19. Roma: dal regno all’Impero
Roma: dal regno all’Impero
Alle origini Roma fu governata da sette Re che costituiscono il trait d’union fra la realtà mitica e il divenire storico; per tal motivo queste figure emblematiche sono paragonabili, sotto diversi aspetti, ai sette Manu purāṇici dell’India, poiché ognuno di loro ha dotato lo Stato d’una sua legislazione. Questi governanti ricordano anche i sette ṛṣi e i sette pianeti corrispondenti alle diverse scienze che si sono sviluppate durante i loro regni. L’ultimo re, Tarquinio il Superbo, è passato alla storia per la crudeltà della sua tirannia e per questo motivo il Senato e il popolo romano si sollevarono e lo bandirono dalla città. Lo Stato da quel momento fu radicalmente trasformato in una Repubblica.
Il titolo di Rex (Re) rimase, ma come carica suprema che esprimeva la sola autorità sacerdotale, quindi privato di qualsiasi potere temporale. Al posto del Re come sovrano temporale, furono eletti due Consoli; uno era espressione della casta patrizia, l’altro di origine plebea: questa soluzione si proponeva di fare in modo che i consoli potessero controllarsi l’un l’altro e scongiurare così il pericolo di ricadere in un’altra tirannia. Inoltre, il mandato consolare aveva una durata di un solo anno. Questo cambio di regime ricevette l’approvazione autorevole dell’Oracolo di Delfi. Come si può notare, la religione dei Romani, che era di origine pitagorica, aveva molte somiglianze con quella dei greci. Le due religioni avevano in comune diversi santuari e si riconoscevano l’un l’altra; inoltre, sia i greci sia i romani si rispettavano e si riconoscevano reciprocamente non barbari. Lentamente, nel corso dei secoli, il patriziato dovette cedere maggiori poteri amministrativi ai plebei, specialmente alla classe dei guerrieri (cavalieri, lat. Equites, sskrt. Kṣatriya). Pur mantenendo il pieno controllo del Senato e delle funzioni sacerdotali, i patrizi con il ridimensionamento del potere temporale del Re e il depotenziamento degli uffici sacri, subirono una graduale perdita della loro supremazia, che cercarono di compensare con il rafforzamento della loro egemonia nell’esercito, che costituiva la spina dorsale della Repubblica romana. Infatti, la coorte di cavalieri d’élite era formata da giovani patrizi, mentre il resto della cavalleria era l’espressione degli Equites. La fanteria dell’esercito romano, ben organizzato, ben addestrato e disciplinato era, invece, composta da uomini liberi. L’arte e la scienza della strategia e della tattica raggiunsero valori così alti che nessun esercito in Europa, Africa e Asia occidentale avrebbe potuto eguagliarle.
A Roma, la religione era chiaramente distinta in essoterismo ed esoterismo. L’essoterismo corrispondeva ai rituali familiari e pubblici; spesso si avvaleva di sacrifici collegati a eventi cosmici o a celebrazioni della Repubblica. L’esoterismo non doveva nascondersi per paura di persecuzioni o restrizioni da parte dei culti pubblici, come accadde nelle religioni di origine semitica. Semplicemente, le diverse sādhanā che, come in Grecia, avevano la forma di Misteri, mantenevano una certa riservatezza, in modo che i rituali non fossero sconsacrati dalla presenza di profani o curiosi. I patrizi che desideravano ricevere la dīkṣā, avevano a loro disposizione i Misteri pitagorici, di cui abbiamo già parlato in precedenza. Le Matrone, le signore patrizie, ricevevano l’iniziazione ai Misteri della Bona Dea, di antica origine latina.
Per i plebei c’erano iniziazioni (anch’esse d’origine pitagorica) caratterizzate dalle loro arti e mestieri. L’iniziazione cavalleresca aveva una gerarchia di tipo militare. Il generale (dux, inglese duke, duca) che eseguiva anche la funzione iniziatica di maestro (guru), aveva il titolo di Imperator (Imperatore). Al di sotto di questa funzione i suoi facenti funzione (upaguru) erano chiamati principi (principes), mentre gli iniziati (upāsaka)più avanzati ai misteri cavallereschi avevano il titolo di compagni (o conti) dell’Imperatore (Comites Imperatoris). I neofiti erano detti “tirocinanti” (tirones).
La fanteria era organizzata in compagnie di tipo religioso (sodalicia). Ogni compagnia aveva la sua organizzazione iniziatica diretta da sacerdoti di rango inferiore. Allo stesso modo i mercanti, i professionisti e i contadini erano raggruppati in confraternite simili (sodalicia), all’interno delle quali si poteva ricevere un’iniziazione professionale. Gli artigiani invece erano ordinati in collegi (collegia fabrorum), la cui organizzazione era molto simile a quella indiana delle śreṇi. Alla testa di un collegium c’era un maestro delle arti (magister atrium, sanscrito śilpācārya, sthapatī) o primo capo (princeps). I discepoli progrediti erano chiamati compagni (sodales, sskrt. karmasārathi, takṣaka) e gli apprendisti, tirones (sanscrito upaśikṣa, vardhakī).
La religione dei Romani rimaneva comunque molto aperta ai culti degli altri popoli, specialmente nei confronti dei Misteri dei greci. Molti giovani romani delle classi superiori erano soliti recarsi in Grecia per ricevere l’iniziazione ai Misteri Eleusini, Orfici, Kabiri o Dionisiaci; questa tendenza aumentò quando Roma conquistò la Grecia nel 230 a.C. Mentre Roma stava acquisendo sempre nuovi territori, le religioni dei popoli vinti erano progressivamente integrate nel Pantheon romano. Così avvenne che a Roma, capitale dell’Impero, si trasferirono rami dei Misteri Isiaici provenienti dall’Egitto, i Misteri Mitraici dalla Persia, i Misteri Caldei della Mesopotamia meridionale, i Misteri di Cibele (in latino Magna Mater) dalla Frigia, quelli di Baal dalla Siria, ecc. Nel I secolo a.C. a Roma e nelle principali città dell’Impero si annoveravano persino comunità Brāhmaṇa hindū e Śramaṇa buddhisti. A Roma furono costruiti templi per tutte le religioni che erano venute in contatto con l’Impero; inoltre vi erano diffuse, come pure in tutte le altre città dell’Impero, numerose comunità ebraiche. Ma il tipico esclusivismo delle religioni semitiche, basato sulla convinzione che il proprio Dio è l’unico ad essere vero, fu sempre di ostacolo all’integrazione dei loro culti nel Pantheon romano. Per questa ragione i Romani non potevano sopportare gli ebrei che si consideravano il “popolo eletto di Dio” e ritenevano che la loro religione fosse l’unica veritiera. Roma dunque adottò una politica particolarmente severa per gestire la “questione giudaica”: nel 70 d. C. i Romani devastarono il vassallo regno giudaico, distrussero il Tempio di Yehovah a Gerusalemme e dispersero gli ebrei deportandoli in tutte le province del loro vasto Impero.
Anche le divinità celtiche, l’iniziazione druidica e la religione di Cartagine non furono del tutto ben accette a Roma, perché quelle popolazioni che i romani chiamavano i galli e i cartaginesi erano gli unici nemici che avessero rappresentato una seria minaccia alla sopravvivenza della Città.
Cartagine, che si trovava sulla costa settentrionale dell’Africa, dopo tre sanguinose guerre, fu definitivamente sconfitta dai Romani e completamente distrutta. Invece la Gallia e la Britannia (attualmente Francia e Inghilterra), conquistate da Giulio Cesare e Claudio, si latinizzarono rapidamente. I Romani riconoscendo che la religione dei celti e gli insegnamenti segreti dei loro Druidi erano molto simili al Pitagorismo, rispettarono la tradizione dei celti, ma non se ne curarono mai molto perché consideravano i galli una popolazione barbara e potenzialmente ostile.
Ovunque il dominio di Roma arrivasse, lì veniva stabilita la Pace Romana (Pax Romana). La cittadinanza veniva concessa in molti dei regni conquistati e così i membri della classe equestre straniera andavano a rafforzare l’esercito. Per molti secoli all’interno dell’Impero non ci furono più guerre da combattere e quindi lo Stato prosperò. Nel primo secolo d.C. la città di Roma raggiunse i quattro milioni di abitanti. La capitale, come anche altre città, era adornata con splendidi templi e palazzi.
Strade lastricate collegavano tutte le province e ovunque gli acquedotti convogliavano l’acqua dalle montagne alle case private delle famiglie, ai pozzi e le fontane pubbliche. Fu in questo periodo di splendore che lo spirito austero dei Romani cominciò a rammollirsi e a corrompersi, soprattutto a causa dell’influenza dello stile di vita greco. La lotta tra le classi sociali germinò proprio per la suggestione esercitata della democrazia ateniese. Fu così che i gradi più alti fra gli iniziati ai Misteri Pitagorici unirono le loro forze a quelle dell’iniziazione cavalleresca e si formò un circolo culturale e intellettuale attorno al cavaliere Mecenate che raccoglieva i più grandi poeti pitagorici come Virgilio, Orazio, Properzio e Tibullo. Costoro indussero il patrizio Augusto, capo dell’esercito romano (Imperator) e nipote di Giulio Cesare, a sovrapporre la sua autorità di comandante dei cavalieri alla diarchia dei due capi di stato, i consoli: da quel momento il titolo di Imperatore acquisì il suo attuale significato di capo supremo dell’Impero. Questo non fu in realtà un colpo di stato come si potrebbe pensare, perché lo Stato, in quanto entità civile, accettò di sottomettersi volontariamente a un’autorità iniziatica che era riconosciuta e rispettata per la sua natura superiore. L’Imperatore, oltre ad essere il capo di tutte le organizzazioni iniziatiche romane e Comandante in Capo dell’Esercito, era anche Rex Sacrorum e Pontifex Maximus. Pertanto, questa riforma rappresentava in un certo senso una sacralizzazione dello Stato e il ripristino dell’antico Regno romano. Solo il Senato fu autorizzato a mantenere il suo potere di controllo al fine di impedire all’Imperatore una deriva autoritaria che avrebbe potuto condurlo alla tirannia. Con Augusto (63 a.C. – 14 d.C.) e la sua dinastia imperiale Giulia, Roma raggiunse la sua massima potenza e splendore.
D. K. Aśvamitra