7. Atlantide: l’inizio della Civiltà occidentale (I)

Atlantide: l’inizio della Civiltà occidentale (I)

Il poeta greco Esiodo è stato il primo a trasmettere le informazioni più importanti sull’antica mitologia occidentale. Scrisse che durante l’Età dell’Oro gli uomini vivevano senza soffrire angoscia, miseria e vecchiaia e si nutrivano dei frutti che la terra offriva spontaneamente in abbondanza. Gli esseri umani nascevano direttamente dalla terra e senza alcuna generazione sessuata.
Il filosofo greco Platone (428-348 a.C.), in due celebri Dialoghi, ci racconta il mito di un continente scomparso: l’Atlantide. Riferisce che, qualche secolo prima, Solone aveva incontrato un sacerdote egizio nel tempio consacrato alla dea Neith (corrispondente all’Atena greca, la devî della saggezza) della città di Sais. Il sacerdote egizio cominciò a raccontargli la storia di una coppia nata durante l’età dell’oro; i loro nomi erano Evenore (il “Primo Virile”) e Leucippe (“Quella dai bianchi cavalli”, l’alba, simile a Uṣás). Entrambi nacquero dalla terra, quindi ciò vale a dire che erano due iperborei dell’Età dell’Oro.
Si unirono in matrimonio e per la prima volta una donna partorì; nacque una bambina che chiamarono Kléitos, la “Celebrata”. Da quel momento Leucippe, Evenore e Kléitos non vissero più nella patria artica degli antichi Iperborei, ma in un’isola dell’Oceano occidentale. La collocazione della loro nuova dimora e il fatto che gli esseri umani cominciassero a riprodursi sessualmente indicano che si era passati dall’Età dell’Oro a quella dell’Argento.
All’inizio del ciclo, Zeus (gr. Ζεύς πατήρ, leggi Zèus patèr; lat. Iuppiter, sskrt. *aEs! ipta, Dyaus pitā) aveva condiviso il governo del mondo con i suoi fratelli tenendo per sé l’atmosfera e il cielo e assegnando il regno sotterraneo al fratello maggiore Ade (gr. Ἅδης; lat. Pluto; sskrt. Mṛtyu) e il dominio delle acque inferiori (sskrt. samudra, l’oceano del profondo che raccoglie tutte le acque, corrispondente al gr. syn ỳdrata, l’insieme delle acque) a suo fratello mediano Poseidone (gr. Ποσειδῶν, leggi Poseidòn; lat. Neptūnus; corrisponde parzialmente al sskrt. Varuṇa).
Essendo quest’ultimo il Dio del Mare, tutte le isole erano nel suo dominio. Non appena vide Kléitos se ne innamorò ed ebbe da lei dieci figli.
Poseidone fortificò la collina dell’isola dove viveva la sua amata e la rese inespugnabile, costruendo tre anelli d’acqua e tre anelli di terra intorno alla fortezza. Quel regno divenne la prima potenza navale della storia umana. Nel centro dell’isola, in cima alla collina, la cittadella aveva le pareti fatte di oricalco, misterioso metallo brillante come l’oro. Nel centro della cittadella, il tempio di Poseidone dominava l’intera collina. Poi il Dio divise il regno in dieci feudi, ne assegnò uno a ogni figlio e incoronò Atlante, il suo primogenito, come Re di tutto l’impero. Per questo motivo l’isola fu chiamata Atlantide.
Poseidone emanò anche leggi scritte ispirate a grande saggezza. Platone aggiunge che Atlantide era una grande isola nell’Oceano Atlantico a ovest delle Colonne di Ercole (lo Stretto di Gibilterra), più ampia del Nord Africa e del Vicino Oriente messi insieme. Il filosofo greco sostiene anche che verso ovest, al di là dell’isola, c’era un altro grande continente sconosciuto: da questa notizia si può dedurre che l’America era già conosciuta e sottoposta all’influenza di Atlantide; infatti Atlantide divenne molto potente e fondò colonie in Europa, compresa l’Italia (chiamata allora Tirrenia), in Africa fino ai confini dell’Egitto e, certamente, anche in America.
L’impero era prospero e la terra offriva abbondanti frutti e verdure. Oltre alla navigazione e al commercio, gli Atlantidi erano molto esperti nella metallurgia. Lavoravano oro, argento, rame, stagno, bronzo e il misterioso oreichalkos, l’oricalco. La loro società era organizzata in quattro caste che vivevano in armonia. Ai primordi di questa civiltà prevalse una condotta consona alla sua origine divina, perciò i suoi abitanti erano persone giuste e sagge. Successivamente, emerse in loro la natura umana e diventarono avide e ingiuste. Infine, la componente demoniaca fece esplodere la sedizione e divennero violenti, assetati di sangue e dediti alla magia. La potente e ricca città di Gadira, nella Spagna meridionale e tuttora esistente con il nome di Cadice, assieme a un gran numero di colonie comprendenti la maggior parte dei paesi europei, africani e asiatici, erano sottomesse all’egemonia politica e alla conseguente influenza culturale di Atlantide. Tra queste nazioni, Atene e l’Egitto erano particolarmente fiorenti. Come ci conferma Platone, l’Atene di allora non era la città in cui egli viveva e insegnava, ma una città primordiale che molti secoli più tardi avrebbe fondato, come sua colonia, l’omonima città della Grecia. Dov’era, dunque, l’Atene primordiale? Secondo l’ipotesi più accettabile stava in Egitto. Platone racconta che il suo antenato Solone era stato informato della storia di Atlantide a Sais, una città egizia consacrata alla Dea Atena. Quindi è facile dedurre che l’Atene arcaica e Sais fossero una sola e unica città.
Nella distribuzione delle varie parti del mondo che Zeus fece agli Dei, Efesto e Atena ricevettero il territorio di Atene. Quegli Dei generarono uomini virtuosi ed emanarono per loro leggi che propugnavano il modello sociale di Atlantide: la casta sacerdotale era separata dalle altre e i guerrieri avevano il compito di difenderla; la terza casta era composta da artigiani, mercanti e navigatori e, per ultimi, c’erano i pastori e i contadini. La casta regale coi suoi guerrieri esercitava la sorveglianza e la custodia (φύλακοι, leggi fỳlacoi, custodi, guardie, sentinelle), necessarie per mantenere il funzionamento armonico della società.
Durante l’Età del Bronzo gli Atlantidi, sempre più avidi di potere, progettarono di conquistare il mondo intero; diffusi in tutti i continenti, gli eroici guerrieri dell’Atene primigenia con i loro alleati fermarono l’invasione. Questa gloriosa vittoria ebbe luogo novemila anni prima di Platone.
Dopo la sconfitta, gli Atlantidi divennero sempre più crudeli e aggressivi. Si diedero alla pratica di sacrifici in cui bevevano il sangue delle vittime, trasformandosi così in adepti della magia nera. La loro natura divenne rapidamente sempre più diabolica e decisero di vendicarsi a tutti i costi della sconfitta patita, cercando la rivincita con la riconquista del mondo intero. Gli Dei disgustati dalla loro tracotanza mandarono un diluvio e in un giorno e una notte Atlantide sprofondò nell’Oceano. Insieme ad Atlantide molte nazioni furono coinvolte nella catastrofe, inclusa l’Atene egizia. Questa alluvione, come quella che sommerse Dvārakā, concluse l’Età del Bronzo e diede inizio all’attuale Età del Ferro. A oriente e a occidente del continente sprofondato, solo poche colonie di Atlantide sopravvissero, e in quelle civiltà il seme malvagio generato da Atlantide si conservò, pronto a riemergere a ogni occasione favorevole, come si leggerà nel prosieguo di questo lavoro.

Durgādevī

7. Atlantis. The beginning of Western Civilization (I)

Atlantis. The beginning of Western Civilization (I)

The Greek poet Hesiod has been the first to hand down the most important information about the ancient western mythology. He wrote that during the Golden Age men lived without suffering anguish, misery and old age. They fed on the fruits that the earth spontaneously offered in abundance. Human beings were born directly from the earth and there was no sexual generation.
The Greek philosopher Plato (428-348 B.C.) in two famous treatises tells us the myth of a lost continent: Atlantis. He reports that his ancestor Solon had met an Egyptian priest in the temple of Sais City consecrated to goddess Neith (corresponding to the Greek Athena, the devī of wisdom). The Egyptian priest began with the story of two persons born during the Golden Age. Their names were Euenores (the “Viril one”) and Leukippes (“She of white horses”, the dawn, similar to Uṣas). Both were born from the earth therefore they were two Gold Age hyperboreans. They joined in marriage and for the first time a woman gave birth to a little girl. They called their daughter Kléitos, the “Celebrated”. Leukippes, Euenores and Kléitos didn’t live anymore in the Arctic Home as the ancient Hyperboreans, but in an island of the western Ocean. Their new home and the fact that human beings were reproducing sexually indicate that they were no more in the Gold Age, but in the Silver Age.
At the beginning of the cycle, Zeus (Greek: Ζεύς πατήρ, read Zèus patèr; Lat. Iuppiter, read Yùppiter; Sskr. *aEs! ipta, Dyaus pitā) had shared the rule of the world with his brothers. He had kept the atmosphere and the sky for himself giving the underground kingdom to his brother Hades (Greek: ᾍδηϛ; Lat.: Pluto; Sskr.: ~ Mṛtyu) and the lowest waters domain (samudra) to his second brother Poseidon (Greek: Ποσειδῶν, read Poseidòn; Lat.: Neptūnus; Sskr. ~ Varuṇa).
As God of the Sea, all the islands were in Poseidon’s dominion; he saw Kléitos and he fell in love with her. He had ten children from her. Poseidon fortified the hill where his beloved was living and made it inexpugnable by building three water rings and three earth rings around the island.
That kingdom became the first naval power of human history. In the centre of the island, on the top of the hill, the citadel had the walls made of horeichalkos, a mysterious metal brightful as gold. In the centre of the citadel Poseidon’s temple dominated the hill. The God divided the realm into ten fiefs and assigned them to each of his ten sons. He crowned his older son Atlas as King of the whole Empire. For this reason the island has been called Atlantis. Poseidon also gave written laws of great wisdom.
Plato adds that Atlantis was a great island in the Atlantic Ocean to the west of Hercules Columns (i.e. Gibraltar Strait); it was wider than North Africa and the Near East together. The Greek philosopher also maintains that westwards beyond the island there was another large unknown continent. Therefore America was already known in the ray of Atlantean influence. In fact, Atlantis become powerful and founded colonies in America, in Europe, including Italy (called Tyrrenia), and in Africa up to the borders of Egypt.
The Empire was prosperous and the earth offered abundant fruits and vegetables. Besides sailing and trading, Atlanteans were very skilled in metallurgy. They worked gold, silver, copper, pond, bronze and the mysterious horeichalkos. Their society was organized in four casts living in harmony. In a first period the behavior proceeding from their divine origin prevailed, and they were righteous and wise. Subsequently, their human nature emerged and they became greedy and unjust. Finally, the demonic component rose up and they became violent, thirsty of blood and devoted to magic. The powerful and rich city of Gadira, they founded in southern Spain, still exists with the name of Cadiz. Beyond a group of colonies, most European, African and Asian countries were under their political hegemony and cultural influence. Among these last nations Athens and Egypt were particularly flourishing. As Plato confirms us, such Athens was not the city where he was living and teaching. That Athens was a primordial town which many centuries later founded the homonymous city as its colony in Greece. Where was the primordial Athens? According to the most acceptable hypothesis it was in Egypt. Plato relates that his ancestor Solon had been informed about Atlantis history in Sais, an Egyptian city consecrated to the Goddess Athena. Therefore it is easy to infer that the primordial Athens and Sais were one and only city.
In the distribution of the world performed by Zeus, the Gods Hephaestus and Athena received the territory of Athens. Those Gods had begot virtuous men and established their law following the social model of Atlantis: the priest class was separated from the others; the warriors had the task of defending them; the third class was composed by artisans and finally there were shepherds and peasants. Warriors were the guardians, φύλακοι (read: fülacoi), of the perfect functioning of society.
During the Bronze Age the Atlanteans, increasingly greedy of power, wanted to conquer the whole world. They spread across all continents. The Athenian heroic warriors with their allies stopped the invasion. This glorious victory took place nine thousand years before Plato.
After the defeat the Atlanteans became increasingly cruel and aggressive. They dedicated themselves to bloody sacrifices in which they drunk the victim’s blood, so turning in black magic worshippers. Their nature quickly became more and more diabolical and they decided at all costs to take revenge and regain the whole world. Gods disgusted by their bullying sent a deluge, and in one day and one night Atlantis sank into the bottom of the ocean. Along with Atlantis, many nations were also involved in the catastrophe, including Athens. This flood, like the one which submerged Dvārakā, concluded the Bronze Age and began the present Iron Age. Only a few Atlantean colonies survived both eastward and westward of the missing continent. In those civilizations the evil seed generated by Atlantis remained ready to develop at every favorable opportunity.

Durgādevī

7. H) Jīvatva appare perché Ātman non è conosciuto

H) Jīvatva appare perché Ātman non è conosciuto

Ora rivolgiamo la nostra attenzione all’esempio portato come prova (dārṣṭāntika). Poiché non conosciamo la vera natura del nostro Ātman, siamo sottoposti a jīvatva, ossia alla condizione individuale. Proprio come nella penombra la corda non è conosciuta per quello che è, e la gente la prende erroneamente per un serpente, similmente, per ignoranza della nostra vera natura in quanto Śiva, questo jīvatva appare a essa sovrapposto.
In questo contesto esiste un forte rapporto di somiglianza tra il simbolo e il simboleggiato, perché colui che confonde l’Ātman con il jīvātman è portato a credere di essere identificato al corpo, al prāṇa, alla mente, all’intelletto e all’ego. Proprio come la persona dissennata, senza riconoscere la corda per quello che è, immagina di vedere in essa un cappuccio, una coda e una forma sinuosa e allora si spaventa pensando che sia un serpente, allo stesso modo l’ignorante s’immagina d’avere una stretta relazione con il corpo, la forza vitale, la mente ecc. Perciò compie vari errori di valutazione, pensando: «Io sono nato, sono cresciuto, soffro, morirò e rinascerò». E di ciò prova sofferenza. Se si osserva attentamente, come non esiste la minima traccia del serpente nella corda, così nell’Ātman, che è il Testimone cosciente, non c’è alcuna traccia di jīvātva. Come una persona, dopo aver esaminato l’oggetto con attenzione, acquisisce la corretta conoscenza della corda in quanto oggetto reale, e perciò si libera della paura del serpente, allo stesso modo il jijñāsu, in forza della sua conoscenza intuitiva di essere Śiva (Śivatva), si sbarazza della sua apparente condizione di trasmigrante (saṃsāritva).

Obiezione: Se il pensiero di essere il jīva è bhrānti, allora quale prova (pramāṇa) si può addurre per affermare che l’idea di essere Śiva non sia anch’essa bhrānti? Come il pensiero di jīvatva è smascherato dai validi mezzi di conoscenza, così la possibilità della conoscenza di Śivatva può essere contraddetta.

Risposta: Non c’è ragione per tale timore. Perché il pensiero di essere un jīva è il risultato di credere all’innata relazione con corpo, sensi ecc., che appare in un particolare stato di coscienza, cioè quelli di veglia o di sogno, come se fosse un dato metafisico (paramārtha). Ma la conoscenza intuitiva di essere Śiva o caitanya svarūpa scaturisce dall’intuizione sperimentata del kūtaṣṭhanitya caitanya, che è privo di ogni relazione con qualsiasi stato di coscienza e con qualsiasi limitazione di tempo. Nel caso di un oggetto sottomesso al tempo esiste la paura che possa cambiare completamente il suo modo di essere. Ma come si può asserire che per la propria natura assoluta (paramārtha svarūpa), che è al di là del tempo, sia possibile un tale cambiamento?

I) Lo Śiva svarūpa può essere conosciuto tramite l’insegnamento spirituale di un vero guru

Rimane un altro punto da discutere. Dato che anche i vedāntin che affermano di non essere jīva compiono le loro azioni quotidiane come tutti gli altri, con quale pramāṇa si può dimostrare che jīvātman scompare e che in suo luogo emerge Śivatva?
La soluzione di questo dubbio è la seguente: nell’esempio della corda e del serpente abbiamo chiaramente evidenziato che il serpente non esisteva nemmeno all’inizio, quando la persona era ancora in preda l’illusione. Però, dopo aver raggiunto la corretta conoscenza della realtà della corda, non si può affermare che il serpente se ne sia andato via [in quanto, in verità, non era mai venuto]. Allo stesso modo abbiamo sostenuto che Śiva svarūpa è l’ultima assoluta realtà, mentre il jīvātva è causato dall’errore e, a dire il vero, non esiste affatto. Stando così le cose, che senso ha dire che jīvatva scompare ed appare Śivatva? Noi siamo sempre Śiva svarūpa!
Non è necessario un pramāṇa per affermare che noi siamo Śiva svarūpa, perché la nostra reale natura non è mai sconosciuta. Se per caso, mentre una persona sta scambiando nella penombra una corda per un serpente, ci fosse lì un jñāni a guidarlo e a istruirlo, dicendo: «Questa è una corda, non un serpente», immediatamente l’errore svanirebbe. Se la persona che soggiace all’illusione dell’errore o del dubbio fosse istruita da qualcuno sull’oggetto reale, si convincerebbe che è una corda solamente toccandola ed esaminando l’oggetto con l’aiuto di una lampada. Questo caso è tuttavia diverso da quello del nostro Ātman svarūpa: per intuirlo direttamente non c’è bisogno di alcun pramāṇa né di alcun altro mezzo. L’Ātman è di per se stesso l’essenza di caitanya prakāśa, ossia della pura coscienza autoluminosa. Perciò è sufficiente che il guru istruisca in questo modo: «Tu non sei il corpo, i sensi ecc.; in verità il tuo ultimo svarūpa è Paramaśiva». Com’è spiegato nei versi precedenti, solamente con questo insegnamento al jijñāsu sorge istantaneamente questa esperienza intuitiva: «“Io” sono proprio Sākṣin caitanya che conosce direttamente il corpo, i sensi ecc.».
Molti che si dichiarano vedāntin affermano di non essere il corpo, i sensi, e di essere della natura di Śiva. Ma la loro è soltanto una teoria letta negli śāstra o tratta dalla spiegazione tradizionale impartita pubblicamente da qualche paṇḍita. Tuttavia, non è questo il caso di coloro che hanno raggiunto realmente l’esperienza intuitiva d’essere l’Ātman svarūpa grazie all’insegnamento dato da un guru. A differenza degli aspiranti al Vedānta (śraddhā vedāntin) precedentemente descritti, questi ultimi non possiedono un forte senso d’identificazione con il saṃsāra; perciò, a differenza degli altri, non sono afflitti o toccati da śoka, sofferenza, o moha, illusione. Non solo questo: anche coloro ai quali tali jñāni espongono il tattva (l’ultima realtà di Ātman), intuiscono la realtà e come risultato si liberano del loro śoka moha. Così, coloro che semplicemente ripetono quanto hanno letto nello śāstra non dovrebbero essere portati ad esempio; dovrebbero essere seguiti e imitati solo quei sādhaka che hanno intuito l’ultima realtà di Brahmanātman e che sono inoltre capaci di indurre anche altri a intuire l’Ātman svarūpa, impegnati a rendere capaci gli altri a raggiungere l’esperienza intuitiva del Sākṣin (tattva sākṣātkāra). Tali grandi personalità sono degne d’ogni fiducia (āpta). Riportandoci all’esempio di prima, l’affermazione di chi è degno di fiducia (āpta vacana) sulla realtà della corda, deve essere intesa come un vero e proprio pramāṇa che rimuove o, piuttosto, smaschera l’inganno della corda-serpente assieme al conseguente spavento. Così l’autorevolezza (āpta vacana) di un vero guru, che ha raggiunto per sempre l’esperienza intuitiva del paramārtha svarūpa, diventa il valido mezzo per insegnarci il nostro Śiva svarūpa e per rimuovere da noi la paura del saṃsāra, poiché egli è eternamente stabilito nell’Essere (nitya siddha).

Obiezione: Molti hanno ascoltato da grandi maestri insegnamenti spirituali come: «In verità tu sei Īśvara, non un jīva». Eppure, anche in quel caso, dopo avere ascoltato, non si sono liberati dall’illusione del saṃsāra; come mai?

Risposta: Abbiamo già risposto a questa domanda. Perché, come di regola quelli che insegnano la Realtà (tattva) devono necessariamente averla intuita, così si richiede che quelli che ascoltano questo insegnamento, debbano necessariamente avere le qualifiche adatte. Inoltre, il Vedānta śrāvaṇa non è semplicemente ascoltare affermazioni o argomentazioni vedāntiche in un paio d’occasioni. Anche nella vita di tutti i giorni coloro che vogliono conoscere un particolare argomento lo indagano assiduamente fino a raggiungere il loro obiettivo e la rimozione di qualsiasi dubbio a riguardo. Allo stesso modo anche in ambito iniziatico è essenziale che il vero cercatore sia dotato di una dedizione costante e determinata (śraddhā), di una tensione interiore (tatparatā) nel dirigere tutti gli sforzi ed energie verso la meta e di ascoltare gli insegnamenti spirituali (śrāvaṇa) del vero maestro con rispetto e devozione. Deve poi riflettere intuitivamente (manana) su quegli insegnamenti e contemplarne (nididhyāsana) la vera portata e il loro significato.
Chi è consapevole afferma: «Questa in verità è una corda». Invece la persona radicata nell’errore, afferma: «Questo è veramente un serpente» Essendone convinto, non esamina l’oggetto direttamente, perciò come potrebbe riconoscerlo come una corda? Analogamente, coloro che continuano ad ascoltare l’insegnamento vedāntico da un lato, ma che persistono ad alimentare la mente con pensieri che rafforzano la credenza che il mondo sia davvero reale, non potranno mai cogliere il vero frutto del Vedānta śrāvaṇa. L’ascolto vedāntico ricevuto superficialmente può saltuariamente dare un certo beneficio. Ma uno śrāvaṇa così superficiale non potrà mai produrre un istantaneo e immediato risultato qui e ora, in questa vita. Cioè non porterà a raggiungere la natura essenziale del Sé-Testimone (Ātman sākṣātkāra), che è l’esperienza intuitiva della pura Coscienza. Il fatto che noi tutti siamo della natura di Śiva è una verità assoluta, ed è certo che ciò può essere raggiunto esclusivamente per mezzo della conoscenza intuitiva (jñāna). Ma coloro che non hanno mai praticato o seguito preliminarmente le discipline spirituali basate sulla certezza dell’intenzione (śraddhā), del desiderio incrollabile (tatparatā), del controllo dei sensi (indriya nigraha), della venerazione per il maestro (guruseva), della cerca del Vero (tattva vicāra) ecc., non possono raggiungere jñāna. Perciò è certo che se un mumukṣu, che abbia dapprima acquisito tutte le qualifiche di un cuore e una mente purificati, segue poi l’insegnamento orale sul significato dei mahāvākya upaniṣadici e ne assimila il loro vero contenuto, alla fine sicuramente raggiungerà la conoscenza del Sé (Ātmajñāna).