Due volte nati, tre volte nati, mai nati.
Gian Giuseppe Filippi
Due volte nati, tre volte nati, mai nati.
La dottrina vedāntica dell’immortalità
In tutta l’India s’usa ripetere, in un sanscrito popolaresco, il motto che comincia con “Prathama guru tataḥ mātā”: invero, il primo guru è la madre. Questa concezione è talmente condivisa sia dagli ambienti iniziatici dediti alla metafisica più elevata sia da incolti rappresentanti di quel buonsenso, che si usa definire “saggezza popolare”, che la credenza diffusa vuole che si tratti di un qualche aforisma vedico proveniente da un non meglio identificato testo sacro. In realtà, pur esprimendo una concezione dottrinalmente ineccepibile, il motto non è niente più di un proverbio della cui origine si sono perse le tracce. Ciò nondimeno il motto, che prosegue con “il padre è il secondo, il guru è il terzo”, è una sorta di felice sintesi di varie affermazioni testuali, laddove si conferma tassativamente la triplicità della funzione magistrale.
Il passaggio scritturale più importante e, probabilmente, il più arcaico sull’argomento, è espresso all’inizio del Bhīṣma Parva del Mahābhārata. In questo episodio epico il principe Yudhiṣṭhira interroga Bhīṣma, morente sul campo di battaglia, su quale sia il dovere più importante per il Sanātana Dharma. Senza indugio l’anziano invitto eroe risponde che ciò corrisponde all’adorazione (pūjā), anzitutto della madre, poi del padre e, infine, del guru, obbedendo ai loro comandi anche qualora potessero apparire contrari al Dharma. Qui il termine guru è usato in una accezione diversa da quella dichiarata dal proverbio citato in apertura. Guru letteralmente significa ponderoso, grave, anziano, per intendere una persona importante, illustre, eccellente, saggia. Questo primo significato s’addice all’uso in cui ci siamo imbattuti nel proverbio menzionato in apertura: non c’è dubbio che la madre, il padre e il maestro siano importanti, vale a dire “guru”, per la vita del figlio. Tuttavia il titolo di guru è impiegato soprattutto in forma onorifica per designare sia l’ācārya sia l’upādhyāya. E, in modo particolare, quest’ultimo, il vero maestro iniziatico (dīkṣāguru).
Quanto Bhīṣma afferma, rispondendo a Yudhiṣṭhira, corrisponde esattamente al seguente passo della Manu Smṛti:
Chi venera la propria madre ottiene questo mondo, chi venera il proprio padre ottiene il mondo che sta a metà [tra terra e cielo], e chi obbedisce al guru raggiungerà il cielo più alto (Brahmaloka). […] Onorando questi tre si compie ogni dovere dell’essere umano. Questo è il dovere più sublime a cui tutti gli altri sono subordinati.
Questa citazione aggiunge, inoltre, alcuni particolari significativi in quanto specifica quali sono i risultati karmici (phala) dell’adorazione (pūjā) che il figlio riserva rispettivamente alla madre, al padre e al padre spirituale, il guru.
Ritornando al Mahābhārata, Bhīṣma afferma che, da un certo punto di vista, il guru più importante è la madre. Infatti se un upādhyāya, un guru di una specifica scienza iniziatica vedica, è dieci volte superiore a un ācārya, il padre vale dieci ācārya e la madre è dieci volte più importante del padre: nessun guru può eguagliare l’importanza della madre. In tutta evidenza l’importanza primaria attribuita alla madre consiste nel fatto che ella presta il suo sangue e la sua carne al figlio, permettendogli di entrare in questo mondo come essere umano dotato d’un corpo grosso vivente (dehadhārin). Questo perché in una visione trasmigratoria,
[…] la nascita umana è fra tutte la più difficile da ottenere.
Nascita umana che fornisce l’occasione, forse unica, di uscire dalla ridda delle nascite e rinascite, delle morti e ri-morti che l’avvicendamento dei mondi manifestati (saṃsāra) produce. La madre, offrendo la preziosa opportunità della nascita umana, è perciò il guru che, per lo meno in modo virtuale, avvia l’individuo trasmigrante (saṃsāri prāṇin) a un’esistenza che, opportunamente fruita, può permettere il compimento del proprio dharma individuale (svadharma). Qualora il figlio fosse provvisto delle necessarie qualifiche (adhikāra), questa nascita potrebbe condurlo a vivere una vita colma di soddisfazioni (nāndī) e di benessere (sampad), ad accumulare meriti (puṇya) per ottenere la salvezza nell’altra vita (svarga); oppure, tramite una via iniziatica (sādhana mārga) a raggiungere con sacrifici e devozione il più alto dei cieli (Brahmaloka) e persino seguire una via di preparazione all’ottenimento della Liberazione (mokṣa, mukti) dai legami (baṅdha) del saṃsāra: si sa, infatti, che la Liberazione si può raggiungere proprio prendendo come supporto questa vita corporea. La nascita umana (manuṣyajanman) che la madre offre al figlio è precisamente la prima nascita visibile (dṛṣṭa janman) alla vita attuale, quella che ogni vivente sta sperimentando qui, ora. La madre è per questa ragione la personificazione della terra (pṛthivī), com’è affermato nella smṛti; e proprio per questo garantisce ai figli, durante la loro vita corporea, la possibilità della fruizione (bhukti o bhoga) e della conquista di tutto ciò che nel suo corso si dispiega. Questo non si limita al solo godimento degli oggetti necessari alla sopravvivenza, ma anche dell’intera totalità delle ricchezze, relazioni, attività, conoscenze che il corpo grossolano (sthūla śarīra) permette (o non permette che ha condotto l’anima trasmigrante (saṃsāri jīva) a nascere dalla matrice (yonijanman) della propria madre.
Tra i benefici più immediati che la madre, in quanto primo guru, procura ai figli, certamente il più importante è quello di condurli verso il padre, al quale infine li affiderà. Questo avviene regolarmente attorno ai sei-otto anni d’età. Il bambino allora sarà introdotto dal padre alle prime istruzioni necessarie per essere accettato nella casta della famiglia da cui proviene. Medhātithi, il principale commentatore della Manu Smṛti, afferma che il fanciullo è sottoposto all’upanayana saṃskāra (rito d’aggregazione alla casta) all’età di otto anni se proviene da famiglia di brāhmaṇa, di undici se kṣatriya, di dodici se vaiśya. “La più probabile ragione di questa differenziazione sembra essere che, nei tempi antichi, nel caso degli studenti (brahmacārin) di casta brāhmaṇica, il maestro fosse proprio il padre. Perciò non era per loro scomodo che fossero “iniziati” in giovane età, perché per essere istruiti non avevano bisogno di lasciare casa loro. Non altrettanto per i bambini di casta kṣattriya [sic.] e vaiśya, che dovevano separarsi dai loro genitori per ricevere gli insegnamenti. Perciò essi avrebbero potuto essere a disagio a trovarsi separati dai genitori in così giovane età.”
Qualora il padre non fosse in grado di ottemperare a questa funzione educativa, vuoi perché privo della preparazione testuale necessaria, vuoi perché non brāhmaṇa, allora si fa ricorso a un ācārya.
Il maestro è allora chiamato padre affinché possa insegnare il Veda [al ragazzo].
Il commento tradizionale a questo passo aggiunge:
Stando così le cose, fino a quando il maestro non abbia assunto la funzione di padre, il bambino non può ottenere la seconda nascita. Finché non è diventato un due volte nato (dvija), egli non avrà alcuna regola che disciplini il suo comportamento, poiché si trova in uno stato precedente l’upanayana.
Dopo una notte di veglia silenziosa, il figlio consuma l’ultima colazione assieme alla madre. Il padre, a questo punto, lo prende in consegna e lo conduce a casa dell’ācārya. Dopo un bagno lustrale e la rasatura del capo, il bambino, vestito di bianco, raggiunge il maestro presso il fuoco sacro e chiede di essere ammesso all’insegnamento del più sacro mantra vedico, la Gāyatrī. L’ācārya, a questo punto, lo accetta come brahmacārin o studente brāhmaṇico. Gli cinge i fianchi con una cintura di erba kuśa, (da non confondere con lo yajñopavīta, che porterà per il resto della sua vita sociale) novello cordone ombelicale, che segna la sua seconda nascita (dvijanman), e lo abilita a compiere i riti tradizionali. Dopo una circoambulazione dell’altare del fuoco, il padre o l’ācārya gli fanno ripetere la Gāyatrī:
Salutiamo la terra, l’atmosfera e il cielo:
meditiamo sulla luce eccelsa del Sole divino,
che possa illuminare le nostre menti. Oṃ!
“Nei tempi antichi l’upanayana e la dīkṣā potevano essere compiute nello stesso tempo. Ciò accade ancor oggi quando il ragazzo di casta brāhmaṇa ha il padre che è sia un ācārya sia un guru”.
Tuttavia, al giorno d’oggi, per molti adolescenti l’upanayana e l’imposizione del cordone (yajñopavīta), portato sulla spalla sinistra in obliquo fino al fianco destro, rappresentano la conclusione del rito di acquisizione dello stadio della vita di studente o brahmacarya. Egli ora è un dvija e un nobile (ārya), ed è abilitato a compiere i rituali tradizionali della sua casta, del suo clan, della sua famiglia, strumenti potenti per il raggiungimento della salvezza (svarga). Per molti il saṃskāra si conclude qui.
Ma per chi volesse continuare la propria istruzione vedica, scegliendo un giorno particolarmente fausto in una data successiva al rito dell’upanayana che abbiamo appena descritto, gli è fissato il rito di introduzione allo studio del Veda (vedārambha) e alle sue pratiche, secondo la tradizione familiare del brahmacārin. Il vedārambha può anche culminare con il conferimento della dīkṣā. In questo caso un officiante vedico (ṛtvij) consacra il guru come madre del brahmacārin per mezzo di diversi rituali che si concludono con un’oblazione sacrificale (homa) nel fuoco dell’altare vedico. Conferito il dovuto salario (dakṣinā) al ṛtvij, l’upādhyāya procede al rito per trasmettere l’iniziazione (dīkṣā) al suo nuovo discepolo (śiṣya).
Il maestro, accettandolo come discepolo (upanī), prende il brahmacārin al suo interno come un feto e lo tiene nel suo ventre per tre notti. Gli dèi si riuniscono per vederlo nascere.
Dopo essere stato partorito dalla madre e dopo esser nato la seconda volta con l’upanayana, l’iniziazione costituisce per il fanciullo propriamente la terza nascita. Ma seguiamo la descrizione dell’iniziazione allo studio del Veda, che rappresenta il modello preso a esempio per tutti gli altri rituali d’iniziazione del Sanātana Dharma.
Coloro che lo conducono a ricevere la dīkṣā sono i celebranti del sacrificio, i quali lo trasformano nuovamente in embrione. Lo cospargono d’acqua; e l’acqua è il seme. Dopo averlo reso identico al seme, lo conducono nella capanna dell’iniziazione; la capanna dell’iniziazione per l’iniziato è il grembo [materno…]. Lo coprono con un indumento, che per l’iniziato è l’omento […] Sopra a questo gli mettono una pelle d’antilope nera; quest’ultima è la placenta che copre l’omento, ed essi lo ricoprono veramente con una placenta.
L’iniziando rimane ivi recluso per tre o nove notti,
Alla fine, uscito dalla pelle d’antilope nera, va a fare un bagno purificatore.
Tuttavia, questo non è più propriamente un ritorno alla vita normale, come era accaduto dopo la prima e seconda nascita. Ora l’iniziato (dīkṣita) è morto alla vita ordinaria ed è rinato nello spirito avendo la possibilità di raggiungere l’immortalità interiore e, una volta lasciato questo corpo, seguire la via degli Dei (devayāna), al fine di incorporarsi in Hiraṇyagarbha. Per costui il trasmigrare tra cieli (svarga) e inferni (naraka), tra rinascite buone o cattive, perde ogni significato, perché, almeno virtualmente, egli ha già superato per sempre la morte. Infatti:
Agni e Soma [e tutti gli altri Dei] prendono tra le loro fauci chi sta ottenendo la dīkṣā […], l’iniziato diventa cibo per gli Dei e per questo l’hanno preso tra le fauci […] e per questo egli ne esce esclamando: “Evviva!
Mi sono liberato dal cappio di Varuṇa [della morte].”
Infatti queste tre nascite sono precedute da altrettante morti. La morte allo stato embrionale segna la nascita come individuo autonomo; la rinascita come due volte nato corrisponde alla morte all’infanzia libera da responsabilità, stadio di vita animale, secondo natura (laukika); infine la terza nascita è la morte alla vita profana e l’entrata nel dominio della purificazione dell’individualità. Questo almeno in un primo tempo, e poi, eventualmente, della realizzazione spirituale tramite conoscenza. Altrove abbiamo dimostrato, con l’apporto di prove scritturali e secondo ragione, che la morte iniziatica, lungi dall’essere il compimento d’un rituale in forma drammatica, è una morte reale, persino più reale dell’abbandono del corpo, poiché coinvolge l’individualità integrale.
A questo punto, ritornando al Mahābhārata con cui avevamo iniziato le nostre citazioni, è ben lecito che Bhīṣma sollevi qualche dubbio sulla valutazione delle funzioni dei tre guru. Infatti, non appena egli afferma l’importanza della madre come guru, come abbiamo già citato, egli aggiunge che però, a suo parere, il più importante dei tre è quel maestro che conferisce l’iniziazione (dīkṣāguru). I genitori sono invero importanti per quello che riguarda la vita del figlio, ma il guru, il vero upādhyāya, permette di raggiungere quel cielo in cui si è esenti da vecchiaia e morte. Il dubbio di Bhīṣma è più che legittimo: sta di fatto che trova conferma nella Manu Smṛti:
Se paragoniamo un genitore naturale con chi insegna il Veda, colui che insegna il Veda è il padre più venerabile, perché la rinascita del brahmacārin è eternamente lo stesso Veda [la conoscenza] sia qui sia nell’altra vita.
Quest’ultimo è il punto di vista iniziatico, quello più autorevole. Il riconoscimento dell’importanza fondamentale delle funzioni materna e paterna non toglie che esso sia possibile soltanto da un punto di vista esclusivamente naturale e mondano (prakṛtibhava, laukika). La terza nascita corrisponde dunque a un totale cambiamento di prospettiva e all’accesso al dominio del sacro (pavitra, alaukika).
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Come si diceva, l’iniziazione alla conoscenza dei testi vedici e dei rituali sacrificali (yajñakriyā), che segue il vedārambha, rappresenta il modello rituale a cui tutti gli altri riti d’iniziazione (dīkṣākriyā) dell’Induismo si conformano, in riconoscimento della sua preminenza dovuta al fatto che essa è l’unica iniziazione descritta nei minimi dettagli nella śruti, ossia nel Veda. In realtà quel rituale è applicato solamente nel caso in cui l’aspirante appartenga a una famiglia sacerdotale di tradizione karma kāṇḍa śrauta, ossia che per trasmissione familiare si dedichi al compimento dei sacrifici vedici e al mantenimento perpetuo nella propria casa del fuoco sacrificale (abhyāhitāgni). Quelle famiglie rappresentano un settore strettamente minoritario all’interno della stessa casta brāhmaṇica, poiché in realtà la massima parte dei brāhmaṇa si dedica alla tradizione smārta. Altri sono preposti a trasmettere la tradizione gnostica del Veda, jñāna kāṇḍa, ma in questo caso non per via familiare trattandosi di saṃnyāsin. Perciò due riti d’iniziazione vedica sono attuati solamente per l’ammissione ai due darśana vedici più elevati: alla Pūrva Mīmāṃsā e all’Uttara Mīmāṃsā (o Vedānta). In tutti gli altri casi, nelle diverse correnti dello Yoga, del tantrismo, dello śaktismo, delle scienze e arti tradizionali (vidyā śāstra, śilpa śāstra), il rito d’iniziazione assume forme proprie che si discostano parzialmente dalla dīkṣā descritta nella śruti, adattandosi alle caratteristiche delle loro dottrine particolari.
Fatte queste dovute precisazioni, ritorniamo a considerare il modello vedico, che qui riprende a essere considerato orientativo per ogni altro rito d’iniziazione hindū.
Colui che compie i riti vedici, senza aver ottenuto la corrispondente iniziazione, ambisce a ottenere meramente una posizione migliore in questo mondo e, dopo la morte, a raggiungere i cieli (svarga) per poi trasmigrare in altri mondi (loka) per mezzo di una rinascita auspicabilmente migliore a quella della presente vita[41]. Ciò corrisponde con esattezza alla concezione della salvezza caratteristica delle religioni monoteistiche, ed, esaurita la durata dell’esistenza in quei prolungamenti sottili (sūkṣma pravṛtti), all’ottenimento di una nuova rinascita.
Tuttavia, dopo aver ricevuto l’iniziazione si riesce a capire che:
Sia chi conosce sia chi non conosce, tutti compiono i riti [nella medesima forma]. Ma conoscenza e ignoranza sono differenti: diventa più efficace (vīryavattaram) solo quel rituale che si compie (karoti) con l’aggiunta della meditazione interiore (upaniṣadā), della śraddhā e della conoscenza (vidyā).
È necessario spiegare accuratamente questo passaggio della śruti. Anzitutto non si vuole affatto negare l’efficacia dei riti esteriori, ma semplicemente riconoscerne la minore portata: per questo si dice “diventa più efficace”, sottintendendo che i riti iniziatici hanno una efficacia maggiore di quella dei riti vedici esteriori compiuti dagli ignoranti. E qui con ignoranti s’intende coloro che, sebbene nati in una casta ārya, essendo anche due volte nati (dvija) e pur conoscendo anche dettagliatamente gli atti, le formule, i tempi e i luoghi dove officiare, non sono iniziati.
Gli iniziati, di cui parla la śruti citata, di quale tipo di conoscenza sono dotati? Śaṃkara, nel suo Commento ai Brahma Sūtra aggiunge a questo passaggio questa breve e illuminante considerazione:
La conoscenza è qui intesa come facente parte di un certo rito. Perciò questa conoscenza non può di per sé portare alla Liberazione.
Infatti:
[… l’azione (karma)…] che sia compiuta con attaccamento al fine di fruire dei suoi risultati, oppure perché è una prescrizione obbligatoria, o persino quando è eseguita con distacco nei confronti dei suoi frutti, produce necessariamente un suo effetto; ma, evidentemente, non è in grado di condurre alla Liberazione poiché, essendo quest’ultima eterna, non può affatto essere il risultato di alcuna azione.
Bisogna, di conseguenza, stabilire di quale tipo di conoscenza si tratti allorché essa sia riferita all’ambito dei riti, seppure iniziatici. Infatti, per quale ragione le , accanto alla conoscenza suprema (parajñāna) del Brahmātman, menzionano anche quelle vidyā che fanno parte integrante della sezione ritualistica del Veda (karma kāṇḍa)? La prima ragione, per la quale la śruti tratta del divenire e delle azioni rituali di vario genere, consiste nel fatto che questa scienza del dharma (dharmajñāna) può essere considerata utile per avviare verso la cerca dell’ultima Realtà coloro che non possono ambire a un approccio diretto con la realtà assoluta (pāramārtika sattā).
Le Upaniṣad contengono due insiemi d’insegnamenti che riguardano il Brahman, [cioè] la Realtà, indirizzati a due differenti livelli mentali. Al più elevato livello di aspiranti appartiene sia il discepolo che ha ottenuto in questa vita la preparazione mentale necessaria per affrontare questo tipo di ricerca sia colui che è dotato di una mente rivolta all’interiorità come risultato di una disciplina eseguita nelle sue ultime esistenze […] Secondo Śaṃkara, l’altra categoria d’insegnamenti upaniṣadici consiste nelle ingiunzioni alla meditazione di ciò che si definisce Aparabrahman, il Brahman non-Supremo. […] Come la meditazione insegnata nelle religioni non hindū, anche la meditazione upaniṣadica di Brahman [non-Supremo] assicura il raggiungimento postumo del Cielo supremo, qui chiamato Brahmaloka.
Si distinguono, dunque, due categorie intellettuali d’iniziati; la prima è costituita da coloro che sono qualificati al raggiungimento diretto della Conoscenza suprema (paravidyā) o Conoscenza metafisica (pāramārthika vidyā). La seconda, comprende coloro che, meno dotati, devono intraprendere un avvicinamento conoscitivo indiretto e per gradi tramite l’azione; è ciò che fa parte delle conoscenze e scienze del dominio del non-Supremo (aparavidyā). Si osservi ora più da vicino cosa s’intende con Conoscenza suprema e con “azione conoscitiva”.
Sulla Conoscenza suprema la Kaṭha Upaniṣad afferma:
Il Sé cosciente non nasce né muore, non è originato da nulla e nulla ha origine da lui. È non-nato (aja), immutabile (nitya), esente da decadenza, originario. […] La pace eterna non spetta ad altri se non a coloro che discriminano e realizzano nei loro cuori l’Essere immutabile tra gli esseri mutevoli, che è Coscienza pura tra gli oggetti apparentemente dotati di coscienza, che elargisce a molti ciò che massimamente desiderano [il mokṣa].
Per questa ragione la śruti dice che l’Assoluto è “satyam jñānam anantam Brahma”, Realtà, Conoscenza e Infinito e non attribuisce al Brahman nulla che lo coinvolga con alcuno sforzo (ānayāsa), azione, movimento, o con l’idea di mutamento, di tempo, di causalità, ovvero con il divenire.
Al contrario,
la parola jñapti, che esprime la conoscenza come una azione intesa a conoscere, non può essere applicata al Sé. Perché il Sé non è sottoposto ad alcun cambiamento, poiché sappiamo dalle Upaniṣad che egli è immutabile.
La parola jñapti significa sforzo per apprendere, perciò non può essere attribuita all’Ātman, in quanto lo sforzo per apprendere indica un’azione o un mutamento nella natura di chi s’impegna nella jñapti. Chi compie un’azione tesa a ottenere conoscenza di alcunché, necessariamente acquista qualcosa che anteriormente non possedeva; vale a dire che costui cambia, si modifica a seconda del grado di conoscenza progressivamente raggiunto. Perciò, in luogo di jñapti, nel caso dell’Ātman è più appropriato l’uso di jñāna (Conoscenza) e caitanya (Coscienza). Oltre tutto, se così non fosse, si dovrebbe supporre che l’Ātman dovrebbe partire da uno stato d’ignoranza (ajñāna o avidyā) per raggiungere la Conoscenza, cosa che sarebbe contraria sia alla śruti sia alla ragione, perché si sa che il Sé è pura Coscienza-Conoscenza e che è immutabile.
La conoscenza, nel senso di strumento dell’azione di conoscere, è applicabile all’intelletto e non al Sé, poiché non esiste uno strumento senza un agente che lo utilizzi. La medesima parola “conoscenza” non può nemmeno essere attribuita al Sé quando con essa s’intende l’oggetto dell’azione di conoscere.Il Sé non può mai essere conoscibile né può essere indicato direttamente con parole, essendo, com’è, eternamente immutabile, libero da sofferenza e piacere, e assolutamente Uno.
Se si suppone che esista qualcosa che, usando come strumento l’azione conoscitiva, s’appresti a conoscere qualcosa di conoscibile, ossia un oggetto che alla fine di questo processo d’indagine diventi conosciuto, questo “qualcosa” può essere soltanto l’intelletto (buddhi) e certamente non l’Ātman. Infatti, mentre la buddhi, produzione di prakṛti, è sottoposta al mutamento provocato dai guṇa che le sono connaturati, l’Ātman non è agente, perciò non può essere ridotto a qualcosa che usa uno strumento conoscitivo per conoscere. Se con conoscenza s’intende un’azione volta a conoscere, questo tipo di conoscenza non può dunque essere davvero attribuito all’Ātman, ma all’intelletto. La buddhi, inoltre, assume la funzione di ahaṃkāra, che significa “ciò che produce l’io individuale” (aham o jīva-jīvātman). Da ciò deriva che colui che compie l’azione conoscitiva è solamente l’individuo. Allo stesso modo in cui non si può attribuire all’Ātman alcuna azione, nemmeno quella conoscitiva, così esso non può essere oggetto di alcuna azione: perciò nemmeno dell’azione di conoscere. L’Ātman perciò non può essere conoscibile né tanto meno conosciuto. Non può essere né soggetto né oggetto di alcun verbo che indichi azione, essendo immutabile, uno e al di là della dualità: l’Ātman è Coscienza-Conoscenza, non è un agente di alcuna conoscenza. Se potesse essere soggetto o oggetto di modificazione, allora sarebbe lo sperimentatore del saṃsāra come erroneamente sostengono alcuni.
Se l’ego fosse il Sé, allora una parola potrebbe descrivere il Sé in senso letterale. Ma secondo la śruti, l’ego non è il Sé, dal momento che è sottoposto a fame ecc.
L’ego è il riflesso del Sé nella sfera individuale. Se l’ego fosse identico al Sé, quest’ultimo sarebbe facilmente descritto tramite una parola corrispondente a un’idea. Ma, sull’autorità della śruti, l’ego non è il Sé, essendo sottoposto a tutte le limitazioni derivanti dalla sua esistenza empirica, come la fame, la sete, la gioia e il dolore.
Tuttavia le vie che appartengono al domino della conoscenza del non-Supremo (aparavidyā) prendono questo ego (aham, jīvātman) come punto di partenza per la loro sādhanā. E, poiché l’individuo altro non è che un aggregato di molteplici modalità, queste vie iniziatiche cominciano assumendo come primo supporto il corpo grossolano (sthūla śarīra), usandolo come strumento (karaṇa, hetu) per compiere rituali, per controllare il respiro e i ritmi degli organi corporei. Dopo un certo periodo, raggiunto il controllo della modalità corporea, si risale attraverso una indefinità di gradi rappresentati da modalità sottili, introvertendo la voce o la vista (gli indriya) a una dimensione mentale, per poi arrivare a un livello di scelta intellettuale (bauddhika vikalpa). Rimane da risolvere, a questo punto, il problema dell’esistenza apparente di un che non è il Sé, la cui soluzione è abitualmente rimandata alla condizione in cui l’iniziato (sādhaka) si troverà nella prosecuzione postuma della propria vita individuale.
Il metodo del Vedānta è chiamato sākṣāt sādhana, di solito tradotto come metodo diretto. La traduzione è soddisfacente, in quanto si tratta d’un metodo che non s’appoggia su nulla che possa fare da intermediario tra il sādhaka e la meta prefissata. Quindi, l’advaitin non farà alcun uso di meditazioni, di supporti simbolici, yantra, mantra, tantra, di azioni rituali corporee, vocali o mentali che siano. L’indagine realizzatrice (jijñāsā) di questo sādhaka si basa esclusivamente sulla ricerca del Brahman per mezzo del proprio Sé; ma, essendo il Sé di ciascuno sempre identico al Brahman, appare evidente che esso non può consistere in alcun mezzo, supporto, strumento o simbolo. Perciò un metodo immediato non può essere che un metodo diretto. Per spiegare meglio il significato di sākṣāt sādhana aggiungeremo che l’indagine sul Brahman o, se si preferisce, la cerca del Brahman, è compiuta dal proprio Ātman inteso come Sākṣin, vale a dire il Testimone diretto.
Diverso da quell’agente, che è l’oggetto noto come ego, è il Testimone che risiede in tutti gli esseri, il medesimo in tutti, l’unico, immutabile, eterno Puruṣa, Sé di tutti e di ciascuno, che non è mai rivelato ad alcuno per mezzo della sezione rituale del Veda o da vie meditative.
Il jñāni è consapevole fin dall’inizio del suo sādhana di essere l’Ātman, e che l’Ātman è il Brahman. Egli dovrà quindi dedicarsi a discriminare il non-sé (anātman) dal Sé:
Quando si è liberi, la nozione illusoria di essere soggetti a dolore e piacere, che è provocata dalla propria identificazione con il corpo [sensi, mente e intelletto] è cancellata per sempre dalla conoscenza discriminante (viveka) che rimuove ciò che occulta l’evidenza dell’identità del Sé con il Brahman, esattamente come quando, togliendosi gli orecchini, si rimuove l’idea di essere “colui che porta gli orecchini”.
Per citare il grande maestro di Vedānta Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī:
Dal punto di vista contingente (vyāvahārika) tutti i seguenti concetti paiono ‘reali’: 1) Abbiamo strumenti di conoscenza e azione come il corpo, i sensi e la mente. 2) Usando questi strumenti compiamo varie azioni e ne traiamo meriti (puṇya) o demeriti (pāpa). 3) A causa di questi meriti o demeriti si producono future nascite. Ma quello che stiamo seguendo ora è il punto di vista metafisico (pāramārtika). Da questo punto di vista sia il mondo della dualità (jagat) sia il corpo, che in esso esiste, sono illusori (māyika). Non possiamo affermare che sia la nostra vera natura essenziale ad avere qualche relazione con il corpo, perché nello stato di sogno non abbiamo alcuna relazione con esso; e nel sonno profondo addirittura non abbiamo alcun corpo. Inoltre, se continuiamo a conservare questo punto di vista, in verità non abbiamo nemmeno kartṛtva, ovvero, la qualità di essere un agente, in quanto solo quando siamo associati all’ego (ahaṃkāra) pensiamo di star compiendo tale o talaltra azione. Desiderare un oggetto e, allo scopo di appropriarsene, provare la volontà (saṃkalpa) e decisione (niścaya) di compiere un’azione (karma) volta ad acquisirlo, tutti questi pensieri dipendono da ahaṃkāra e non possono essere attribuiti alla nostra vera natura (svarūpa).
Perciò:
Io non sono mai nato, cresciuto e morto. Queste qualità di Prakṛti, che sembrano essere in me, in verità appartengono al corpo. Kartṛtva [il fatto di essere un agente], bhoktṛtva [il fatto di essere un fruitore] ecc. appartengono solo ad ahaṃkāra e non a me che sono fatto di pura Coscienza (cinmāyā). Io sono l’unico Śiva.
Nella prospettiva della metafisica pura (śuddha paramārtha), dunque, tutto ciò che è mutevole è saṃsāra: in questa visione del vero non c’è modo di attribuire alcuna realtà alla morte, sia quella ordinaria (dehānta) sia quella iniziatica. Morte non è altro che una concezione temporale, che non s’addice a chi ha la visione dell’Eterno. Solamente l’Ātman-Testimone può avere questa visione, ossia colui che ha raggiunto la Coscienza-Conoscenza perfetta, il mukta. Ma in questo caso non potremo tradurre questo termine con “liberato”, perché egli è libero, eternamente libero, infinitamente libero, e non è mai esistito nulla che lo abbia limitato, impedito, ostacolato. Perciò egli non muore perché non è mai nato (aja). Solamente chi non è mai nato è realmente immortale. Solamente chi è ignorante può pensare altrimenti.
Solamente coloro che in questo mondo avranno la conoscenza più perfetta, incrollabilmente sapranno che la Suprema Realtà è senza nascita e senza distinzione. Ma l’uomo ordinario questo non lo potrà comprendere.