46. Dante: la Divina Commedia
Dante: la Divina Commedia
O voi ch’avete l’intelletti sani
mirate la dottrina che s’asconde.
sotto ‘l velame de li versi strani.
(Inferno, IX. 61-63)
A conclusione della Vita Nova, Dante annunciava di aver raggiunto la “mirabile visione”. In quel libro aveva descritto la sua vicenda interiore, a partire dalla rinascita iniziatica alle esperienze interiori sempre più elevate, cadenzate da periodi rappresentati simbolicamente dal numero nove, fino alla realizzazione effettiva del grado di maestro perfetto. La “mirabile visione” corrisponde, invece, alla universalizzazione di questa perfezione individuale. La Commedia descrive questa universalizzazione che conduce il Poeta non soltanto a “indiarsi”, com’egli scrive, ma anche a tornare sulla terra degli uomini (sskrt. mānuṣa loka) con una missione di restaurazione dell’ordine in Occidente. Infatti la Divina Commedia è tutta intessuta da ricorrenti allusioni alla Croce, simbolo dell’Autorità Spirituale (sskrt. brāhma), e all’Aquila, simbolo del Potere Temporale (sskrt. kṣātra). Nel medioevo, la prima era rappresentata dalla Chiesa e la seconda dall’Impero. Tuttavia, il papato da alcuni secoli aveva usurpato l’autorità della Chiesa, che, dopo aver rivolto la sua attenzione al potere terreno, aveva perduto la conoscenza sacra e l’iniziazione monastica. Aveva perfino perso progressivamente l’interesse per la teologia, trasformata sempre più in una filosofia razionalistica, trascurando anche la semplice conduzione delle anime verso la salvezza postuma. L’unico scopo evidente del papato era quello si soppiantare l’Impero nella conduzione delle cose temporali della cristianità. L’Impero era rimasto indebolito dalla sovversione capeggiata dal papato e dalle tendenze centrifughe di molti regni e principati, prima fra tutti la Francia. L’Impero conservava un rapporto diretto con le iniziazioni cavalleresche e artigiane, ma pagava un grave prezzo per la sua formale lealtà nei confronti dell’Autorità Spirituale, sebbene questa ne fosse indegna e completamente profana. Anche l’Ordine del Tempio, che rappresentava il collegamento iniziatico tra Chiesa e Impero, ne aveva risentito, trovandosi a dover ubbidire al papato, che gli diventava sempre più ostile. Anche i suoi rapporti iniziatici con l’Impero, erano complicati dalle continue scomuniche a scopo politico inflitte agli Imperatori. Questa posizione in bilico dei Templari spiega anche il loro indebolimento spirituale e militare. L’élite templare, rappresentata dalla Fede Santa, rimaneva l’unico baluardo intellettuale per le vie iniziatiche della cristianità. Tuttavia la continua minaccia di persecuzioni stava spingendo i Fedeli d’Amore ad assumere posizioni sempre più critiche nei confronti dell’Autorità Spirituale, erroneamente identificata con il papato corrotto (Morte Villana).
Questo non era ciò che Dante, Imperator dell’esoterismo cattolico, dall’alto della sua sapienza, considerava essere la soluzione alla grave crisi della tradizione occidentale. Il suo disegno o, meglio, la sua missione, lo spingeva a una azione di riparazione da effettuare in due tempi: in primis restaurare la potenza e il prestigio dell’Impero, stroncando le pretese al dominio temporale perseguito dal papato;riportare nei loro confini naturali le ambizioni indipendentiste dei Re nazionali; restaurare i legittimi governi aristocratici nelle città e nelle ville, sottraendo queste ultime alle avide e invadenti amministrazioni della nascente borghesia. In seguito, una volta realizzato questo progetto, sarebbe stato compito della Fede Santa riempire il vuoto spirituale installato nel cuore della Chiesa. Per essere precisi, Dante era pronto a trasmettere la sua Santa Sapienza (Beatrice) alle gerarchie ecclesiastiche al fine di raddrizzare la Chiesa. Così avrebbe restaurato un’autentica Autorità Spirituale al posto di quella forma priva di contenuto a cui s’era ridotta la Chiesa, da cui si poteva produrre ogni deviazione. Se alcuni Fedeli d’Amore di scarsa comprensione non avessero inteso seguirlo in questa impresa, egli era pronto a “fare parte per se stesso” e proseguire da solo. Per l’attuazione del piano divino, era però necessario indentificare un principe che avesse potesse seguire le direttive di questo sacro progetto e che avesse, al tempo stesso, il potere necessario per agire. Questo personaggio si presentò nella persona dell’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo. Si era perciò trovato l’Imperatore che avrebbe potuto attuare i disegni dell’Imperator Dante. Illustreremo le vicende storiche di questa impresa nel capitolo seguente.
A differenza della Vita Nova, che narrava la sola realizzazione personale (sskrt. ādhyātmika kṣetra) del Poeta, la Commedia descriveva le possibili ricadute della sua esperienza interiore sull’ambiente umano (sskrt. ādhibhautika kṣetra) e divino (sskrt. ādhidaivika kṣetra). Perciò non si trattava più del racconto delle tappe spirituali a partire dall’iniziazione ricevuta dal maestro Guido Cavalcanti, fino al suo compimento; qui lo stesso percorso è stato esposto come una chiamata a una missione.
Per questo motivo nella Commedia l’iniziazione di Dante e l’intero suo sentiero interiore era rappresentato come l’effetto di una volontà divina. Questa gli aveva predisposto i mezzi per raggiungere Dio (indiarsi) affinché, in seguito, egli potesse operare il raddrizzamento della Tradizione in Occidente. In questa prospettiva universale Dante abbandonò del tutto lo stereotipato e artificioso stile trovadorico del gergo (trobar cloz), per usare il vero simbolismo tradizionale. È quanto il Poeta definì “dolce stil novo”. Non è nostra intenzione condensare in poche righe un poema così vasto, complesso e articolato. Ci limiteremo a darne una breve sintesi sottolineando i punti più salienti.
Arrivato a metà della durata della vita, a trentacinque anni, Dante si era smarrito nella selva oscura della vita profana. Non riusciva a uscirne perché gli sbarravano il passo una lonza, un leone e una lupa, che rappresentano incontinenza (avidità), matta bestialità (violenza) e frode (malafede), cause di ogni altro peccato. La lupa famelica, particolarmente, si dimostrava aggressiva. In quel mentre gli apparve Virgilio, il grande poeta latino del circolo augusteo, rappresentante dell’iniziazione imperiale romana, tramandatasi fino a Dante tramite il Sacro Romano Impero.
Virgilio si proponeva di condurre in salvo Dante. Tuttavia questo percorso doveva comprendere una discesa all’inferno e, poi, una risalita lungo la montagna cosmica del Purgatorio, fino a raggiungere il più alto dei cieli (sskrt. Brahmaloka). Questo “lungo andare” era obbligato, perché ancora non era sceso dal cielo il Veltro che avrebbe cacciato all’inferno la lupa e aperto un “breve andare”, una via diretta, per andare direttamente in paradiso.
Protestandosi indegno di tanto onore, Dante ribatté dicendo che in cielo da vivi erano andati personaggi ben più importanti di lui: Enea, progenitore della Roma imperiale, e San Paolo, fondatore della Chiesa di Cristo. La risposta di Virgilio è più che sorprendente: Dante era altrettanto degno di compiere il viaggio ultraterreno. Per volontà di Dio, la Vergine Maria aveva incaricato S. Lucia di fare in modo che Dante potesse uscire dalla selva oscura per salire al più alto dei cieli dopo aver attraversato gli inferni, il purgatorio e il paradiso terrestre. A sua volta Lucia aveva delegato a Beatrice questa missione e quest’ultima, la Santa Sapienza, aveva incaricato Virgilio di fare da maestro e da guida al poeta. Dante ancora non era consapevole di essere destinato all’altissima missione di riportare all’umanità il significato della sua “mirabile visione”. Per questa ragione non si rese conto d’essere egli stesso il Veltro, di cui parlava Virgilio, che dal cielo doveva ritornare in terra per ricacciare la lupa all’inferno. Questa missione di cui Dante sarebbe stato incaricato è confermata in altri due passaggi della Divina Commedia.
La seconda conferma proviene da Beatrice quando incontrò Dante nel Paradiso Terrestre: ella preannunciò la venuta di un inviato divino, il cui nome sarebbe stato “cinquecento, dieci e cinque”, ossia, in numeri romani, D X V. La terza conferma è pronunciata da Cacciaguida, trisavolo di Dante, cavaliere morto in Terrasanta durante la seconda crociata. Egli affermava che quel personaggio, del tutto distaccato da brame di potere e ricchezza, sarebbe vissuto alla corte di Cangrande. Tuttavia, la grandezza della sua missione non era ancora evidente in quell’anno 1300, perché costui era entrato in una nuova fase della vita (o vita nova) da soli nove anni. Cacciaguida, inoltre fornì a Dante una ulteriore informazione riguardante la sua famiglia: Il nome Alighieri, che poi avrebbe soppiantato l’antico cognome della famiglia di Dante, vale a dire Elisei, proveniva dal cognome Allighieri, dell’illustre famiglia di sua moglie. Costei era originaria di Val di Pado, presso Ferrara, che rimaneva esattamente a metà strada tra Feltre e Montefeltro. Ecco, dunque, spiegato perché Virgilio avesse affermato che il Veltro era originario di un luogo situato tra Feltro e Feltro. Inoltre, tutte queste informazioni ci danno la chiave per interpretare correttamente l’acronimo latino DXV come Dantes Xsti Veltris , Dante Veltro di Cristo. Alcuni potranno chiedersi come mai così alta missione non abbia prodotto alcun risultato. Anzi, storicamente pare essere stato un vero fallimento. In realtà il legato di Dante all’umanità occidentale rimane come un monumento unico per elevatezza e la sua carica spirituale non è affatto esaurita e ha assunto nel tempo una sempre maggiore rilevanza escatologica. Non fosse così, tutti gli inviati di Dio fra gli uomini dovrebbero essere ugualmente sconfessati come fallimentari, non essendo riusciti finora a conquistare l’umanità intera e a instaurare il promesso regno permanente di pace e giustizia.
Non entreremo nella narrazione dettagliata della Commedia: l’argomento è ben noto e la sua lettura alla portata di tutti. Inoltre la descrizione della sua cosmologia spazio-temporale e degli eventi riportati sarebbe così complessa da risultare impossibile da coprire in poche righe. La prima parte del tragitto consiste nel passaggio attraverso l’Inferno. Per gli esteriori questo è il luogo di pena dei dannati; ma per chi sta compiendo la discesa agli inferi nel corso della vita, l’Inferno è la vita profana, che si deve superare tramite l’iniziazione. Per questa ragione nell’inferno sono già collocati alcuni che all’epoca di Dante erano ancora vivi, tra cui molti Re e papi. In questo caso la discesa agli inferi corrisponde alla presa di coscienza delle colpe e delle motivazioni che spingono al peccato (sskrt. saṅcita karma). Se le motivazioni sono sintetizzate in incontinenza, matta bestialità e frode, le azioni corrispondenti si articolano nei peccati di Lussuria, Gola, Avarizia-Prodigalità, Ira-Accidia, Eresia, Violenza e Frode.
I fraudolenti più gravi sono i traditori dell’Impero e della Religione. Nel fondo dell’Inferno, al centro della Terra, è confitto Lucifero, scaraventato lì dall’alto dei cieli per il suo peccato di ribellione a Dio.
Lucifero ha tre volti. Nelle due bocche di destra e di sinistra sono perennemente masticati Bruto e Cassio, traditori dell’Impero. Nella bocca centrale è divorato Giuda, traditore della Religione. Arrampicandosi sul corpo gigantesco di Lucifero, Dante e Virgilio dal centro della terra risalirono per un cunicolo fino all’isola del Purgatorio, situata nell’oceano dell’emisfero meridionale.
Da lì i due poeti scalarono la montagna cosmica del Purgatorio, sulla cui vetta si trova il Paradiso terrestre. Il Purgatorio è luogo di espiazione composto da sette cornici. Alla sua entrata, un angelo incise sulla fronte di Dante sette P (peccati). Ogni volta che Dante superava una cornice una P gli era cancellata dalla fronte. Si tratta in tutta evidenza di un percorso di purificazione mentale che dà come risultato la restaurazione dello stato primordiale, quello in cui si trovava Adamo prima del peccato. Arrivato nel Paradiso terrestre, dopo aver bevuto l’acqua dell’oblio del peccato, Dante vi trovò ad aspettarlo Beatrice, mentre Virgilio, il maestro umano, discretamente si faceva da parte.
Beatrice, non più persona umana (sskrt. amānava puruṣa), da questo momento, lasciando la Terra, condusse il Poeta attraverso i cieli verso l’Empireo o Paradiso Celeste. I cieli (sskrt. loka o svarga) da attraversare sono nove, rappresentati dai sette pianeti, dalle sette virtù e retti dalle diverse gerarchie angeliche, a cui s’aggiungono il cielo delle stelle fisse e, come nono, il cristallino o Primo Mobile.
Man mano che Dante saliva, incontrava con anime sempre più contemplative da cui fu istruito su dottrine di continuo più elevate. Superato il limite estremo del Primo Mobile, la prospettiva si rovescia. La Terra, invece di essere al centro del sistema tolemaico, diventa l’estrema periferia, mentre i cieli si fanno sempre più spirituali man mano che si procede verso il centro. L’intera manifestazione universale allora appare come una “Candida Rosa”, che ha al suo centro la presenza misteriosa di Dio. Dante avrebbe voluto chiedere spiegazioni a Beatrice, ma anche costei era silenziosamente scomparsa, sostituita da San Bernardo, l’ultimo monaco contemplativo della tradizione latina, patrono dell’Ordine del Tempio.
Fu San Bernardo a condurre Dante verso la visione finale per “indiarsi”. Il Poeta osservò la divinità che pareva formata da tre cerchi di colori diversi, ma coincidenti. E uno di quei cerchi misteriosamente pareva avere forma umana, in cui Dante si riconobbe. La mente però non riusciva a comprendere come ciò potesse essere. Parrebbe che Dante non riuscisse a far quadrare il circolo di questa visione, quando, all’improvviso, la mente rimase folgorata: l’intuizione della realtà divina superò ogni capacità di immaginazione e di descrizione. Dopo di questa suprema visione riapparvero desiderio e volontà, ma questa volta non erano più dell’individuo-Dante, ma quelli di Amore “che move il sole e le altre stelle”. L’universalizzazione si era realizzata. Ora Dante poteva intraprendere la sua missione ritornando nel mondo degli uomini.
Maria Chiara de’ Fenzi