Vai al contenuto

13. Platone

    Platone

    Platone (428/427 a. C.) nacque ad Atene da un’illustre famiglia nobile: suo padre era discendente di Codro1, l’ultimo re di Atene, e sua madre di Solone2; pertanto ricevette una raffinata educazione aristocratica. Aveva Socrate come insegnante e nelle sue opere ne espose il pensiero e ne descrisse la personalità. Tuttavia, Socrate non può essere considerato il vero dīkṣāguru di Platone, perché rifiutò sempre di essere iniziato ai Misteri. Socrate era posseduto spontaneamente da un “genio” (δαίμων, leggi dàimon), una specie di gandharva3 che lo guidava nelle sue scelte morali, quindi fu insegnante di Platone solo per quanto concerneva il comportamento e le virtù, senza che ciò comportasse anche la trasmissione di alcuna Dottrina e metodo metafisici.

    Socrate si incontrò ad Atene con un hindū che gli chiese ragguagli sul tipo di filosofia che praticava; al che Socrate rispose che stava indagando sull’uomo; a quel punto, l’hindū ridendo, gli disse che non poteva conoscere le cose umane se prima non avesse conosciuto quelle divine”4.

    Anche la nascita di Platone, come quella di Pitagora, era legata ad Apollo: infatti, secondo Diogene Laerzio5, egli nacque lo stesso giorno e lo stesso mese del Dio.
    Seguendo le orme di Orfeo e Pitagora, Platone viaggiò anche in Egitto, dove ebbe relazioni con organizzazioni iniziatiche. Rimase a lungo nella Magna Grecia, specialmente a Taranto, dove il maestro pitagorico Archita era il comandante dell’esercito (στρατηγός, leggi strategòs); questi divenne il suo guru e lo iniziò ai Misteri Pitagorici. Visitò anche Siracusa, dove era ancora attiva la comunità pitagorica e venne ricevuto tre volte alla corte dei Tiranni della città. Sperò di realizzare lì la “Città perfetta” (Καλλίπολις, leggi Kallìpolis), governata da uomini virtuosi e retti, come l’aveva descritta nella Repubblica e nelle Leggi. Tuttavia, non poté realizzare il suo sogno per colpa della meschinità degli uomini.
    Sosteneva che lo Stato giusto, quello governato da persone rette, avrebbe potuto fornire a ogni cittadino un’adeguata formazione culturale e sociale. Nella società tutti dovevano avere e svolgere una funzione (svadharma) in base alle proprie capacità e abilità.
    I ceti sociali dovevano essere tre: un piccolo numero di persone qualificate per natura ed educate all’amore per la saggezza (cioè la filosofia), dovevano governare per il bene comune. Altri, spontaneamente dotati di coraggio, dovevano lottare per la difesa della città. Il terzo e più nutrito gruppo di cittadini doveva occuparsi dell’artigianato e dei lavori produttivi utili a tutti.

    Uno dei punti più importanti del pensiero platonico è espresso con l’“Allegoria della caverna”6 con cui sono spiegate le diversità intellettuali degli uomini.
    Secondo il pensiero di Platone, tutti gli esseri umani vivono incatenati in una grotta buia, a guardare il suo muro di fondo; dietro di loro il sole, Dio, che splende all’esterno, proietta sulla parete di fondo le ombre delle cose reali, le idee. Per i prigionieri quelle ombre sono l’unica realtà che possono vedere. E sono convinti che quella falsa apparenza davvero sia l’unica realtà.

    Invece, le uniche cose reali, chiamate idee (ἰδέα, leggi idéa, o εἶδος, leggi éidos7) sono universali8, eterne, entità necessarie, dotate di realtà autonoma.
    Le idee appartengono al mondo dell’Essere, l’Iperuranio (ὑπερουράνιον, leggi hüperurànion, cioè “sopra il cielo”), oltre il cosmo visibile a noi, oltre lo spazio e il tempo9. È un luogo conoscibile (τόπος νοητός, leggi tòpos noetòs) solo dall’intelletto contemplativo, dunque è necessario distinguere fra il Mondo dell’Essere che è e non diventa mai, e il Mondo del divenire sempre in trasformazione, quindi che non “è” mai. Solo pochissime persone, grazie alle loro qualifiche naturali (adhikāra)10 e con il supporto della conoscenza, sono in grado di liberarsi dalle catene e di uscire alla luce del sole che è rappresentata dal Dio Apollo, simbolo del Sommo Bene che illumina tutto. In questo momento i conoscitori realizzano che l’Unica Realtà è al di fuori della caverna; all’interno gli uomini sono avvolti solo in una realtà illusoria (māyā), prigionieri dell’ignoranza (avidyā)11.
    La conoscenza, intesa come intuizione, viene realizzata attraverso la memoria (ἀνάμνησις, leggi anàmnesis), con il ricordo delle idee eterne, quelle inerenti al mondo causale.
    Se dunque l’intelletto (νοῦς, leggi nùs) è in grado di ricordare e riconoscere le idee è perché esisteva prima di venire ad animare il corpo e aveva già contemplato le idee immutabili: questa è la dimostrazione platonica dell’immortalità dell’anima. L’uomo saggio, grazie alla memoria, orientando la sua vista interiore alle idee immutabili, agli archetipi della realtà empirica, arriva a conoscere se stesso12 e il Bene Supremo. Tutti gli esseri, a diverso grado, sono attratti dal Bene perché è un’idea innata e in questo modo partecipano alla loro vera essenza (svarūpa).

    Le tre categorie di cittadini dello Stato platonico ideale corrispondono dunque alle tre parti dell’anima: l’intelletto (nùs), considerato come una scintilla divina e immortale; il θυμός (leggi thümòs) che produce passioni e volizione; l’ἐπιθυμία (leggi epithỳmìa) al livello di istinti e desideri. Gli ultimi due elementi sono mortali e vengono rappresentati da Platone come due cavalli aggiogati a un carro che deve essere guidato con determinazione dal cocchiere che non è altri che l’intelletto13. L’anima è lo specchio della città perfetta (Kallìpolis) e viceversa.
    Platone insegnò pure che dopo la morte corporale, l’anima sarebbe stata giudicata sulla scorta delle azioni compiute: le colpe (pāpa) e i meriti (puṇya), avrebbero determinato il ritorno dell’anima in un corpo, con una serie di nascite e morti fino a quando non fosse ritornata pura. A questo riguardo però, nel Fedro il filosofo afferma che solo l’iniziato (dīkṣita) ai Misteri, in seguito alla purificazione compiuta, potrà conseguire la liberazione della sua anima dai legami che la tengono prigioniera14.

    Inoltre, scrisse nel Timeo che il Demiurgo (Δημιουργός, leggi demiurgòs, cioè Brahmā)15 manifestò il cosmo come un corpo animato da un’anima immortale, ad immagine di un modello perfetto, senza inizio né fine, riconoscibile solo attraverso l’intelletto. Questo cosmo è come un uovo (brahmāṇḍa) costituito da fuoco, terra, acqua e aria e contiene in sé gli Dei e tutti gli esseri viventi (Hiraṇyagarbha-jīva ghana): uomini, animali e piante partecipano tutti di una natura immortale (amartya svarūpa) e di un’esistenza mortale (martya bhāva), dotati di un corpo grossolano (sthūla śarīra) e uno sottile (liṅga śarīra).
    Platone ha trasmesso ai posteri la descrizione dell’origine del cosmo attraverso relazioni matematiche e geometriche secondo la più evidente dottrina pitagorica.
    Il Demiurgo platonico è infatti la Divinità che manifesta il cosmo fatto ad immagine di idee eterne, immutabili e perfette. È colui che produce il mondo, pur rimanendo invariato; Buono per natura così come il mondo che provenendo da Lui gli è simile. Lui è l’Essere, il Bene Supremo, quindi è il Principio qualificato (Brahman Saguṇa). Non abbiamo prove di una concezione platonica che vada oltre questo stato causale (kāraṇa avasthā), ma si deve anche ricordare che il suo insegnamento esoterico orale è rimasto segreto e inaccessibile; e forse non fu più trasmesso perché nel V secolo a.C. i greci non comprendevano più la pura metafisica (śuddha paramārtha).

    Ci sono pervenute molte opere di Platone che illustrano la sua dottrina: ha insegnato secondo il metodo dialettico, già utilizzato da Socrate, basato sulla discussione comprendente domande e risposte. Fondò la sua scuola, l’Accademia, ad Atene dove fino alla sua morte (348/347 a. C.), insegnò rimanendo fedele al metodo orfico e pitagorico della sua paramparā.
    Aristotele divenne suo discepolo e successore; ma questi cambiò la dottrina tradizionale in senso razionalistico, sostenendo che la semplice logica (śuṣka tarka) era il principale strumento di conoscenza. L’egocentrismo di Aristotele lo spinse a criticare e ridicolizzare i maestri che lo avevano preceduto, in particolare Pitagora e Platone.
    Nonostante questa deviazione, la tradizione pitagorico-platonica continuò, al riparo delle continue persecuzioni scatenate da politici e filosofi rivali (ovvero profani, non iniziati). Nel III secolo d.C., mentre l’antica religione greco-romana stava declinando, prima dell’ascesa del cristianesimo ebbe luogo una grande rinascita del pitagorismo-platonismo grazie a Plotino16 e alla sua scuola neoplatonica. Questa dottrina e la sua iniziazione rimasero vive nel mondo antico e permearono tutto il Medioevo cristiano.

    Durgādevī

    1. Codro (in greco: Κόδρος, Kódros) fu l’ultimo dei mitici Re di Atene (1089-1068 a.C. circa) [N. d. T.].[]
    2. Legislatore ateniese (638-558 a. C.). Come i nostri lettori ricorderanno, Solone andò in Egitto dove apprese la storia di Atlantide.[]
    3. gandharva (devanāgarī गंधर्व) sono semidei abitanti nell’atmosfera (cfr. Ṛgveda Saṃhitā IX.86.36), custodi del soma celeste (cfr. Ṛgveda Saṃhitā IX.83.4 e X.85.12) [N. d. T.].[]
    4. Eusebio, Præparatio evangelii, XI.3.28.[]
    5. Scrittore greco che visse probabilmente nel III secolo d.C.[]
    6. Repubblica, VII.514a-517a. “Ora, paragona la nostra natura, per quanto concerne l’educazione e la mancanza di educazione, a un caso di questo genere. Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l’ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell’antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli […] Considera dunque come potrebbero liberarsi e guarire dalle catene e dall’ignoranza, se capitasse loro naturalmente un caso come questo: qualora un prigioniero venisse liberato e costretto d’un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce, e nel fare tutto ciò soffrisse e per l’abbaglio fosse incapace di scorgere quelle cose di cui prima vedeva le ombre, come credi che reagirebbe se uno gli dicesse che prima vedeva vane apparenze, mentre ora vede qualcosa di più vicino alla realtà e di più vero, perché il suo sguardo è rivolto a oggetti più reali, e inoltre, mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse con alcune domande a rispondere che cos’è? Non credi che si troverebbe in difficoltà e riterrebbe le cose viste prima più vere di quelle che gli vengono mostrate adesso? […] E se qualcuno lo trascinasse a forza da lì su per la salita aspra e ripida e non lo lasciasse prima di averlo condotto alla luce del sole, proverebbe dolore e rabbia a essere trascinato, e una volta giunto alla luce, con gli occhi accecati dal bagliore, non potrebbe vedere neppure uno degli oggetti che ora chiamiamo veri? Se volesse vedere gli oggetti che stanno di sopra avrebbe bisogno di abituarvisi, credo. Innanzitutto discernerebbe con la massima facilità le ombre, poi le immagini degli uomini e degli altri oggetti riflesse nell’acqua, infine le cose reali; in seguito gli sarebbe più facile osservare di notte i corpi celesti e il cielo, alla luce delle stelle e della luna, che di giorno il sole e la luce solare […] E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con i compagni rimasti sempre prigionieri prima che i suoi occhi, ancora deboli, si ristabiliscano, e gli occorresse non poco tempo per riacquistare l’abitudine, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?” [N.d.T.].[]
    7. Entrambe le parole derivano da ἰδ (leggi id), una delle radici del verbo ὁράω (leggi orào, vedere, conoscere).[]
    8. Per esempio, empiricamente ci sono molti uomini (manuṣa), ma l’idea dell’uomo è unica (Puruṣa).[]
    9. Lo spazio e il tempo sono all’interno di avasthā.[]
    10. Qualifiche richieste per ottenere ad esempio l’iniziazione o idoneità per ricoprire una funzione [N. d. T.].[]
    11. Gli Orfici sostenevano che l’anima era prigioniera del corpo (σῶμα, leggi sòma) considerato una bara (σῆμα, leggi séma).[]
    12. “Conosci te stesso” (γνῶθι σεαυτόν, gnòthi seautòn): questa ingiunzione era la base dell’insegnamento di Socrate. La frase era stata incisa nel santuario di Delfi, dedicato ad Apollo. A volte in Platone il suo significato va oltre l’interpretazione psicologica e morale socratica e quindi significa “conosci il tuo Sé”.[]
    13. Fedro, 246a-246b. È evidente con ciò che nel più alto pensiero greco vi era sempre un fraintendimento tra buddhi e Ātman.[]
    14. Fedro, 249c.[]
    15. Etimologicamente: quello che funziona per gli altri.[]
    16. Si ritiene che Plotino discendesse da una famiglia sacerdotale egiziana.[]

    13. Plato

      Plato

      Plato (428/427 B.C.) was born in Athens from an illustrious noble family: His father was descendant of Codrus, the last King of Athens and his mother of Solon1. Therefore he had an aristocratic education.
      He had Socrates as teacher and, in his works he transmitted the thought and the personality of the philosopher. However, Socrates cannot be considered Plato’s dīkṣāguru, because he always refused to be initiated to the Mysteries. Socrates was spontaneously possessed by a “genie” (δαίμων, read dàimon), a kind of gandharva, who guided him in his moral choices. So Socrates was Plato’s teacher in what concerns behavior and virtues, without transmitting him any method or a metaphysical doctrine. “Socrates met in Athens with a Hindū who asked him what kind of philosophy he practiced. Socrates replied that he was investigating the man. The Hindū, laughing, replied that he could not know the human things if he ignored the divine ones.”2
      Also Plato’s birth, like Pythagoras’one, was related to God Apollo: in fact, according to Diogenes Laertius3, he was born the same day and the same month of the God.
      Following the footsteps of Orpheus and Pythagoras, Plato also traveled to Egypt where he came into contact with initiatic organizations. He stayed for a long time in “Magna Greece”, especially in Taranto where Archytas was the chief of the Army (στρατηγός, read strategòs). Archytas became his guru and initiated him to Pythagorean Mysteries. He also visited the city of Syracuse, where the Pythagorean community was active. Three times he had been received at the court of the Tyrants of Syracuse: he hoped to realize there the perfect city (Καλλίπολις, read Kallìpolis), governed by virtuous and righteous men, as he had longed for in his Republic and Laws. However, he couldn’t fulfill his dream for the pettiness of the men.
      He asserted that the right State, governed by righteous men, could provide every citizen with adequate cultural and social formation. In the society everyone had to play a role (svadharma) according to his own qualifications and abilities.
      The social levels had to be three: few people, qualified by nature and educated to love for wisdom (i.e. philosophy), had to rule for the common good. Others, holding spontaneous courage, had to fight for the defense of the city. The third and largest number of citizens had to deal with handicrafts and productive jobs useful to everyone.
      One of the most important points of the Platonic thought is expressed by the “Allegory of the Cave”4 which explains the intellectual diversity among men. All men live tightly chained into a dark cave and they are forced to look at the bottom wall. Behind them there is the entrance; the sun shines outside. Outside the cave, several things are passing by and men can only see the shadows projected on the bottom of the cave. Shadows are the apparent images that men see. Instead, the real things, called ideas (ἰδέα read idéa, or εἶδος, read éidos5) are universal6, eternal, necessary entities, endowed with autonomous reality. They belong to the world of Being, the hyperuranium (ὑπερουράνιον, read hüperurànion, i.e. “above the sky”), beyond the cosmos visible to us, beyond space and time7. It is a knowable place (τόπος νοητός, read tòpos noetòs) only by the contemplating intellect. Therefore it is necessary to distinguish between the World of Being which evermore is and never becomes, and the world of becoming which evermore mutates and never is. Only very few people, thanks to their natural qualifications (adhikāra) and with the help of knowledge, are able to free themselves from the chains and to get out reaching the sunlight. The sun, the God Apollo, is the symbol of the Supreme Good, all-illuminating. In that moment these knowers realize that the only Reality is outside the cave. Inside the cave, men are enveloped in an illusory reality (māyā), prisoners of ignorance (avidyā)8. Knowledge, as intuition, is realized by the memory (ἀνάμνησις, read anàmnesis) of the eternal ideas, which are inherent to the causal world.
      If the intellect (νοῦς, read nùs) is able to remember and recognize the ideas, it is because it existed before coming to animate the body. It had already contemplated the immutable ideas. This is the platonic demonstration of the soul immortality. The wise man, thanks to the memory, addressing his inner sight to the immutable ideas, archetypes of the empiric reality, comes to know himself9 and the Supreme Good. All the beings, at different levels, are attracted by the Good because it is an innate idea and, in this way, they participate to their real essence (svarūpa).
      The three categories of citizens of the Platonic ideal State correspond to the three parts of the soul: the intellect (nùs), considered as a divine and immortal spark; the θυμός (read thümòs) producing passions and volitions; the ἐπιθυμία (read epithümìa) to the level of instincts and cravings. The last two elements are mortal and are represented by Plato as two horses yoked to a chariot, which must be driven with determination by the charioteer, symbol of the intellect10. The soul is the mirror of the perfect city, Kallìpolis, and vice versa.
      Plato taught that after the death of the body the soul will be judged for the accomplished actions. According to the faults (pāpa) and the merits (puṇya), the soul will return to a body, with a series of rebirths and re-deaths until it returns pure. Anyway, in its Phaedrus Plato affirms that only the initiate (dīkṣita) to the Mysteries, becoming purified, will be able to liberate his soul from the bonds holding him captive11.
      He wrote in the Timaeus that the Demiurge (Δημιουργός, read demiurgòs, i.e. Brahmā)12 manifested the cosmos as a body animated by an immortal soul, in the image of a perfect model, without beginning or end, cognizable only through the intellect. This cosmos is like an egg (brahmāṇḍa) made up of fire, earth, water and air and contains in itself the Gods and all the living beings (Hiraṇyagarbha-jīva ghana): men, animals and plants participate both in an immortal nature (amartya svarūpa) and in a mortal existence (martya bhāva), with the gross (sthūla śarīra) and a subtle body (liṅga śarīra). Plato has transmitted to the posterity the description of the origin of the cosmos through mathematical and geometrical relations according to the Pythagorean doctrine.
      The Platonic Demiurge is the Divinity manifesting the cosmos made in image of eternal immutable and perfect ideas. He is the one that produces the world, while remaining itself unchanged. He is said good by nature and therefore also the world is good being essentially similar to him. He is the Being, the Supreme Good, therefore he is the qualified principle (Brahman Saguṇa). We have no evidence of a Platonic conception going beyond this Causal State (kāraṇa avasthā). But his oral esoteric teaching remained secret and perhaps it has not been transmitted because in the 5th century B.C. the Greeks did not longer understand the pure Metaphysics (śuddha paramārtha).
      Many of Plato’s works illustrating his doctrine have come to us. He taught according to the dialectical method, already used by Socrates, based on the discussion between questions and answers. He founded his school, the Academy, in Athens where, until his death (348/347 B.C.), he spread his teachings in line with his the Orphic and Pythagorean line of his paramparā. Aristotle became his disciple and successor. This philosopher changed the traditional doctrine in a rationalistic way, maintaining that mere logic (śuṣka tarka) was the main instrument of knowledge. Aristotle’s egocentrism pushed him to criticize and ridicule the masters who had preceded him, especially Pythagoras and Plato.
      Despite this deviation, the Pythagorean-Platonic tradition continued in the shelter of continued persecution unleashed by politicians and rival profane (i.e. uninitiated) philosophers.
      In the 3rd century A.D. in fact, while the ancient Greek-Roman religion was declining before the rise of Christianity, a great revival of Pythagoreanism-Platonism took place, thanks to Plotinus13 and his Neo-platonic school. This doctrine and its initiation remained alive in the ancient world and perpetuated throughout the Christian Middle Ages.

      Durgādevī

      1. Athenian Legislator (638-558 B.C.). As our readers can remember, Solon went to Egypt where he learned the history of Atlantis.[]
      2. Eusebius, Praeparatio evangelii., XI, 3, 28.[]
      3. Greek writer probably lived in the 3rd century A.D.[]
      4. Republic, VII. 514a–517a.[]
      5. Both words derive from ἰδ (read id), one of the roots of the verb ὁράω (read orào, i.e. to see).[]
      6. For instance, there are many empiric men (manuṣa), but the idea of man is unique (Puruṣa).[]
      7. Space and time are within the avasthā.[]
      8. The Orphics maintained that the soul was prisoner of the body (σῶμα, read sòma) considered as a coffin (σῆμα, read séma).[]
      9. Know yourself (γνῶθι σεαυτόν, read gnòthi seautòn): this injunction was the basis of Socrates teaching. The sentence was engraved in the sanctuary of Delphi, dedicated to Apollo. Sometimes in Plato its meaning goes beyond the Socratic psychological and moral interpretation and then it means “know your Self”.[]
      10. Phaedrus, 246a-246b. It is evident that in the highest Greek thought there was always a misunderstanding between buddhi and Ātman.[]
      11. Phaedrus, 249 c.[]
      12. Etymologically: the one that works for others.[]
      13. Plotinus is believed to descend from an Egyptian priestly family.[]