Maitreyī
2. Qual è la causa dell’ignoranza?
Abbiamo detto che nell’adhyāsa Ātman e anātman sono reciprocamente sovrapposti, come lo sono anche le loro proprietà. Bisogna ora chiarire che usare il termine di ‘qualità’ per Ātman è un abuso: per esempio Caitanya, Kūṭasta o Satyam in realtà non sono qualità. Per parlarne, si usano termini conosciuti, come, appunto, ‘qualità’, ‘attributi’ o ‘proprietà’, spiegandone il significato che se ne vuole dare, che, ovviamente, non potrà essere completamente diverso dal senso ordinario. Questi, però, non sono dharma di Ātman; se avesse proprietà, Ātman sarebbe una sostanza (dravya) con attributi (guṇa). E sostanza e attributi sono tra loro diversi. Di fatto quelle di Ātman non sono proprietà, ma sono la sua stessa natura. Infatti Caitanya, non è una qualità, è Ātman stesso. Le qualità possono scomparire, riapparire, possono cambiare. Viṣayītvam, Kūṭastatvam, Satyatvam non sono proprietà, sono sinonimi, perché sono inseparabili dall’Ātman, sono l’Ātman stesso. Si usa pensarli come fossero dharma, in quanto ‘qualità’ è il concetto più simile a questa realtà che può essere utile per suggerirne l’idea. Non si deve, quindi, prendere dharma in senso letterale. Inoltre, le si definisce qualità differenti perché le si vede da angolature differenti, e perciò si danno loro nomi diversi. Al contrario, il fiore rosso ha il colore rosso che è un’acquisizione del fiore; il fiore, infatti, può essere anche bianco o altro. Il fiore sviluppa quel colore dovuto a particolari circostanze e la stessa qualità può esistere anche in un altro oggetto. Infatti con ‘fiore rosso’ non si vuole intendere che il fiore deve essere solo rosso e null’altro. Il rosso è la qualità del fiore o la sua natura? Quando diciamo ‘proprietà del fiore’ intendiamo due cose: quel fiore è rosso, ma lo stesso fiore, appassendo, può mutare colore. Inoltre, non si può dire che rosso significhi fiore e viceversa, perché anche altri oggetti possono essere rossi: abiti, libri, frutti. Invece, per natura si intende qualcosa che non può non essere. Per esempio: il calore è una qualità del fuoco o è la natura del fuoco? Se fosse una qualità, ogni tanto non sarebbe caldo. Ma si è mai visto un fuoco freddo? Il calore non appartiene a nessun altro se non al fuoco. Ogni volta che c’è uṣṇātā (calore) c’è agni (fuoco). Quindi sono sinonimi. Tra Ātman e le proprietà, perciò, non c’è guṇa guṇi sambandha (relazione qualità-qualificato).
Nell’adhyāsa si trova questo scambio a causa della mancanza di discriminazione tra cose totalmente separate e opposte per natura. Quindi l’adhyāsa non è facilitato dalla loro natura. Essendoci opposizione totale, la natura dell’uno non può essere trasferita all’altro, come avviene fra luce e oscurità. L’errore è dovuto solo alla nostra mente: le diverse nature di Ātman e di anātman non possono provocare questa sovrapposizione. Quando vediamo cose simili siamo indotti a confonderle. Per esempio, ciò può verificarsi nella penombra se tra due cose c’è una certa somiglianza. Ma sia l’oppositore (pūrvapakṣin) sia Śaṃkara sostengono che le nature di Ātman e anātman sono completamente diverse. Quindi è del tutto impossibile prendere l’uno per l’altro. Essendo le nature di Ātman e anātman opposte, il vedāntin si chiede come, dove e per quale ragione avvenga questo scambio. Avviene in Ātman e anātman o nella nostra mente? L’errore tra il serpente e la corda avviene nella corda, nel serpente o avviene nella nostra mente mentre i due oggetti rimangono separati? La corda rimane corda e il serpente rimane serpente. Negli oggetti non c’è scambio: lo scambio avviene nella nostra mente. Quindi è una percezione errata in colui che percepisce. È un errore di percezione, non uno scambio reale tra fatti. Lo scambio delle loro proprietà è impossibile senza un fraintendimento. Questo avviene solo nell’adhyāsa, in quanto si pensa in modo sbagliato. Quindi è del tutto accettabile quello che dice l’oppositore,cioè che, essendo le loro nature opposte, è impossibile uno scambio reale. Non si nega questo fatto, perché un fatto non lo si può negare. Quindi i fatti universali, comuni a tutti nel proprio anubhava, non possono essere negati, perché sono esperienza comune: come suṣupti,che è esperienza di tutti. Se qualcuno vede differentemente, la differenza sta nel suo punto di vista, non nel fatto. Non si può sostenere che quello che è realtà per uno non è realtà per un altro, perché l’esistenza è universale; esistere significa propriamente esistenza di per sé, indipendentemente da chi guarda. Tu e io non sono due persone, sono due punti di vista diversi. Nonostante che ognuno veda dal suo punto di vista, la realtà non dipende da questo: ‘è’ di per sé. Questa è esistenza, cioè realtà. L’esistenza è esistenza perché esiste e non perché la si vede come esistenza. Questo è il fatto universale. Ma, poiché appare in un certo modo, si possono paragonare le diverse percezioni e modi di vedere come fanno le diverse scuole di pensiero. Quando si paragona, non si deve considerare il punto di vista altrui dal proprio, perché in tal caso c’è pregiudizio ed è evidente che non ci potrà essere accordo. L’universale, invece, è indiscutibile. Ciò che esiste nel tuo anubhava esiste anche nel mio e nell’anubhava di tutti, perché un fatto universale è un’esistenza universale, un anubhava universale. Esso deve essere preso come criterio. Su questa base si può giudicare tutto, e non dalla propria percezione e comprensione. Il modo di percepire e di capire può essere diverso, ma l’esistenza è la stessa. Il mio punto di vista lo chiamo il mio darśana. Ma non si può pretendere che un altro assuma il mio punto di vista. Non si può richiedere di accettarlo soltanto in base alla propria autorità o alla propria esperienza, perché allora è solo un anubhava personale, non è un’esperienza universale. Bisogna distinguere tra ciò che è il punto di vista universale (vastu tantram) e quello individuale (buddhi tantram). Il fatto indiscutibile e universale è il sostrato (adhiṣṭhānam). La comprensione del fatto può essere diversa a seconda della capacità (adhikaraṇam) di ognuno; in tal caso si può discutere e paragonare quello che ciascuno ha capito. Cioè, avendo osservato la stessa verità, ci si confronta e aiuta reciprocamente per fare vicāra in comune. L’indagine sull’Ātman significa verificare la nostra comprensione, sempre sulla base del fatto universale. Con anubhava, dunque, s’intende comprensione, conoscenza. Quindi non si deve ignorare l’anubhava dell’altro, perché la comprensione dell’uno può aiutare l’altro a verificare se la propria comprensione è in linea con quella universale che è il criterio di verità. Questa è la base della relazione guru-śiṣya.
Nel vyavahāra la nostra comprensione si trova con la sovrapposizione fra Ātman e anātman. Secondo l’oppositore le loro nature sono opposte: ma fino a che punto sono opposte? Egli afferma che sono completamente opposte in ogni senso. L’oppositore, invero, è più saggio dei post-śaṃkariani; infatti questa totale opposizione implica che il vero adhyāsa è impossibile. Anche i vedāntin accettano questa totale opposizione, in quanto è un’esperienza universale innegabile. Ma quando si dice che c’è adhyāsa non lo si attribuisce al fatto, ma alla mente di colui che guarda. Perciò è un pensiero errato (mithyā pratyaya), non è un oggetto errato (mithyā padārtha). Questo punto è importante, perché è proprio in questo che i vyākhyānakāra1 sbagliano. Nella mente di tutti c’è questo adhyāsa, ma nonostante la non comprensione, la realtà rimane inalterata. Perché l’adhyāsa non influenza né modifica il fatto. Quando si confonde il serpente con la corda l’errore sta in chi guarda, non nella la corda. Similmente Brahman rimane advaita e la conoscenza errata per l’Ātma svarūpa non esiste. Nel mokṣa svarūpa non c’è adhyāsa, non c’è alcun saṃsāra; questo c’è soltanto in chi lo vede.
Riassumendo, perché accade questo adhyāsa? La risposta è perché si è in condizione di non discriminazione (avivekena), dovuto all’aviveka. Questa però non è una causa, l’assenza di discriminazione (viveka abhava) non essendo un fattore causale. Perché ci sia aviveka ci devono essere adhyāsa e anātman: ma questi due non esistono prima dell’aviveka né prima dell’adhyāsa esistono gli anātman. La mancanza di discriminazione è solo la condizione in cui si trova l’adhyāsa senza alcuna sequenza temporale. Invece, alcuni post-śaṃkariani presentano l’adhyāsa come un prodotto dovuto a un fattore preesistente. Quindi lo descrivono come un avvenimento che ha origine nel tempo. Prima dell’adhyāsa ci sarebbe un elemento che crea l’adhyāsa. Questa è pura speculazione, un’ipotesi che non si riscontra nell’anubhava, perché anche il tempo è dovuto all’adhyāsa. Nell’adhyāsa c’è semplicemente mancanza di discriminazione: perché si vuole sostenere che la mancanza di discriminazione è nimittam per adhyāsa in senso causale? Bisogna chiedersi se la mancanza di discriminazione è precedente, contemporanea o posteriore all’adhyāsa. ‘Dopo l’adhyāsa’ non ha senso. È solo nell’adhyāsa che si trova la mescolanza tra Ātman e anātman. Prima dell’adhyāsa non c’è l’anātman, perciò il problema non si pone. Quindi anātman si trova solo nell’adhyāsa. Il serpente lo si trova solo nell’adhyāsa; prima non c’è. Prima dell’erronea conoscenza, non c’è alcun serpente. Lo si trova solo nell’errore. Affermare che la mancanza di discriminazione (viveka abhava) esiste prima dell’errore non ha alcun senso. Il viveka abhava può soltanto prolungare l’errore: finché non si discrimina, l’errore continua. Quindi, la mancanza di discriminazione è nell’ adhyāsa e finché c’è mancanza di discriminazione c’è adhyāsa. Essendo simultanei, non c’è alcuna ragione di attribuire a nimittam un senso causale. Si usa il termine nimittam solo perché lo si intende apparentemente successivo in una sequenza temporale. Lo Śāstra dice che viveka abhava è nimittam per l’adhyāsa, ma se si facesse vicāra, l’adhyāsa sarebbe corretto e scomparirebbe: quindi l’adhyāsa rimane finché c’è mancanza di viveka. Il viveka abhava è preso come nimittam per adhyāsa. Quando diciamo che la mancanza di discriminazione è nimittam intendiamo che nel viveka abhava c’è l’adhyāsa e in quella condizione l’adhyāsa permane. Ciò implica che se si fa viveka, l’adhyāsa non può permanere. Ora, se c’è l’adhyāsa che cos’è il vyavahāra? Il vyavahāra è dovuto all’adhyāsa. Non si può separare adhyāsa da vyavahāra. Quando c’è l’uno c’è l’altro. Questo è quanto. Per facilitare la comprensione del discepolo si distinguono tre fasi, ma nel proprio anubhava è solo uno. Perciò il titolo di questo articolo è puramente provocatorio: non c’è alcuna causa per l’ignoranza.
Come si è detto sopra, per l’Atman non c’è guṇa-guṇi bhava (relazione di qualità e qualificato). Per esempio, Caitanya non èun guṇa di Ātman. Ātman non può perdere Caitanya, e Caitanya non può esistere in qualcos’altro. Quindi è veramente la sua natura, lo svarūpa di Ātman. È uno, definito con due parole. Vale a dire che non è una cosa divisa (vastu bheda), è un unico vastu. Lo stesso dicasi per i termini Kūṭasta e Nirvikāra, immobile e immutabile, che quindi sono anch’essi sinonimi di Ātman. Questo si applica a tutte le altre ‘qualità’ di Ātman. L’uso di ‘qualità’ esiste solo per poter esprimere questa realtà2. Quando i dharma dell’Ātman si attribuiscono all’anātman e viceversa, allora c’è adhyāsa. Tuttavia, nemmeno all’anātman si possono attribuire dei dharma. Questo è l’errore che fanno i vaiśeṣika e altri dualisti, che considerano Ātman una sostanza (dravya). Per loro anche anātman è un dravya e quindi dotato di qualità come, per analogia inversa rispetto ad Ātman, jaḍatvam (essere insenziente), acetanatvam (essere privo di coscienza) e vikāritvam (essere mutevole) ecc. Ma questi dharma di anātman sono davvero proprietà? Tutti parlano di guṇa-guṇin anche per anātman, eccetto gli advaitin. Facciamo l’esempio di acetanatvam che i non advaitin considerano come proprietà di anātman: ciò non corrisponde alla nostra esperienza. Le qualità di una sostanza (dravya) cambiano; ma se non cambiano non le si può definire qualità. Per esempio il colore del fiore è una qualità e, come tale, è mutevole. Una qualità è tale se l’oggetto ne può avere varie e se la stessa qualità può esistere in altri oggetti. Invece acetanatvam non può essere una qualità perché è anātman, e anātman è acetanatvam. Acetanatvam si trova solo nell’anātman. Quindi non sono due: sono la stessa cosa. Perciò nemmeno qui c’è guna-guni sambandha. Lo stesso dicasi per vikāritvam, mutabilità, in quanto solo anātman è mutevole (vikārin) e vikārin è anātman: sono un’unica cosa. Il dravya e i guṇa (la sostanza e gli accidenti) di cui parlano i vaiśeṣika, non sono una relazione, sono un’unica cosa vista da due punti di vista diversi. Guṇa e dravya sono solo due punti di vista, non sono due cose. Per i vaiśeṣika sono due entità separate: sostanza e qualità, fiore e colore. L’oggetto e la sua qualità sono visti come due cose separate. Per noi non sono due cose, sono la stessa entità considerata da due angolature differenti.
La mancanza di discriminazione non produce adhyāsa, ma nell’assenza di discernimento (viveka abhava) si trova adhyāsa. La mancanza di discriminazione non può produrre l’adhyāsa perché è assenza: e l’assenza non può produrre nulla. Inoltre l’adhyāsa non è un prodotto di alcunché, lo si trova presente spontaneamente. Abbiamo già parlato di guṇa-guṇi sambandha: perché ci sia relazione le due cose devono essere separate. Nella stessa cosa non ci può essere relazione, perciò Ātman è nitya nirviśeṣam (eternamente senza distinzione). I saguṇavādin, pensano che non aver qualità sia squalificante. In realtà, avere una qualità è una limitazione. Anche la qualità positiva è un limite. Se Īśvara avesse la qualità della compassione, avrebbe necessità di qualcuno che abbisogni della sua compassione; quindi sarebbe dipendente, non sarebbe autonomo (svatantra). Dio dipenderebbe da qualcun altro, sarebbe vincolato alle necessità del jīva, non sarebbe indipendente. Īśvara, invece, è di per sé perfetta pienezza (paripūrṇa), senza bisogno di poveri e di infelici per dimostrare la sua compassione. In altri termini è per sua natura beatitudine (ānanda svarūpa). Le qualità appaiono solo dal punto di vista del jīva. Quindi sono adhyāsa upādhika (limitazioni caratteristiche della sovrapposizione). Ogni qualità appare così al jīva, mentre per Īśvara è la sua stessa natura. Anche gli advaitin ammettono che Īśvara abbia qualità, ma solo dal punto di vista del jīva, in quanto sono necessità per quest’ultimo. È come il sole che pare sorgere e che invece resta fermo. Anche i suoi colori e le sue dimensioni cambiano dall’alba, al mezzodì, al tramonto: ma il sole è sempre lo stesso. Si tratta dunque solo di un anuvāda, una interpretazione;queste qualità appaiono a noi, ma il sole non muta. Un altro esempio è quello del calore del fuoco che vale per gli uomini, ma non per se stesso: il fuoco non sente il calore né si scotta. Alla dottrina Advaita i dvaitin contestano: «Ma come? Allora i jīva non possono essere protetti da Dio e non Lo possono pregare?» Invece i jīva ricevono benedizioni, compassione e anugrāha (influenze spirituali) dal loro punto di vista, ma per Īśvara sono la sua natura, come il calore per il fuoco, come la luce per il sole. Tutte quelle che il jīva considera qualità, sono invece la stessa natura (svarūpa) di Īśvara. Quindi a un certo livello il Signore ha qualità, in assoluto è la sua natura. In questo modo si trascende il problema di saguṇa e nirguṇa e, in quanto nirguṇa, non perde le qualità: le trascende. Nirguṇa non significa privo di qualità, ma che trascende le limitazioni dovute ai guṇa. I dualisti non capiscono, non vogliono capire, rifiutano di assumere questo punto di vista. Vorrebbero imporre agli advaitin la loro visione limitata. Ciò è del tutto inaccettabile, perché affermare le qualità conduce a una dipendenza di Īśvara dal jīva e del jīva da Īśvara. Questa dipendenza contraddice l’assoluta autonomia (svatantratā) di Īśvara. Le Upaniṣad in certe parti parlano dei guṇa diĪśvara in quanto saguṇa e, altrove, parlano del nirguṇa, cioè di Brahman con qualità o senza. Come si spiega ciò che può sembrare una contraddizione della śruti? I seguaci del dvaitādvaitavāda (dottrina della dualità-non dualità) affermano che Īśvara ha due facce, una con qualità e l’altra senza. Accettano i due i punti di vista, quindi devono immaginare due aspetti per cui Īśvara parzialmente è libero e parzialmente non lo è. I dvaitin, da parte loro, dicono che le Upaniṣad affermano che Īśvara ha solo qualità e che i testi in cui si parla dei guṇa sono quelli veri in senso primario. Trascendere i guṇa lo interpretano come trascendere le qualità negative. Ma questo la śruti non lo afferma, dichiarando chiaramente che Īśvara non ha proprio alcuna qualità. Per affermare che Īśvara è compassionevole non occorre dire che non è crudele, perché la compassione lo implica eminentemente. Perciò non ha senso sostenere che le Upaniṣad con nirguṇa intendano che Īśvara è solo privo di qualità negative. Il puro Advaita insegna che dal punto di vista del jīva ci sono le qualità, ma che in sé Īśvara ne è libero. Ognuno, in base alle proprie capacità e qualifiche, può esaminare queste tre dottrine e assumere quella che più gli si confà.
Lasciamo concludere al Guru:
“Se ami la tua dottrina, sii felice con quella. Se ti fa felice, conservala, ma non sentirti offeso da una dottrina superiore. Si deve comunque riflettere se le qualità esistono per il jīva o per Īśvara. Le qualità di Īśvara sono necessarie al jīva per essere benedetto e purificato. Questo è riconosciuto dall’Advaita. Noi diciamo che le qualità di Īśvara non sono per Īśvara: sono invece per gli altri. Quindi non è richiesto che per lui siano reali. Bisogna ponderare su questa verità, perché l’Advaita richiede un attento vicāra, facendo attenzione all’anubhava e alla logica insita nell’insegnamento tradizionale. Tutte queste precisazioni servono per fare manana. Per capire i fatti, bisogna esaminarli da tutte le angolature. Indagando, si eliminano tutte le apparenze, tutte le contraddizioni sono risolte, tutti gli errori sono dissolti ed emerge il fatto nella sua realtà. In questa comprensione e certezza, la mente è pura, libera e rilassata. Questo è l’Advaita vicāra. Śaṃkara si chiede: «Come si può dire che solo l’Advaita sia la verità ultima?» La risposta è che l’Advaita è non duale e quando raggiungi il non duale non puoi avere dubbi perché non c’è nulla altro da te. È così naturale e privo di paura! Se sei non duale non puoi preoccuparti di alcunché perché non c’è nulla al di fuori di te. Quindi solo questo ti rende libero dal saṃsāra. È importante fare manana con grande pazienza e a lungo. Anche se un punto ti sembra sbagliato, abbi pazienza e continua a indagare; perché non devi credere nell’Advaita, ma devi seguire ciò che comprendi. Il vicāra ti conduce naturalmente all’Advaita, cioè a essere libero da contraddizioni, perché tu sei tutto. Perciò usa la tua mente e sii paziente. Non bisogna avere alcun attaccamento emotivo nei confronti del termine Advaita. Perché l’Advaita è l’Ātman di tutti. Quindi è Ātma Nirviśeṣa Caitanya. Se si vogliono ricevere grazie e benedizioni da Īśvara, va benissimo; ma non si può accusare il vedāntin di essere incapace di adorare solo perché definisce Īśvara nirguṇa. Si tratta di due livelli diversi. Quello che è inaccettabile è sostenere che il punto di vista inferiore possa essere imposto come l’unico vero. Anche noi possiamo partecipare alla pūjā, niente ce lo impedisce. L’Advaita non è la libertà dal pensiero, è il culmine del vicāra, dell’indagine. Io non ti chiedo di credere in base alla mia autorità, a quella di Satcidānandendra Svāmījī o di Śaṃkara, ma di provare nel tuo anubhava. Bisogna osservare con pazienza finché il fatto si rivela. Allora tutti i dubbi svaniscono e il jñāna affiora in te come intuizione.”
Oṃ saha nāvavatu
Saha nau bhunaktu
Saha vīryam karavāvahai
Tejasvi nāvadhītamastu mā vidviṣāvahai
Oṃ śāntiḥ śāntiḥ śāntiḥ3
- Con post-śaṃkariani si intendono coloro che non si rifanno direttamente all’opera di Śaṃkara, ma che seguono i suoi sub-commentatori (vyākhyānakāra), dichiarandosi così seguaci delle correnti (prasthāna) che prendono il nome dai loro sub-commentari: Pañcapādikā, Vivaraṇa e Bhāmatī (Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, L’autentica dottrina di Śaṃkara sull’avidyā. Avidyā Śaṃkara Siddhānta, Milano, Ekatos Ed. Pr., 2020, p. 7).[↩]
- ‘Qualità’ è un termine preso in prestito dall’esperienza che l’individuo ha nella situazione vyāvahārika. Per esempio si riconosce che un essere vivente ha apparentemente la qualità di essere cosciente (cit) e mutevole (vikāra); al contrario una pietra ha apparentemente la qualità di essere non cosciente (acit) e immutabile (nirvikāra). La correzione dell’errore tramite vicāra, invece, fa riconoscere che solo l’Ātman è cosciente e immutabile per sua reale natura.[↩]
- “Oṃ, possa Egli proteggerci entrambi [guru e śiṣya trasmettendo la conoscenza]; possa Egli proteggerci entrambi nutrendoci [di conoscenza]; possiamo insieme contemplare con vigore; che il nostro intelletto sia illuminato; che tra noi non possa mai esserci alterità. Oṃ, Pace, Pace, Pace” (Kaṭha Upaniṣad, II.3.19; Taittirīya Upaniṣad, II.1).[↩]