36. Il conflitto tra Impero e papato
Il conflitto tra Impero e papato
Sull’argomento che stiamo per trattare sono stati scritti fiumi d’inchiostro. Purtroppo il pregiudiziale odio contro la Tradizione, che da allora domina il pensiero occidentale, ne ha dato una descrizione partigiana. A volte, nell’interpretazione dei fatti la realtà è stata rovesciata; per questa ragione cercheremo di darne una versione tradizionale, che rispecchi realmente ciò che accadde. Come abbiamo detto nel capitolo precedente, la restaurazione della Chiesa latina fu una iniziativa imperiale per la salvezza della cristianità. Lo strumento prescelto fu l’ordine monastico. Il monachesimo, fino allora, era costituito da cenobi ed eremi totalmente autocefali. L’unico rapporto che i monasteri avevano con i vescovi locali riguardava la celebrazione dei riti obbligatori, in quanto i monaci evitavano accuratamente di farsi ordinare preti secolari. Essi, perciò, ricorrevano ai servizi liturgici dei preti che i vescovi mettevano a loro disposizione. I rapporti tra monasteri e vescovi erano basati sul reciproco rispetto, senza che ci fosse la minima dipendenza degli uni dagli altri. Questo rispetto era rafforzato dal fatto che i monaci provenivano quasi sempre da famiglie aristocratiche, poiché la regola monastica richiedeva inclinazione agli studi e alla contemplazione. Similmente, i vescovi provenivano dal medesimo ambiente nobiliare che dava garanzie di capacità di governo e di preparazione culturale
Ricorderemo al lettore che il vescovo era eletto dal capitolo della diocesi tra i più capaci collaboratori del predecessore. Al placet dei vescovi della medesima contrada, seguiva la consegna dell’anello e del pastorale da parte dell’Imperatore in persona o da parte di un suo delegato. In alcuni casi, laddove la diocesi del vescovo coincideva con l’estensione di un feudo, il prelato era anche investito del beneficio feudale corrispondente. Quello che è bene rammentare è che all’interno dei monasteri continuava a trasmettersi l’iniziazione monastica, anche se la funzione di maestro non corrispondeva necessariamente con la carica di abate. Allo stesso modo, non tutti i monaci diventavano obbligatoriamente discepoli dell’Ars sacerdotalis, ma solamente quelli più qualificati. Anche nel sistema feudale si manteneva la trasmissione delle vie iniziatiche guerriere tramite l’istituzione della cavalleria, che aveva come vertice l’Imperator.
Abbiamo già visto che l’Abazia di Cluny, impegnata nel raddrizzamento della Chiesa romana, rapidamente degenerò in un centro di potere ecclesiastico-politico. Sebbene meno rapidamente, per altri versi anche i rami cistercensi e camaldolesi del monachesimo decaddero, abbracciando un forte pauperismo per influenza della Pataria lombarda.
In un modo o nell’altro, più che riformare la Chiesa romana, queste attività sociali riformarono il monachesimo benedettino, frantumandolo in correnti tra loro rivali e sempre più coinvolte negli affari del mondo. L’esteriorizzazione del monachesimo spalleggiò le ambizioni mondane del papato e privò l’Impero del suo sostegno spirituale. Da parte sua la Chiesa di Roma, inizialmente ostile alla Pataria, seppe approfittare del malcontento delle classi più basse per scatenarle contro la nobiltà milanese e contro lo stesso arcivescovo legato alla fedeltà verso l’Impero.
L’Imperatore, come il Basileus suo omologo, da secoli godeva del titolo di Vicarius Christi, successore del Messia-Re. Inoltre, l’Imperatore doveva la sua autorità sacra alla trasmissione della funzione iniziatica romana di Imperator. Grazie a questo duplice carisma egli era Rex et Sacerdos, spiritualmente alla pari dei vescovi. Soli Gesù Cristo e l’Imperatore potevano essere ritratti con in mano il globo del mondo. Con Ottone I venne in uso l’unzione da parte del papa, rituale che risaliva all’epoca di Meroveo, per l’incoronazione dei Re di Francia. Ottone accettò con piacere questa modifica della consacrazione Imperiale, che faceva di lui anche un successore dei Re biblici Davide e Salomone. L’Imperatore non s’accorse della trappola che gli era stata tesa: con il rito dell’unzione egli veniva abbassato a una dignità pari a quella del Re di Francia. Inoltre, impersonando Davide, Re biblico degli ebrei, egli implicitamente riconosceva la supremazia dei preti sul sovrano da loro unto.
In seguito sia il Re di Francia sia il Re normanno d’Inghilterra cominciarono a sostenere la dottrina secondo cui il Re era come l’Imperatore nel suo Regno. Era una dichiarazione di indipendenza dal Sovrano Universale e costituiva la prima spaccatura dell’ecumene cristiana. Anche in questo caso il papa prese le parti dei Re nazionali, ben sapendo che così si minava dalle fondamenta l’unicità del Sacro Imperatore, che diventava uno dei tanti Re, perdendo il suo prestigio di unico difensore del cristianesimo e unico successore di Cristo.
Nel 1059 papa Nicolò II cambiò le regole dell’elezione papale con il Decretum in electione papæ. I cardinali nominati dal papa divennero i soli ad avere il privilegio di eleggere il papa tramite un Conclave.
Il papato allora cominciò una lotta sotterranea contro l’alto clero incitandogli contro le classi più basse. Facendo leva sulle invidie sociali, la corte papale romana accusò gli alti prelati di due colpe: la prima, chiamata ‘simonia’, consisteva nell’acquisto delle cariche ecclesiastiche in cambio di denaro o di favori. La seconda colpa (definita ‘nicolaismo’) consisteva nel matrimonio o il concubinato dei prelati. Papa Leone IX (1049-1054), dunque, stabilì definitivamente che il celibato dei preti era obbligatorio.
Leone IX dichiarò anche che il papa non doveva essere considerato come un primus inter pares, come era accaduto fino a quel momento. Il papa era il capo assoluto di tutti i vescovi, compresi i patriarchi dell’Impero d’Oriente. Il suo potere era indiscutibile e a lui e solo a lui spettava la nomina dei vescovi. Questa pretesa spaccò la cristianità in due parti in modo inconciliabile. La Chiesa di Costantinopoli rifiutò questa novità, attirandosi la scomunica del vescovo di Roma, a cui il patriarca di Bisanzio rispose con uguale scomunica. Da allora le due Chiese non si ricongiunsero più. Più delle differenze dottrinali, davvero minime, furono le pretese di supremazia politica del papa che causarono quello che è conosciuto come il “Grande Scisma”.
Tutti questi stravolgimenti della tradizione cristiana furono compiuti con pazienza, in forma strisciante e ipocrita. La curia romana, però, era pronta a rimangiarsi ogni rivendicazione in caso di necessità: come quando Enrico III depose i tre papi che si contendevano la cattedra di Pietro, per nominarne uno a suo piacimento: nessuno, allora, ebbe a protestare.
Le ambizioni dei vescovi di Roma vennero però spudoratamente alla luce allorché Ildebrando di Soana diventò papa Gregorio VII (1073-1085). Nato da una famiglia di contadini, percorse rapidamente la carriera ecclesiastica grazie agli aiuti finanziari di suo zio materno, lo strozzino Leone Baruch.
Prete e falso monaco, divenne l’eminenza grigia di ben cinque papi, prima di diventare lui stesso papa per mezzo di una semplice acclamazione del popolaccio romano influenzato dalla pataria. Egli per quarant’anni ordì una rete di alleanze in odio all’Impero, accordandosi con i patarini, con i Re di Francia e d’Inghilterra e, soprattutto, con i normanni dell’Italia meridionale.
Questo individuo era dotato di una abilità e protervia che perfino i suoi contemporanei riconobbero come “luciferina”. Seppe cogliere l’occasione della tenera età del successore di Enrico III al trono di Germania per fomentare rivalità tra i grandi feudatari, tra i feudatari ecclesiastici e tra tutti questi e il trono imperiale vacante. Pubblicò un Dictatus Papæ in cui dichiarava che l’Imperatore era un semplice laico e che non aveva alcun potere sacerdotale. Il Papa era il vero Vicarius Christi e aveva suprema autorità su tutti i sovrani e i vescovi della cristianità. Inoltre, solo il papa aveva il potere di consacrare i vescovi.I preti, indipendentemente dal loro grado, erano gli unici che avevano il potere di compiere riti: questo faceva del clero l’unico intermediario tra Dio e il resto dell’umanità.
Così, rivalutando le funzioni del basso clero, il papa ridimensionava a suo favore l’autorità degli altri vescovi. Gregorio VII dichiarò anche che il papa aveva il potere di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà nei confronti del loro signore. Questa presa di posizione fu un colpo mortale per il sistema feudale, basato sulla fedeltà, la lealtà e il senso dell’onore. Quando Enrico IV, ventiseienne Rex Romanorum (Re d’Italia), intervenne per convalidare l’elezione dell’arcivescovo di Milano, Gregorio lo scomunicò e lo dichiarò decaduto per essersi intromesso negli affari del clero. Era la prima volta che un vescovo usava la scomunica come arma politica. Dato che il papa aveva giustificato moralmente la slealtà, molti feudatari tedeschi, soprattutto gli ecclesiastici influenzati da Cluny, si ribellarono al loro sovrano. Enrico IV dovette umiliarsi recandosi come pellegrino a chiedere perdono al papa.
Ottenuto il perdono, Enrico stroncò la ribellione dei vassalli fedifraghi e riprese il controllo dell’Impero. Tuttavia, l’umiliazione del sovrano rimase come un brutto precedente. Il papa lo scomunicò nuovamente, e questa volta l’Imperatore rispose assediando Roma. Il papa chiese l’aiuto dei suoi alleati normanni. Questi ultimi misero a ferro e fuoco Roma e, poi, si ritirarono trascinando con loro il papa. Gregorio VII fece una miserabile morte, prigioniero dei suoi infidi amici.
Ma i danni ormai erano stati compiuti e i loro effetti furono, in seguito, disastrosi per l’ecumene medievale: accusando l’Imperatore di essersi impossessato di prerogative sacerdotali, il papa usurpò totalmente il potere temporale.
Petrus Simonet de Maisonneuve