33. Il Feudalesimo e la Cavalleria
Il Feudalesimo e la Cavalleria
Carlo Magno (742-814) iniziò a strutturare l’Impero sulla base dell’organizzazione iniziatica militare romana, compito che fu portato a termine dall’Imperatore Enrico II il Santo, della dinastia di Sassonia (978-1024). La società fu divisa in quattro classi sociali: i sacerdoti, i nobili, gli uomini liberi e i servi. I monaci non erano compresi nel clero, essendo considerati al di fuori e al di sopra delle divisioni della società cristiano-latina.
I preti, dopo l’opera di correzione del clero intrapresa prima dai monaci culdei, poi da San Bonifacio e infine da Carlo Magno, potevano sposarsi, ma erano puniti severamente in caso di concubinato con una o più donne. In quei due ultimi secoli del primo millennio, grazie alla progressiva instaurazione del principio d’ereditarietà, spesso diventavano preti i figli maschi dei preti stessi: si stava profilando così la costituzione di una vera e propria casta sacerdotale. Le gerarchie superiori, vescovi, arcivescovi e patriarchi erano prevalentemente assegnate a ecclesiastici non sposati, senza che questo rappresentasse un impedimento codificato. La ragione di questa scelta consisteva nel fatto che i vescovi erano gli eredi degli apostoli e quindi soltanto essi esercitavano appieno il ministero sacerdotale. Infatti solo i vescovi potevano consacrare altri vescovi e ordinare i preti. Si potrà notare, quindi, che per il Cristianesimo la distinzione tra l’alto clero e il basso clero è strutturale e non una contingenza storico-sociale, come si sostiene dalla Rivoluzione francese in poi. Gli appartenenti alle le classi più umili e più povere sceglievano spesso di diventare preti per trovare una qualche certezza di sostentamento e uno stato sociale più dignitoso, andando così a ingrossare il numero del basso clero.
La seconda classe sociale per ordine d’importanza era la nobiltà. Tra le quattro classi sociali del cristianesimo latino medievale sopra elencate, la nobiltà è l’unica che si è costituita come una vera e propria casta per diritto di nascita. È sorprendente quanto i “medievisti” abbiano arruffato i documenti a loro disposizione per confondere le idee a questo riguardo. Nei loro studi, la nobiltà appare come una concezione incomprensibile per l’uomo moderno, anche se l’aristocrazia è stata privata dei suoi poteri e prerogative soltanto da qualche decina d’anni o, al massimo, da due secoli. La nobiltà, che rappresentava la spina dorsale del Sacro Romano Impero, era tale “da tempo immemorabile” nel vero senso del termine. Vale a dire che a essa non poteva essere attribuita una origine storica determinata. Nel caso specifico, due erano le provenienze tradizionali dell’aristocrazia: la prima, rappresentata dal patriziato di origine romana (e prima ancora albana, troiana, iperborea). La seconda era costituita dalla nobiltà germanica e dai cavalieri celti, che rappresentavano la continuazione imbarbarita dell’aristocrazia iperborea. Queste due correnti nobiliari, che si riconoscevano reciprocamente e che frequentemente stringevano alleanze matrimoniali, rimasero tuttavia distinguibili per diversi secoli: generalmente i patrizi reggevano le città e le villæ, i nobili di origine barbarica amministravano i feudi e i castelli. Poiché il Sacro Romano Impero fu strutturato sulla base delle vie iniziatiche della casta nobiliare, fin dall’inizio le cariche amministrative, giuridiche e militari che lo governavano rispecchiarono i tre gradi principali dell’iniziazione guerriera. I nobili iniziati alla via cavalleresca, infatti, passavano attraverso tre fasi corrispondenti alla loro realizzazione. Il primo gradino era quello di barone: questa denominazione deriva dal termine latino vir, e distingueva il barone dal nobilis homo (più tardi nobil homo, o nobiluomo), vale a dire il nobile di nascita, ma non iniziato.
Il barone era dunque il grado di “apprendista” nella via iniziatica dell’Eroe. Il secondo gradino, che già presupponeva il raggiungimento delle prime esperienze interiori procurate dalla costante applicazione del metodo (sskrt. prakriyā), era quello di conte (lat. comes), vale a dire “compagno” del maestro. Costui, infatti, proprio per la maggiore esperienza interiore, per delega del maestro poteva dirigere spiritualmente i semplici iniziati. Il terzo grado, quello che propriamente si applicava al maestro, era quello del principe (lat. princeps). Perciò la gerarchia che governava l’Impero di Carlo Magno e dei suoi successori corrispondeva esattamente a questi tre gradi iniziatici. Ognuno di questi gradi prevedeva un ulteriore sviluppo di potere. Accadeva perciò che il barone che estendeva le sue potenzialità in modo completo fosse riconosciuto come visconte; il conte, che avesse pienamente sviluppato le facoltà inerenti al suo grado di realizzazione, diventava “conte del marchio” o marchese. Così anche il princeps, il maestro realmente perfetto, otteneva il titolo di duca (dux, colui che conduce i discepoli). Ovviamente il Gran Maestro, principe dei principi e duca dei duchi, capo di tutte le organizzazioni iniziatiche (sskrt. kula, saṃpradāya) guerriere, era il medesimo Imperatore-Imperator.
In questo modo l’Impero fu strutturato come una fratellanza guerriera. Ciò significa che, in origine, i baroni che amministravano le baronie, i conti che governavano le contee, i marchesi che stavano a capo delle marche ecc., erano davvero iniziati di gradi maggiori o minori, a cui erano affidate responsabilità esteriori allo scopo di far uscire il cattolicesimo dalla parentesi barbarica. Questo spiega perché all’epoca di Carlo Magno e dei suoi immediati successori, alla morte di un conte o di altro nobile titolato, l’Imperatore nominasse al suo posto un conte di pari dignità e sapienza, che non aveva, però, alcun legame agnato o cognato con il suo predecessore. Fu volontà imperiale, tuttavia, che le strutture statali esteriori si stabilizzassero in forma permanente, seguendo il modello delle istituzioni castali. Così, nel breve giro di poche generazioni, prevalse il principio di ereditarietà. In questo modo avvenne che barone fosse il figlio di un barone e duca il figlio di un duca e così via. Un tale cambiamento fu portato a termine in poche generazioni: è però evidente che questo regime non garantiva più una effettiva corrispondenza tra la funzione sociale e la realizzazione interiore. Garantiva peraltro una perfetta forma organica allo stato, impostato sulla fiducia e la lealtà, e questo era lo scopo dell’esteriorizzazione della via iniziatica militare d’origine romana.
Con la fondazione dell’Impero feudale, tale scopo fu ampiamente raggiunto e le vie iniziatiche della casta nobiliare ritornarono a rientrare nel dominio dell’esoterismo sotto la forma della Cavalleria, con cui concluderemo questo capitolo. Il feudalesimo consisteva, come s’è già detto, in un certo numero di vassalli, grandi feudatari, principi e duchi, che prestavano giuramento di fedeltà e omaggio all’Imperatore, ricevendone in cambio il beneficio (lat. beneficium), ossia il possesso di un feudo, nonché la responsabilità della sua amministrazione e difesa. A loro volta, i vassalli concedevano, alle medesime condizioni, parti minori dei loro feudi ad alcuni valvassori, conti e marchesi. Questi ultimi potevano ulteriormente ritagliare piccoli feudi a dei valvassini, baroni e visconti. Questi ultimi potevano concedere qualche beneficium a cavalieri, al basso clero e a uomini liberi. Nonostante la leyenda negra inventata in epoca rinascimentale, e poi illuministica, il feudalesimo funzionò a meraviglia, poiché il comportamento della nobiltà e, per emulazione, dell’intera popolazione, era fondato sulla lealtà, la fedeltà e l’onore. I cosiddetti “secoli bui” rappresentano, al contrario, uno dei momenti di massimo splendore della Tradizione in Occidente. Furono, al contrario l’ipocrisia e la brama di potere terreno della Chiesa, assieme all’avidità del popolo grasso, a mettere in crisi l’ordine feudale.
Sulla Cavalleria sono stati scritti ponderosi tomi per cercare di spiegarne lo spirito e le sue origini storiche. Purtroppo questi scritti hanno prodotto come unico risultato quello di rendere incomprensibili entrambi quegli argomenti poiché, in chiave liberale o marxiana, fanno dipendere la nascita di quell’istituzione da ragioni esclusivamente economiche. Da ciò risulta che chiunque avesse avuto sufficienti denari per acquistarsi un cavallo e un’armatura avrebbe potuto avere l’ambizione di diventare cavaliere. Ignorare l’esistenza dell’iniziazione ha condotto costoro a invocare anche alcune innovazioni tecnologiche, quali l’invenzione della staffa o l’assunzione della lancia lunga, per spiegare il sorgere della Cavalleria. Le cose sono molto più semplici: basta rifarsi ai dati tradizionali per impostare correttamente questo tema. Quando l’Impero cristiano fu saldamente organizzato ricopiando la struttura gerarchica e le virtù delle vie iniziatiche guerresche dei patricii ed equites dell’antica Roma, quelle stesse organizzazioni ritornarono ad assumere il consueto riserbo. La Cavalleria fu semplicemente questo. Il nobile che avesse voluto essere iniziato a quella via, si recava in giovane età presso il castello o la villa di un nobile che fosse anche un celebrato maestro o upaguru.
Là, dopo aver prestato servizio (sskrt. seva) per un certo numero di anni come paggio (o donzello, signorino), cominciava un duro periodo di addestramento alle armi e all’esercizio delle virtù gentili. In questa fase il giovane diventava scudiero (portatore di scudo) del suo maestro, detto anche valletto (vassalletto). Quando il maestro, fosse barone o duca, lo riteneva pronto, s’apprestava il rito d’iniziazione alla Cavalleria: “L’iniziato preparavasi a ricevere le armi con digiuni, preghiere e penitenze, vestendo di bianco, bagnandosi spesso e recidendosi i capelli sul davanti, per essere più sciolto nelle pugne e a schivare che, perduto l’elmo, l’avversario non l’acciuffasse. Dopodiché si presentava al principe o al signore che doveva armarlo, e questo si eseguiva con gran cerimonia. Anticamente il re solo poteva conferire la cavalleria, ma in seguito tutti i cavalieri ebbero il diritto di fare altrettanto; e gli eletti restavano legati essiloro di una specie di parentela, sicché mai per verun caso dovean portare le armi contro i signori che li aveano fatti cavalieri, altrimenti sarebbero stati reputati felloni ed infami.” L’investitura fu riconosciuta dalla Chiesa come un sacramentale, con veri effetti spirituali.
Nemmeno è vero che i cavalieri (equites o milites) fossero sempre i cadetti poveri di potenti famiglie, condannati a una vita di stenti e peregrinazioni per colpa della legge salica. Molti signori di castelli e di villæ erano cavalieri e potevano così trasmettere ad altri più giovani, che venivano ospiti come paggi, l’iniziazione che essi stessi avevano ricevuto. Potevano essere cavalieri anche i fratelli cadetti che convivevano nella medesima magione del loro fratello maggiore. Oppure potevano intraprendere l’ascetica vita del cavaliere errante. Questo caso è paragonabile a quello dei monaci che si ritiravano a fare gli eremiti. Il cavaliere errante andava in cerca dell’avventura, ossia l’occasione per mettere alla prova le sue virtù e le sue abilità marziali a difesa dei deboli, delle vedove e degli orfani. Egli aveva diritto a far precedere il suo nome dal titolo di Dom. (dominus), nella forma latina, o nelle lingue volgari da Sire, Sir, Monseigneur. Era difensore della religione, portava la spada a forma di croce, davanti a cui pregava; la spada aveva un nome divino che il cavaliere ripeteva come un mantra, soprattutto quando la usava per la giustizia. Aveva il potere sacerdotale di battezzare e di benedire. Il cavaliere, per i riti della sua sādhanā, chiedeva l’intermediazione di una figura celeste femminile al fine di raggiungere il Signore Iddio con maggiore efficacia. In questo modo si può riconoscere nel metodo iniziatico cavalleresco una indiscutibile tendenza śākta. Ritorneremo a fondo su questo argomento di primaria importanza più avanti, quando ci occuperemo degli Ordini della Cavalleria fondati nel basso medioevo.
La società Imperiale comprendeva, come s’è già detto, la classe dei plebei, chiamati borghesi perché nei borghi esercitavano la mercatura, le arti e i mestieri. Spesso questi uomini liberi riuscivano ad accumulare notevoli sostanze. Alcuni di loro svolsero delle attività di grande utilità per il consorzio umano della città o del feudo, come la tessitura, l’architettura, la giurisprudenza, distinguendosi tra la popolazione e ottenendo dal consiglio nobile o dal feudatario di potersi fregiare di un blasone privo di corona. I borghesi erano raggruppati per gilde a secondo dell’arte o mestiere (sskrt. śreṇi) esercitato, all’interno delle quali esistevano le vie iniziatiche corrispondenti a ogni singola forma artigianale. Al giorno d’oggi rimane una pallida traccia di queste corporazioni nella Libera Muratoria e nel Compagnonaggio.
Alla base della piramide sociale si trovavano i contadini e i servi, generalmente accorpati alla famiglia dei loro padroni, ecclesiastici, nobili o uomini liberi che dir si voglia.
Gian Giuseppe Filippi