12 Gennaio, 2020

1. Il post mortem dei sādhaka secondo la dottrina di Śaṃkarācārya

Gian Giuseppe Filippi

Il post mortem dei sādhaka secondo la dottrina di Śaṃkarācārya – I

«Un dubbio si pone a proposito dell’uomo dopo la morte: qualcuno dice: “Esiste”; altri: “Non esiste”»

(Kaṭha Upaniṣad, I.1.20)

«Il jīva, sopraffatto dall’irrealtà durante il coma che precede la morte, subisce diverse illusioni a seconda   delle sue diverse azioni passate. Dopo la morte, crede che “Qui c’è il piacevolissimo cielo; ci sono entrato e ora sono un meraviglioso essere celestiale, con tante affascinanti fanciulle celesti al mio servizio; se voglio bere ho il nettare…”. Oppure: “Ecco la regione della morte; ecco il Dio della Morte; questi sono i messaggeri della Morte; Oh! sono così crudeli. Mi trascinano all’inferno!” Ovvero: “Ecco la regione dei pitṛ; o quelli di Brahma, di Viṣṇu, di Śiva” e così via. In tal modo, in accordo con la loro natura e gli effetti del karma passato, proiettano il loro ego sotto forma di illusioni di nascita, morte, passaggio nei cieli, negli inferni o in altre regioni, sovrapponendole al Sé, che rimane sempre l’immutabile Etere di Coscienza. Sono solo illusioni irreali della mente.»

(Advaita Bodha Dīpikā, 111-113)

«La meta suprema dell’uomo dipende dalla chiara conoscenza di questo argomento».

(Kaṭha Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya, I.1.20)

Prefazione

Oṃ Śrī Gurubhyo Namaḥ

Recentemente abbiamo avuto modo di rileggere, a quarantuno anni dalla sua pubblicazione, un nostro breve lavoro giovanile. Pur riconoscendo in generale a quel saggio un assetto correttamente impiantato, siamo rimasti sorpresi dalle numerose imprecisioni presenti nel testo, per non parlare di alcuni errori dottrinali: pochi, fortunatamente, ma di una certa gravità e passibili di sviluppi devianti. All’epoca in cui lo avevamo scritto, le nostre fonti d’informazione riguardanti il Vedānta śaṃkariano si limitavano all’opera di René Guénon e alle traduzioni inglesi dei Bhāṣya di Śaṃkara Bhagavatpāda con testo sanscrito a fronte. In quel modo era facile verificare la traduzione e, soprattutto, la resa dei concetti attraverso le parole. Le debolezze, che ora riscontriamo, mettono in evidenza tutta l’insufficienza di una preparazione libresca, per quanto approfondita la si possa ritenere. Poiché allora avevamo già da diverso tempo ricevuto una dīkṣā, pensavamo che la prospettiva iniziatica non ci fosse estranea. Tuttavia, non trattandosi d’una iniziazione conferita da una organizzazione advitīya, gli insegnamenti ricevuti riguardavano una conoscenza limitata al non Supremo, condizionando così pesantemente l’interpretazione della dottrina del Vedānta, che pur continuava a essere al centro del nostro interesse conoscitivo (jijñāsā) e del nostro desiderio d’Assoluto (mumukṣā). Dal momento in cui abbiamo potuto considerare la dottrina di Śaṃkarācārya dall’interno, la prospettiva s’è immediatamente corretta con l’assunzione d’un punto d’osservazione, questa volta, puramente metafisico.

Dopo la recente lettura di cui narravamo all’inizio, abbiamo deciso che sarebbe valsa la pena di rivedere l’intero libello, riscrivendolo completamente, pur mantenendone intatta l’impostazione. Infatti, su questo argomento in Occidente non esiste alcuna trattazione affidabile e, soprattutto, una esposizione chiara. Ora, quello che abbiamo dato alle stampe per Ekatos non è più una metafisica śaṃkariana osservata attraverso le offuscate lenti di una prospettiva non-suprema; si tratta, bensì, partendo da una angolatura dottrinale di puro jṅāna non duale, della descrizione dei destini postumi, soprattutto dei sādhaka delle vie della conoscenza del non-Supremo (aparavidyā), come sono stati delineati nei Bhāṣya di Śaṃkara e che ci sono stati trasmessi oralmente. Ossia si tratta di una indagine metafisica (pāramārthika vicāra) su realtà empiriche (vyāvahārika satya), considerate per quello che sono: semplici immaginazioni illusorie della mente, proiettate come saṃsāra a coprire il sostrato reale (sat āśraya) metafisico. A questo fine, nell’ultima parte, dove si tratta della così chiamata “krama mukti”, ci siamo avvalsi di una nostra traduzione annotata degli ultimi capitoli del Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya (IV.3.7-IV.4.22). In questa nuova versione, ci siamo volutamente astenuti dal trattare della vera Liberazione (mukhya mokṣa o jīvan mukti), perché ciò riguarda la Realtà e non l’illusione; perché essa non è un destino o una meta, ma l’eterna reale natura di ogni essere; perché, infine, su tale argomento sono già stati pubblicati, sul nostro Sito Veda Vyāsa Maṇḍala o per i tipi di Ekatos Ed., numerosi lavori nostri e di altri collaboratori, e traduzioni di opere di autentiche autorità della tradizione Advaita.

Sia, dunque, lode al Guru che sa correggere la conoscenza errata (mithyā jñāna)!

G.G.F.

ॐ शान्तिः शान्तिः शान्तिः

1. La morte e il riavvolgimento dell’individualità

Quando un uomo muore, la sua parola (vāk) è riassorbita nel senso interno (manas), manas in prāṇa, prāṇa in tejas e tejas nella Divinità Suprema (Parasyām Devatām).

Al momento della morte, i karmendriya e i jñānendriya, capeggiati dalla parola, si ritirano nel manas abbandonando i rispettivi organi corporei. Ma non è solo l’intera serie degli indriya che si ritira nel senso interno al momento della morte corporea:

Si deve leggere nel testo, e per lo stesso motivo, che dal momento che la parola (intesa come facoltà e non come parole articolate) si riunisce al manas, allo stesso modo la vista si immerge nel senso interno.

Per tale ragione, sebbene l’Upaniṣad menzioni solo la parola, si deve tuttavia interpretare questo ritorno al manas come inerente sia ai karmendriya sia a ai cinque jñānendriya.
Occorre anche stabilire in che modo si debba intendere il riassorbimento dei dieci indriya nel manas. Śaṃkara si chiede se i dieci indriya rientrino nel manas come effetti che ritornano alla loro causa comune, oppure se sono solo i loro attributi e funzioni distintivi che vengono riassorbiti dalla mente. La risposta è che sono gli attributi degli indriya a rientrare nel manas: per essere più espliciti, si tratta soltanto della cessazione delle funzioni di indagine verso gli oggetti esterni, nel caso dei jñānendriya, e delle funzioni d’intervento nel mondo (prapañca), nel caso dei karmendriya.
Del resto, se al momento della morte corporea gli indriya, il manas, il prāṇa, insomma se tutte le componenti sottili dell’individualità rientrassero definitivamente nelle loro rispettive cause materiali, l’aggregato psichico dell’individuo ne sarebbe dissolto. Ciò è del tutto fuori questione nel caso di cui stiamo trattando, non essendo ancora stato oltrepassato il dominio individuale. Infatti:

Vedāntin: Stando così le cose, affermiamo che solo le funzioni della facoltà della parola [ecc.] si ritirano nella mente. […] Ciò che qui si vuole comunicare è che si tratta della cessazione delle funzioni della facoltà della parola, perché quando queste funzioni della parola s’immergono, quelle della mente continuano a funzionare separatamente. Si conosce questo per mezzo dell’esperienza: infatti, la funzione della parola s’interrompe prima, mentre le funzioni della mente continuano ancora.

L’immersione dei dieci indriya nel manas deve, dunque, essere considerata come una ‘associazione’ (saṃbhava) che comporta fusione ma non confusione, poiché si mantiene la distinzione dei suoi componenti. La śruti descrive l’associazione delle facoltà con il manas nel modo che segue:

Come i vassalli, gli scudieri, i capi dei villaggi si radunano intorno a un Re che sta per partire, del pari, al momento della morte quando s’esala l’ultimo respiro, tutti i prāṇa si affolleranno attorno a questo Ātmān.

Quando questo ātmān diventa debole e sta per venir meno, allora tutti i prāṇa vengono a lui: accogliendo in sé tutte queste particelle di luce (tejas), si ritira verso il cuore. Quando la divinità che presiede la facoltà della vista vi rientra, l’uomo non può più percepire i colori. I prāṇa essendosi così riavvolti, si dice che egli non vede, non sente, non gusta, non parla, non ascolta, non pensa, non tocca, non conosce…

Come gli indriya si riassorbono nel manas senza dissolversi in esso, allo stesso modo manas si ritira nel prāṇa e il prāṇa nel jīvātman, l’anima individuale: “Il prāṇa si riassorbe nell’entità reggente (l’intera individualità) […]”. Il prāṇa non convoglia nel jīvātman soltanto le facoltà individuali. Nel suo commento Śaṃkara aggiunge:

Quello, il prāṇa che qui stiamo considerando, si colloca nell’entità reggente, vale a dire nel jīvātman, dotato d’intelletto, d’ignoranza, di karma e di esperienze passate come aggiunte limitanti (vāsana). Vale a dire che le attività del prāṇa gli rimangono totalmente associate.

Tutte queste attribuzioni limitanti (vāsanā saṃskāra), effetti di esperienze, conoscenze e azioni compiute in vita, rimangono associate al jīvātman, costituendo in questo modo le cause seminali (bīja) per una nuova nascita.

Come dichiarano le śruti, il jīva allora si stabilisce tra gli elementi [sottili, i taṅmātra].

Quest’ultima tappa, il passaggio del jīvātman ai taṅmātra, corrisponde al momento preciso della morte; e siccome il jīvātmā è il calore vitale (taijasa), il suo passaggio a un corpo psichico (sukṣma śarīra), composto dagli elementi sottili, comporta, come segno esteriore, il raffreddamento del corpo grosso.

Questo riassorbimento, o questo abbandono della forma grossolana, è del resto comune all’ignorante come al saggio, ma solo fino a che non intraprenderanno le loro rispettive vie.

È infatti al momento preciso della morte che si configurano due destini differenti. Occorre dunque spiegare cosa s’intende con le due parole “ignorante” (avidvas) e “saggio” (vidvas). L’ignorante, in questo contesto, non è affatto un profano (adīkṣita), ma un iniziato (sādhaka) che ha intrapreso la Via (mārga). Si deve pertanto interpretare “ignorante” in un senso tecnico, per indicare colui che non è ancora diventato sapiente. Ignorante è, dunque, chi ancora non conosce. Può trattarsi ugualmente di uno yogin, ma nel senso di qualcuno che sta seguendo una disciplina per purificare la mente, senza aver ancora esaurito tale percorso.

“Ora, o migliore dei Bharata, ti dirò quando gli yogin morti ritornano e quando non ritornano più”.

Questo passaggio della smṛti ci avverte che, dopo la morte, gli yogin ignoranti e quelli sapienti intraprendono due vie nettamente differenziate, con destinazioni diverse: gli ignoranti ritornano al mondo degli uomini (mānavaloka mānuṣaloka), mentre gli altri non vi ritornano più. Per capire meglio l’origine della separazione dei due viaggi postumi, ritorniamo al momento in cui le diverse categorie di individualità si sono riavvolte nei prāṇa, riavvolgimento che la śruti ha descritto essere comune sia per l’ignorante sia per il saggio. Accompagnati da tutte le loro modificazioni conoscitive e karmiche (vāsanā saṃskāra), i jīva si concentrano nel cuore.

La sommità del cuore brilla. Attraverso questa sommità il Sé (jīvātman) esce o dall’occhio o dalla corona della testa o da qualsiasi altra parte del corpo. Quando esce, il prāṇa lo segue; dopo l’uscita del prāṇa, tutti gli indriya lo seguono. A questo punto il Sé ha una coscienza particolare e va all’involucro che è in relazione con questa coscienza. È seguito dalla conoscenza, dal karma e dall’esperienza passata.

Nel suo commento, Śaṃkara ci insegna che la sommità del cuore corrisponde alla sua apertura verso l’alto, quella che comunica con le arterie sottili. Poiché gli indriya, che hanno natura ignea, sono riassorbiti nel jīvātmā, che è la luce (tejas) dell’Ātmān, questa sommità brilla per concentrazione di luce (taijasa). A seconda della conoscenza, del karma e dell’esperienza passata del morente, l’aggregato sottile esce dal corpo per le nāḍī che attraversano l’occhio, l’orecchio, la corona della testa, e altro ancora. Quando il jīva abbandona la sommità del cuore le vie del “saggio” e dell’”ignorante” si separano.
Lasciando il corpo attraverso queste nāḍī egli sale in alto e, rapido come il pensiero, arriva al cielo del Sole, perché lì si trova la porta (sūryadvāra) per uscire dal mondo; questa si apre per il “saggio” e rimane chiusa per l’”ignorante”. Infatti, la Śruti dice:

Vi sono cento e una nāḍī (che escono) dal cuore; ma una sola sale verso la corona della testa. Uscendo attraverso quella nāḍī si ottiene l’immortalità; le altre, che portano in diverse direzioni, servono solo per uscire, servono solo per uscire [dal corpo grosso].

Ho sentito che vi sono due vie per i mortali; una conduce agli Dei, l’altra agli antenati.

La prima di queste due vie si chiama via degli antenati (pitṛyāṇa) perché conduce ai mondi del cielo della luna (candraloka), attraversando il mondo degli antenati (pitṛloka). Il mondo dei pitṛ rappresenta l’ultima tappa prima di raggiungere la luna; perciò il cammino verso il candraloka è chiamato pitṛyāṇa esattamente come la Strada Reale che unisce Mathurā a Kāśī è definita “via Prayāg”, perché Prayāg è la tappa più importante sul percorso. La luna rappresenta lo spettro della terra, l’antenato morto che conserva la memoria del cosmo, il tempo passato. Le diverse regioni che compongono il cielo della luna costituiscono il deposito d’ogni forma; è lì che l’antica forma è dissolta e trasformata in quella nuova che dovrà rinascere. È, dunque, luogo di travaglio nell’attesa della ridiscesa sulla Terra. L’altra via, il devayāna o via degli Dei, si riferisce al sentiero che conduce ai cieli in cui risiedono gli Dei (devaloka), fino al cielo supremo di Hiraṇyagarbha, il Brahmaloka.

Prima di procedere con lo studio della via degli antenati, è doveroso ricordare che coloro che vi s’incamminano sono pur sempre degli iniziati, anche se li si definisce yogi ignoranti. Poco importa se, a un certo punto, anche i non iniziati (asādhaka) potranno incamminarsi lungo la stessa via per arrivare al pitṛloka. Questi ultimi sono così definiti da Śaṃkara:

Coloro che non conoscono quanto detto sopra [la conoscenza dei cinque fuochi per raggiungere il candraloka], essendo solo al corrente delle sei cose che riguardano la dipartita, per mezzo delle due oblazioni dell’agnihotra, sono dei semplici ritualisti che ambiscono ai loka [loka al plurale allude a differenti condizioni di salvezza].
Anche coloro che non sono iniziati, compiendo sacrifici come l’agnihotra, dando l’obolo ai brāhmaṇa, l’elemosina ai poveri nei dipressi dell’altare, e [sottoponendosi] ai digiuni kṛcchara e cāndrāyaṇa anche lontano dall’altare, raggiungono il fumo.

Quelli che compiono formalmente gli stessi riti castali degli iniziati senza usarli come simboli a supporto di una sādhanā, ma come semplici strumenti esteriori utilizzati in modo “meccanico” per raggiungere un loka di godimento (bhogaloka), alla caduta del corpo (dehānta) imboccano la medesima via, partendo attraverso il fumo della pira. Così procedono sul sentiero che porta verso sud (dakṣināyaṇa) per raggiungere la dimora della Morte (Yamanagara). In quel loka i defunti diventano antenati (pitṛ) e per essi quella stazione intermedia tra la terra degli uomini e il cielo della luna diventa il pitṛloka. Costoro lì si arrestano senza poter proseguire alla tappa successiva dei candraloka. Nel pitṛloka le anime dei profani (preta, lett. i dipartiti) diventano antenati (pitṛ) e scontano le pene per le colpe (pāpa) compiute in vita in un settore che contiene gli inferni (naraka) o fruiscono dei godimenti per le buone azioni (puṇya) in un altro settore che corrisponde ai cieli (svarga). È da lì che, dopo aver esaurita la fruizione dei risultati dei riti compiuti in vita, infine ritornano alla terra degli uomini.

Perciò solo coloro che compiono riti sacri [gli iniziati] ascendono al cielo della luna. Per quello che riguarda gli altri, essi entrano nella dimora della Morte (Yama), e scontano con le sofferenze dell’inferno le loro colpe; solo in seguito risalgono a questo mondo [mānuṣaloka].

Perciò il testo della Kauśitaki Upaniṣad con “tutti” intende riferirsi ai soli sādhaka quando dichiara:

Sii certo, tutti coloro che se ne vanno da questo mondo raggiungono la luna.