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2. Meister Eckhart e la conoscenza dell’Assoluto

Corrispondenze con l’advaitavāda

Nel suo “fondo” l’anima è invece senza immagini e non viene mai a contatto con le creature. Per questo neanche le più alte potenze possono penetrare nella sua profondità: per operare hanno bisogno di rappresentarsi le cose, traendone un’immagine dall’esterno, tramite i sensi. Il loro modo di conoscere non può, quindi, essere adatto a conoscere Dio e la sua “scintilla” nell’anima: la parte dell’anima che è ad immagine della Divinità, non si presta ad immagine alcuna, essendo quel silenzioso abisso da cui sgorgano le stesse potenze; si potrebbe indicarla come immagine senza immagini, usando il linguaggio paradossale caro al predicatore domenicano. Perciò l’anima non può conoscere sé stessa né Dio se non tramite un “non-sapere” che è sopra qualsiasi sapere.

Anche se può chiamarsi un non-sapere, una non-conoscenza, contiene tuttavia in sé molto di più di ogni sapere e di ogni conoscenza al di fuori di esso.1

Nemmeno Dio, in quanto determinato, può accedere a ciò che il maestro domenicano chiama “fondo”, “scintilla”, “castello” dell’anima e che è immagine della Divinità, che qui dimora nella sua nuda essenza.

Tanto veramente uno e semplice è questo piccolo castello, tanto elevato al di sopra di ogni modo e di ogni potenza, e tanto unico che mai alcuna potenza né modo, e neppure Dio stesso, possono comprenderlo. In verità, come Dio vive, Dio stesso non lo penetrerà mai per un istante né mai l’ha penetrato col suo sguardo, in quanto egli esiste nella determinazione e proprietà delle Persone [della Trinità]. Lo si comprende facilmente, giacché questo unico Uno è senza determinazioni e senza proprietà. Perciò se Dio vuole penetrarlo con lo sguardo, ciò gli costa tutti i nomi divini e le proprietà delle Persone. […] in quanto è Uno e semplice, egli viene in questo Uno che io chiamo un castello nell’anima; altrimenti non vi penetra in alcun modo, ma solo così vi penetra e vi dimora. Con questa parte di se stessa l’anima è simile a Dio, e non altrimenti.2

Si capisce qui quanto possa fuorviare il parlare di immagine, visto che l’anima, nel suo più alto vertice, come detto, è immagine di ciò che è privo di ogni immagine, al di sopra di ogni rappresentazione, fosse anche quella trinitaria. Si potrebbe, più propriamente, considerare l’immagine come capacità di accogliere la Divinità: nella sua purezza e semplicità il “fondo dell’anima” può ricevere solo quest’ultima e niente altro, in una assoluta assenza di alterità.

L’anima riceve da Dio non come da un altro, ad esempio come l’aria riceve la luce del sole, ovvero nell’alterità. Invece l’anima riceve Dio non in una alterità né come fosse al di sotto di lui, giacché ciò che è al di sotto di un’altra cosa è per questa altro e lontano. I maestri dicono che l’anima riceve come una luce dalla luce, perché lì non vi è alterità né lontananza.3

Questo “fondo” è la fine di ogni contenuto e di ogni immagine, che restano relegati alla parte più esterna, superficiale dell’anima. Fondo come profondità insondabile, abisso, quindi, e non come fondamento4. Le creature restano sempre fuori da questa profondità che rimane stabile in sé stessa, senza mai operare alcunché.

Distante da tutto ciò che è finito, l’uomo scopre che il fondo dell’anima è anche il fondo di Dio, in una unità che è oltre ogni distinzione.

La vicinanza tra Dio e anima non lascia spazio a distinzione, in verità. […] l’anima prende il proprio essere direttamente da Dio, e perciò Dio è più vicino all’anima di quanto essa lo sia a se stessa e perciò Dio è nel fondo dell’anima con tutta la sua Divinità.5

La dimensione apofatica che appartiene alla Divinità è perciò condivisa dal fondo dell’anima che, di volta in volta, viene indicato da Eckhart come senza-nome, inesprimibile, al di là di ogni espressione, privo di immagini e separato dal “qui” e “ora”. Nella sua purezza l’anima, come la Divinità, non è “né questo né quello”, ma oltre e al di sopra di ogni modo, nella totale libertà:

[…] A volte ho detto che è una custodia dello spirito, a volte ho detto che è una luce dello spirito, ha volte ho detto che è una piccola scintilla. Ma ora dico: non è né questo né quello, ma è qualcosa di più elevato al di sopra di questo e di quello di quanto il cielo sia sopra la terra. Perciò la chiamo ora in modo più nobile di quanto abbia mai fatto, anche se essa irride alla nobiltà come a ogni altro modo, perché è molto al di sopra di tutto questo. È libera da ogni nome, priva di ogni forma, libera e distaccata come Dio stesso è libero e distaccato. È anche una e semplice come Dio è uno e semplice, in modo che non si riesce assolutamente a gettarvi lo sguardo.6

È proprio sull’assoluta identità di Brahman e Ātman, il Sé, il principio reale di ogni essere, che si sviluppa tutto il sistema dell’Advaita Vedānta.

L’Ātman è il Brahman da cui ogni percezione si origina.7

È questa la conoscenza che permette la Liberazione: scendendo nella profondità di sé stesso, l’uomo scopre che il suo vero essere non è quello limitato dal tempo, dallo spazio e dalla alterità che genera separazione: il suo vero essere è divino, è l’Assoluto stesso.

Quell’Ātman grande e non nato, non è soggetto a vecchiezza, immortale, non soggetto a morte, privo di paura e assoluto; Brahman è davvero, privo di paura [beato].8

L’errore fondamentale è quindi scambiare questo Sé, privo di limiti, con il limitato ego, con l’io, che è contrapposto a tutto ciò che è non-io. La rimozione della sovrapposizione di corpo, sensi, mente, a questo Sé è l’essenza di tutto l’insegnamento del Vedānta. L’Ātman, non avendo natura di oggetto, non può essere conosciuto come si conoscono gli altri oggetti: essendo pura Coscienza (śuddha Caitanya) non può essere neanche oggetto di tale coscienza, come fosse un secondo a essa.

Colui che, pur trovandosi nella facoltà di conoscere, da essa è distinto, che dalla facoltà di conoscere è ignorato, che si manifesta nella facoltà di conoscere, che dall’interno regge la facoltà di conoscere, questo è il tuo Ātman, l’interno reggitore, l’immortale.9

Esso non è, tuttavia, sconosciuto o inconoscibile ma è l’evidenza immediata della Coscienza, è il fondamento di ogni esperienza come coscienza di esistere, certezza inattaccabile ed indiscutibile: nessuno può negare di essere cosciente senza cadere in contraddizione. La Coscienza è perciò sempre presente quale sostrato di ogni conoscenza, anche di quella limitata della visione dualistica.

Ciò che nella quotidianità dell’uomo comune viene a mancare è la completa consapevolezza di essere questo Sé-Coscienza assoluta, confuso con l’aggregato di mente, corpo e sensi, ovvero con l’“io” psico-fisico, che ne è solo uno sbiadito riflesso. È questa l’avidyā, l’ignoranza, ed è a causa di questa fondamentale ignoranza che hanno ragione d’essere tutte le norme di comportamento e le sacre scritture: la loro funzione è esclusivamente quella di liberare l’uomo da questa immagine mentale, che fa pensare ad una contrapposizione io-mondo ed è causa di ogni sofferenza. Dalla errata concezione di sé, dovuta alla confusione del Sé-Ātman con il corpo e la mente, della Coscienza con ciò che non è cosciente, discende ogni altra falsa concezione. Così Śaṃkara termina la sua introduzione ai Brahma Sūtra:

Il contenuto di tutte le Upaniad ha lo scopo di sradicare questa fonte di ogni miseria [la sovrapposizione] e di acquisire la conoscenza dell’unità del Sé.10

Infatti la stessa Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad aggiunge:

[…] È il Sé dunque che bisogna guardare e sentire, è al Sé che bisogna pensare e rivolgere la propria attenzione, o Maitreyī; quando, o cara, si vede, si ascolta, si pensa, si conosce il Sé tutto l’universo è conosciuto.11

Conoscere sé stessi equivale a conoscere l’intero universo: non c’è distinzione nella profonditàdell’uomo. Raggiunta l’unità assoluta dell’Ātman, del Sé, l’uomo conosce ogni cosa, ela conosce libero dalla distinzione tra conoscitore, conosciuto e conoscenza, non essendoci niente di diverso dall’Ātman:

Perché quando c’è, per così dire, dualità, allora uno vede qualcos’altro, uno fiuta qualcos’altro, uno gusta qualcos’altro, uno dice qualcos’altro, uno ascolta qualcos’altro, uno pensa qualcos’altro, uno tocca qualcos’altro, uno conosce qualcos’altro. Ma per chi tutto è diventato il Sé, cosa e con che cosa potrà vedere, cosa e con che cosa potrà fiutare, cosa e con che cosa potrà gustare, cosa e con che cosa potrà parlare, cosa e con che cosa potrà ascoltare, cosa e con che cosa potrà pensare, cosa e con che cosa potrà toccare, cosa e con che cosa potrà conoscere?12

Anche la distinzione tra universale ed individuale, tra Dio e uomo, scompare: tutto è Uno.

Quello spirito la cui essenza è luce e immortalità, che abita nell’Ātman [universale], e quello spirito che è l’Ātman [individuale] ed è costituito di luce ed immortalità, non son altro che l’Ātman [Assoluto]. Esso è l’immortalità, esso è il Brahman, esso è il Tutto.13

Le già forti concordanze tra Ātman e “fondo dell’anima” si approfondiscono ulteriormente se si osserva che sia nella dottrina Advaita sia in Eckhart l’uomo prende coscienza di questo suo essere uno con l’Assoluto scendendo nella sua più profonda intimità: il Brahman, l’Assoluto, non è qualcosa di distante ed inarrivabile, ma, al contrario, abita nell’uomo che, riconoscendosi identico ad Esso, attinge l’eterna Felicità:

Ciò che realmente è Brahman, è sicuramente questo lo spazio che è fuori di una persona. Quello spazio che è al di fuori di una persona è sicuramente lo spazio che è all’interno della persona. Ciò che in effetti è lo spazio all’interno di una persona è sicuramente lo spazio dentro al cuore. Tutto ciò, è onnipervadente e immutabile. Chi così conosce acquisisce una beatitudine piena, indistruttibile.14

“Realtà della realtà” è chiamato l’Ātman nellaBṛhadāraṇyaka Upaniṣad,negazione della negazione” è chiamato l’Uno da Eckhart: in entrambi i casi sempre a stabilire un’ulteriorità rispetto alla ordinaria condizione di intendere il mondo che ci circonda. Un’ulteriorità che, ribadiamo, non va intesa come alterità: nonostante l’apparente molteplicità, tutto si fonda e si riconduce all’unicità del Sat, di “ciò che è”. Così insegna Uddālaka al figlio Śvetaketu, ripetendo per ben nove volte:

Quello che è questa essenza sottile, Quello è il Sé di tutto questo [universo], Quello è la Realtà. Quello è l’Ātman. Quello sei tu, o Śvetaketu.15

Quello sei tu”, Tad tvam asi: è questa una delle frasi che rappresentano la quintessenza delle Upaniṣad, uno dei mahāvākya. Gli advaitin,antichi e moderni, vedono nella corretta comprensione di questo aforisma il mezzo per la Liberazione. Si è la Realtà! Non la si ottiene.

Perciò non si tratta di conoscere “qualcosa”: l’Ātman èirraggiungibile da qualsiasi mezzo di conoscenza; è questo il motivo per cui Uddālaka, nel precedentemente citato passo della Chāndogya Upaniṣad, dice: “qualunque sia questa essenza”. Come per la Divinità e il “fondo dell’anima”, l’apofatismo che è inerente al Brahman è lo stesso che accompagna l’Ātman, non essendoci tra i due alcuna separazione. Così come al Brahman ci si riferiva con la formula neti neti, così nessun termine può indicare propriamente l’Ātman:

Questo è l’Ātman, definibile soltanto in senso negativo: esso è inafferrabile perché non lo si afferra, non è soggetto a decadenza perché non decade, non è soggetto ad attaccamento perché non s’attacca; privo di legami, non teme né può essere colpito.16

Per la Śruti, così come per Eckhart, l’intelletto, buddhi17, resta comunque la facoltà più alta che un individuo possieda.La buddhi, se svincolata da mente e sensi, resa luminosa, riflette al meglio la coscienza dell’Ātman, trovandosi ad esso molto vicino, e diventa così veicolo privilegiato nel processo di Liberazione:

Superiori ai sensi (indriya) sono infatti gli oggetti (arthāḥ), superiori agli oggetti è la mente (manas), superiore alla mente è l’intelletto (buddhi), superiore all’intelletto è il grande Atman.18

E non diversamente si esprime anche Eckhart,

[…] Queste tre parole indicano tre categorie di conoscenza. La prima è la conoscenza sensibile. […] La seconda, quella razionale è molto più alta. Con la terza, si intende una nobile potenza dell’anima, tanto alta e nobile da cogliere Dio […].19

che conferma più volte la capacità di questa potenza dell’anima, se ritirata dalle creature, di essere illuminata da Dio:

Ora, non si può amare Dio senza prima conoscerlo. […] Se allontano da tutte le cose il mio intelletto, che è una luce, per dirigerlo direttamente verso Dio, che incessantemente si effonde con la sua grazia, esso viene illuminato e unito dall’amore, conoscendo così e amando Dio come è in sé stesso. […] dobbiamo col nostro intelletto avvicinarci a questa luce di grazia, sottratti a noi stessi ed elevati in quella luce che è Dio stesso.20

Tuttavia, come osserva Śaṃkara, proprio la trasparenza della buddhi alla luce dell’Ātman può essere causa di fraintendimento:

[…] L’apparenza [upādhi] dell’intelletto brilla di viva luce perché è vicinissima al Sé supremo; e il Sé, erroneamente identificato con essa [upādhi] subisce la trasmigrazione a causa dell’illusione [māyā]. Questa upādhi non è dunque che una semplice sovrapposizione all’Ātman.21

Perciò, per quanto l’intelletto sia vicino al Sé, per quanto comprenda le limitazioni dell’ego e, come facoltà intelligente, rifletta il Cit dell’Ātman,esso resta pur sempre una modificazione della prakṛti, la sostanza primordiale, e quindi, come upādhi del Sé, continua ad essere causa di trasmigrazione. L’Ātman, invece, è il sostrato di tutte le facoltà individuali, ivi compreso l’intelletto:

Esiste un’Entità Assoluta, un’Entità Inesprimibile, che è l’eterno sostrato della coscienza empirica, il Testimone dei tre stati22, distinto dai cinque involucri23 che compongono l’individualità umana.24

  1. SE, 101, p. 628. Eckhart critica spesso, a volte usando anche termini ironici, i cosiddetti maestri e sapienti che non colgono la distinzione propria della verità divina, fermandosi al suo aspetto esteriore senza mai giungere al suo immutabile e indistinto fondo. In uno dei suoi sermoni più celebri e tramandati, definisce “asini” coloro che pensano di avvicinarsi a Dio sottoponendosi volontariamente a privazioni: “[…] Costoro si chiamano santi per l’immagine esteriore, ma interiormente sono asini, dato che non comprendono niente della distinzione propria alla verità divina. […] Sono molto stimati agli occhi di quelli che non sanno niente di meglio, ma io dico che sono degli asini che nulla comprendono della verità divina. […] della povertà di cui ora parliamo non sanno niente.SE, 52, pp. 389-390.[]
  2. SE, 2, pp. 105-106. Eckhart non riconobbe l’autenticità di questo sermone di fronte alla Commissione di Colonia, pur senza rinnegarne i contenuti: sembra che ciò fosse dovuto al fatto che l’anonimo che lo aveva redatto, avesse fuso insieme due diversi sermoni. Cfr. M. Vannini, SE, 2, nota 1, e K. Ruh, Meister Eckhart. Teologo-predicatore-Mistico, Brescia, 1989, p. 215.[]
  3. SE, 24, p. 243.[]
  4. Nel linguaggio advitīya si ritrova la medesima distinzione: il fondamento su cui qualcosa s’appoggia è definito āśraya, come il tavolo su cui poggia un vaso, o il colore rosso su un fiore rosso. Il fondo o sostrato, adhiṣṭhāna, è invece la vera realtà di ciò che vi si sovrappone, come la corda per il serpente.[]
  5. SE, 10, pp. 154-155.[]
  6. SE, 2, pp. 104-10.[]
  7. BU V.5.19.[]
  8. BU IV.4.25.[]
  9. BU III.7.22.[]
  10. BSŚBh, premessa.[]
  11. BU IV.5.6.[]
  12. BU IV.5.15[]
  13. BU II.5.4.[]
  14. Chāndogya Upaniṣad (ChU), III.12.7-9.[]
  15. ChU, VI.8.6-7.[]
  16. BU III.9.26.[]
  17. Buddhi (l’intelletto), ahaṃkāra (il senso dell’io), manas (mente), ed i sensi, divisi in buddhīndriya o jñānendriya (le cinque facoltà della conoscenza: udito, vista, odorato, gusto e tatto) e karmendriya (le cinque facoltà d’azione: parlare, afferrare, camminare, evacuare, procreare), costituiscono le tappe del progressivo processo di condensazione della prakṛti, la Natura primordiale, secondo il Sāṃkhya.[]
  18. Kaṭha Upaniṣad, I, III, 10.[]
  19. SE, 11, p. 165.[]
  20. SE, 75, p. 515.[]
  21. Vivekacūdāmaṇi (VCM), 188.[]
  22. Veglia (vaiśvānara), sogno (taijasa) e sonno profondo (prājña). Oltre questi, Turīya, il cosiddetto Quarto, è la Coscienza in sé stessa, che comprende e sostiene, trascendendoli, gli altri tre.[]
  23. Sono i kośa, le guaine o involucri che celano il principio unico. Descritti in Taittirīya Upaniṣad (II), sono: annamayakośa (involucro fatto di cibo), prāṇamayakośa (involucro pranico), manomayakośa (involucro della mente), vijṇānamayakośa (involucro di consapevolezza, d’intelletto), ānandamayakośa (involucro di Beatitudine); costituiscono, secondo Śaṅkara, i tre corpi, grossolano, sottile, ‘causale’, corrispondenti ai tre stati: veglia, sogno, sonno profondo.[]
  24. VCM 125.[]