all’andata]. Raggiunge l’etereo spazio e da lì scende all’aria. Associandosi all’aria si rapprende in vapore e, come tale diventa una nuvola diafana.
Parjanya [il dio della pioggia], o Gautama, è il fuoco, l’anno il suo combustibile, le nuvole il suo fumo, il fulmine la sua fiamma, la folgore le sue braci, la grandine le sue scintille. In questo fuoco gli Dei sacrificano re Soma. Da questa offerta nasce la pioggia.
Gravato dall’aṇuṣaya, il corpo sottile del jīvātman è versato in oblazione nel secondo fuoco sacrificale, rappresentato da Parjanya. Questo primo stadio di discesa verso il mondo grossolano al fine di riprendere un corpo pesante (sthūla śarīra) è rappresentato dal vapore che gradualmente si condensa in pioggia.
Dopo essere diventato una nuvola diafana, si cambia in una nube gravida (megha); e così precipita a terra sotto forma di pioggia. [I jīva] nascono qui come riso, orzo, erbe aromatiche, sesamo, legumi ecc. È certamente più faticoso uscire da queste [condizioni]. Essi nascono prendendo l’aspetto di chiunque mangi questo cibo, di chiunque lo emetta come seme.
Questo mondo, o Gautama, è il fuoco, la terra è il suo combustibile, il fuoco il suo fumo, la notte è la sua fiamma, la luna le sue braci, e le stelle le sue scintille. In questo fuoco gli Dei offrono la pioggia. Da questa offerta nasce il cibo.
Dopo il secondo sacrificio, dunque, l’individuo piove di nuovo sulla terra. Trovandosi ancora in uno stato sottile, questa volta si immerge nell’ambiente umano in forma seminale, vegetativa. Nel suo commento, Śaṃkara spiega che il jīvātmā non diviene affatto l’anima di questi vegetali, perché questi ultimi sono gli esseri incorporati che prima avevano subito la dannazione e poi, rinascendo piante, assumono una forma periferica e incapacitata ad agire. Invece i jīvātman di quanti hanno seguito il pitṛyāṇa, dopo essere piovuti sulla terra si associano alle piante. In questa condizione già terrena, ma sottile e prenatale, sono paragonati ai vegetali per la loro esistenza seminale, per il fatto che non comunicano con il mondo circostante, e per essere incapacitati ad agire Quando l’uomo mangia questi vegetali (determinandone la morte), il jīvātmā associato a quel cibo viene assimilato dal mangiatore diventando il seme del suo sperma. È per questa ragione che il jīvātmā ottiene una forma a immagine di “colui che lo mangia”. Questo passaggio è il più lungo, perché il jīvātmā deve attendere il momento favorevole per entrare in contatto con il suo vero padre carnale. L’uscita dalla sua forma sottile è dunque più difficile, lunga e faticosa.
E questo “pasto” rappresenta il quarto sacrificio:
L’uomo, o Gotama, è il fuoco, la sua bocca il combustibile, il prāna il suo fumo, la parola è la sua fiamma, l’occhio i suoi carboni, le orecchie le sue scintille. In questo fuoco gli Dei offrono il nutrimento; da questo sacrificio nasce il seme.
Il quinto sacrificio è quello che conclude il ciclo del pitṛyāṇa: l’acqua, nella sua discesa dal cielo della luna, si fa sempre più densa, finché si solidifica nell’embrione umano:
La donna, o Gautama, è il fuoco, il suo grembo il combustibile, l’attrazione il suo fumo, la yoni la sua fiamma, l’amplesso le sue braci, la voluttà le sue scintille. In questo fuoco gli Dei offrono il seme. Da questa oblazione si forma l’embrione umano.
In verità la donna, o Gautama, è il fuoco, il suo grembo il combustibile, i peli il fumo, la yoni la sua fiamma, l’amplesso le sue braci, la voluttà le sue scintille. In questo fuoco gli Dei offrono il seme. Da questa offerta nasce l’uomo. Egli vive per il tempo che gli è concesso, poi muore.
Nel suo commento Śaṃkara afferma:
Così l’acqua, chiamata śraddhā, successivamente offerta nei fuochi del cielo [della luna], della divinità della pioggia, di questo mondo, dell’uomo e della donna, in forme sempre più grossolane di śraddhā, [ossia] Soma, pioggia, nutrimento e seme, produce quello che noi chiamiamo uomo. Alla domanda: «Sai dopo quante oblazioni l’acqua nasce dotata di voce umana e di parola?». Si risponde: «Quando l’acqua, trasformata in seme [umano] è offerta come quinta oblazione nel fuoco della donna; a quel punto è dotata di voce umana». Quest’uomo, nato in un certo momento, vive per il tempo che gli è concesso, ovvero in proporzione con i risultati del karma passato che lo condizionano ad avere questo corpo. Dopo, ossia all’esaurimento di quel [karma], egli muore.
Il karma residuale, che non poteva essere portato a consumazione nel mondo lunare, fornisce al jīvātman, desideroso di trasmigrare, il nuovo corpo che può essere descritto “così e così”. Con ciò si vuol ribadire che l’aṇuṣaya non è la causa della rinascita in questo corpo; esso è semplicemente la ragione del “come” il nuovo śarīra appare. Tra le sue caratteristiche è da annoverare anche la durata della vita, durante la quale egli sarà libero di compiere nuove azioni, producendo karma che s’aggiunge al karma latente. Quando muore:
Allora essi [i sacerdoti, in rappresentanza degli Dei] lo portano come offerta al fuoco. Il fuoco diviene il suo fuoco, il combustibile il suo combustibile, il fumo il suo fumo, la fiamma la sua fiamma, le braci le sue braci, le scintille le sue scintille. In questo fuoco gli Dei offrono l’uomo”.
In questo modo ricomincia il ciclo di trasmigrazione:
E coloro che ottengono i mondi attraverso i sacrifici, le offerte, le pratiche ascetiche raggiungono la divinità del fumo, la divinità della notte, la divinità della quindicina oscura della lunazione, la divinità dei sei mesi del dakṣinayāna, la divinità del pitŗloka e la luna. Raggiunta la luna, essi divengono nutrimento. Lassù gli Dei se ne nutrono come i sacerdoti che bevono il limpido succo del Soma [dicendo]: «Egli cresce, egli decresce». E quando il loro karma è esaurito divengono come l’etere, come l’aria, come la pioggia, come la terra. Raggiunta la terra diventano cibo. Allora sono nuovamente offerti nel fuoco di un uomo, da lì nel fuoco di una donna e alla fine nascono (e fanno dei riti) allo scopo di ottenere altri mondi. In questo modo essi girano come la ruota persiana…
È superfluo riprodurre la chiosa di Śaṃkara su questo passaggio, che è il sunto di quanto già descritto; sia sufficiente mettere in evidenza la ripetitività dell’esperienza trasmigratoria:
Allora si muovono molte volte fra la luna e questo mondo, passando attraverso la divinità del fumo ecc…
Poiché utilizzano tecniche metodiche (prakriyā) basate sul simbolo, agendo a livello corporeo, vocale o mentale, questi sādhaka ruotano continuamente come la ruota persiana in cicli d’esistenza successivi, fino al momento in cui conosceranno Brahman. Allora potranno dipartire, incamminandosi lungo l’uttarayāṇa. A questo proposito si trova il seguente passaggio della Bhagavad Gītā:
Dopo aver raggiunto il loka di coloro che hanno operato con rettitudine [il mondo lunare], avendo dimorato lassù per una moltitudine di anni, colui che ha fallito sulla via dello yoga, rinasce di nuovo in una dimora pura e ricca, oppure nasce in una famiglia di saggi karmayogin; ma questa è una nascita eccezionale da ottenere in questo mondo. A questo punto ritrova la conoscenza che aveva ottenuto nel suo corpo precedente e tende alla perfezione ancor più di prima, o discendente di Kuru [Arjuna]. Ed è altresì spinto in quella direzione grazie alle sue pratiche passate, anche se non lo vuole. Solo desiderando la pratica della meditazione egli supera śabdabrahman.
Śaṃkarācārya commenta i due esempi di rinascita secondo una prospettiva spirituale, conferendo alla parola famiglia (kula) il significato di ambiente iniziatico. E così commenta:
Colui che non aveva concluso la via dello yoga si volge alla perfezione grazie alle pratiche della sua nascita precedente. Se non ha compiuto adharma [un’azione contraria all’ordine tradizionale] tale da superare la pulsione per lo yoga causata dalla pratica [operata nella vita passata], allora, certamente, prevarrà l’attrazione verso lo yoga. Se l’adharma è più forte, allora certamente la tendenza verso lo yoga sarà sconfitta dall’adharma. Ma all’esaurimento dell’adharma, l’attrazione per lo yoga comincerà a produrre i suoi effetti; questa inclinazione, dunque, non può esser distrutta durante il suo periodo di latenza. Dunque, se costui, come dice la smṛti, è un rinunciante che, avendo fallito nello yoga [con la nascita precedente], persegue la via dello yoga con il solo desiderio di conoscere la sua natura propria, allora sarà libero dal śabdabrahman e dall’osservanza del karma kāṇḍa. È dunque proprio necessario dichiarare che chi conosce e pratica lo yoga con costanza e devozione sarà libero dagli effetti [karmici]?
Occorre ancora aggiungere che coloro che non hanno realizzato la meta dello yoga, vale a dire la conoscenza di Īśvara, si sono soffermati su qualche suo simbolo secondario, attratti dalle condizioni particolari di certe tappe intermedie a loro gradite. Le tappe di cui si tratta sono spesso descritte come gradi o fasi di sviluppo rappresentate da centri sottili, la cui numerazione varia a seconda della sādhanā che si percorre. Avendo desiderato ardentemente di raggiungere una meta minore, concentrando su di essa la pratica del metodo iniziatico, potranno raggiungere nel candraloka,a conclusione del pitṛyāṇa, la loro corrispondente collocazione. Per questa ragione le Upaniṣad parlano dei “cieli della luna” al plurale, descrivendo in questo modo le molte situazioni differenti, ossia i diversi livelli di fruizione che il sādhaka ha desiderato di raggiungere nel corso dell’intera vita. La Chāṅdogya Upanishad enumera nove diverse regioni del candraloka che, alla fine del dakṣinayāna, consentono alle anime degli yogi ignoranti la fruizione dei loro desideri. In conformità con questa gerarchizzazione dei cieli della luna, anche con la loro discesa in questo mondo terrestre i jīva otterranno differenti nascite, sempre felici, ma non uniformemente favorevoli. Il brano già citato della Bhagavad Gītā ce ne fornisce due esempi: si può rinasce in un ambiente puro e ricco di spiritualità o in un ambiente di saggi karma yogin.