Svāmī Prabhuddhānanda Sarasvatī Mahārāja
17. Commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda
Agama Prakaraṇa
Note sul Śaṃkara Bhāṣya riguardanti la Kārikā I. 6
Il siddhāntin afferma che il linguaggio non ha la capacità di descrivere la Verità-Realtà (Satyam). Anche lo Śāstra, che è linguaggio, può descrivere la Verità soltanto tramite la correzione, ovvero tramite il neti-neti, e mai per mezzo della descrizione diretta; descrivere significa attribuire aggettivi all’oggetto che si vuole descrivere; questa è la definizione di “descrizione” tratta dal dizionario, che non fornisce ulteriori specificazioni. Descrivere significa definire un sostantivo tramite aggettivi, ovvero descrivere un uomo per mezzo delle qualità che lo caratterizzano. Tuttavia la Realtà non ha aggettivi. Gli aggettivi rientrano nel dominio fisico, prāṇico e mentale. Si sa che gli oggetti hanno aggettivi, che il corpo ha aggettivi, che i pensieri hanno aggettivi, che i sensi hanno aggettivi; ma l’essere cosciente è diverso da tutti questi: non è corporeo, non è fisiologico, non è psicologico, quindi non si può descrivere. Non si può descrivere la Realtà in termini di aggettivi perché non ne ha; quindi anche lo śābda pramāṇa parla della Realtà solo in termini di negazione. È come quando si va a dormire: non ci si addormenta qualificandosi, ci si addormenta liberandosi; la libertà dal conosciuto è la Realtà.
Quando si trascende la forma, il suono, il gusto, il tatto, i ricordi, il corpo e tutto il resto, c’è solo la libertà da essi; quindi se il sonno profondo può essere raggiunto attraverso la libertà da tutto ciò che è oggettivabile, allora si capisce anche la Realtà come libertà da tutto: tutto questo lo dice il siddhāntin [il vedāntin]. Ora, rispondendo al siddhāntin, il pūrvapakṣin [l’oppositore del Vedānta] dice che forse ‘libero da tutto’ è il nulla, lo zero, il vuoto (śūnyam). Ma il siddhāntin ribatte: “No, non è śūnyam. Tu chiami questo mondo illusione come anch’io lo chiamo illusione; e l’illusione non può esistere senza avere dietro una realtà. È universalmente condiviso che non ci possa essere una conoscenza sbagliata senza una realtà soggiacente. Non si può mai vedere ciò che non esiste, si può solo vedere ciò che esiste in modo giusto o sbagliato. Vedere ciò che c’è in modo sbagliato si chiama illusione; e un’illusione non è qualcosa senza una realtà soggiacente. Oh, buddhista! Anche tu dici che il mondo è un’illusione, come lo dico anch’io, ma tu sostieni che l’illusione è radicata nel nulla, nello zero, nel vuoto, mentre io dico che le illusioni sono radicate nella Verità. Quindi se il siddhāntin afferma che solo la Realtà non ha aggettivi ciò non significa che sia il vuoto. Il cristallo trasparente è privo di colori e non si può descrivere l’incolore; così anche il silenzio non può essere descritto con aggettivi: il suono ha aggettivi. La forma e il colore sono aggettivabili, ma ciò che non ha forma non ha qualità, quindi non si può descrivere il silenzio in termini di aggettivi. Il silenzio non è śūnyam, il silenzio è solo sperimentato. Tutti sperimentano il silenzio come il proprio essere. La creazione non ha il silenzio come qualità: il silenzio non è spaziale, non è qualcosa presente in un determinato punto dello spazio. Il silenzio non fa parte della creazione, il silenzio è il proprio essere che tutti sperimentano. Il fatto che il silenzio non abbia aggettivi non significa che sia śūnyam. Il cristallo incolore non ha aggettivi in termini di colore, ma ciò non significa che sia il vuoto. Perciò non si può postulare lo śūnyam come radice dell’intera creazione. Per l’uomo l’illusione è sempre in agguato, si può avere l’illusione del serpente sovrapposto a qualcosa che è la corda, si può avere l’illusione dell’argento sulla conchiglia, ma non si può avere un’illusione che non sia radicata nella realtà. Anche nell’esperienza comune tutti i fraintendimenti sono radicati nella verità. Se non c’è dietro una realtà non si può dire una bugia. Ogni svista ha dietro una realtà, ogni illusione ha dietro una realtà, ogni interpretazione distorta ha dietro una realtà. La mia affermazione categorica è che ogni percezione si basa su una realtà; ogni percezione è una percezione della verità che non si può percepire in quanto tale, tutto è illusione e fraintendimento della verità. Anche il mondo (jagat) è un’illusione. Se si sostiene che jagat non è un’illusione, allora esso diventa un’altra realtà e, allora, non si potrà accettare la natura non-duale della Realtà. Se jagat non è un’illusione, ma è una realtà, questa sarebbe un’altra Realtà; allora ci sarebbero due Realtà e, così, non si potrà mai realizzare l’Uno senza secondo. Se Brahman è una realtà e jagat è una realtà, allora ci sono due realtà. Come potrebbe esserci l’Unità? Quindi, caro buddhista, anche se tu chiami questa un’illusione, come anch’io la chiamo illusione, ciò che dici mi dà abbastanza appigli per confutarti. Infatti tu chiami tutto questo illusione eppure parli del nulla (śūnyam) come fosse Realtà. Questo è il tuo problema. Se è un’illusione deve essere radicata nella Verità-Realtà, nel Satyam. Tu dichiari che śūnyam è la realtà, ma il nulla non può essere descritto come Realtà. Sat è ciò che è, non ciò che non è. Lo śūnyam è sempre descritto dai buddhisti in termini di assenza, di vuoto, di assenza del mondo, di assenza della mente. Per noi vedāntin questa non è la Realtà: l’assenza non è la Realtà della presenza dell’oggetto. La presenza del soggetto è la realtà sia della presenza dell’oggetto sia dell’assenza dell’oggetto. Anche se sentito un miliardo di volte, questo non ha fatto crescere la vostra comprensione. È la vostra stessa presenza che è la Realtà della presenza della forma e dell’assenza della forma. La presenza della Realtà è la presenza della vita e l’assenza della vita si chiama morte.
Il pūrvapakṣin, poi, dice: “Secondo te, oh siddhāntin, Brahman è la Realtà che non può essere descritta con il linguaggio; se dici che è l’origine di tutto questo (idam), come origine dovrebbe essere descrivibile, perché l’origine-creazione è una relazione, è un sambandha, quindi ovunque ci sia un vero sambandha è possibile farne la descrizione”. Il siddhāntin risponde no. Tra origine e creazione non c’è un vero sambandha; tra la conchiglia e l’argento, l’argento è falso (mithyā). Anche il sambandha tra la conchiglia e l’argento è mithyā: non c’è un vero sambandha. Tra le due mani c’è un vero sambandha, tra il latte e la cagliata c’è un vero sambandha: il latte è reale e anche la cagliata è reale, quindi c’è una causalità. Ovunque ci sia causalità c’è un sambandha; tra azione e risultato c’è un sambandha, entrambi devono essere reali, la causa deve essere reale, anche l’effetto deve essere reale, l’origine deve essere reale e anche la sua produzione deve essere reale. Solo allora c’è un sambandha reale; dove c’è un sambandha reale l’origine può essere descritta dal linguaggio, ma tra la conchiglia e l’argento, la conchiglia è reale mentre l’argento è mithyā. E il sambandha di cui parliamo tra la conchiglia e l’argento, anche quel sambandha è mithyā.
In questo modo tra il nirviśeṣam e la creazione, tra il Brahman e la creazione, la creazione è mithyā e anche il sambandha tra il Brahman e la creazione è mithyā: non c’è un vero sambandha. Dato che non c’è un vero sambandha tra Brahman e il jagat non si può nemmeno definire Brahman come origine perché il suo stato di causa della creazione è anch’esso mithyā; quindi, poiché non c’è un vero sambandha, la Realtà non può mai essere descritta col linguaggio. Tra Sat e asat non c’è sambandha e, poiché non c’è un vero sambandha, la Verità non può mai essere descritta a parole. Il sambandha tra Sat e asat non permette la descrizione dell’origine, in quanto non c’è sambandha perché è mithyā. Quindi, mio caro buddhista, solo perché Brahman è l’origine di tutto non puoi dire che Brahman è disponibile a essere descritto dal linguaggio. Sì, Brahman è l’origine dell’universo, ma anche la frase “Brahman è l’origine di tutto”, ossia la relazione origine-creazione, è anch’essa mithyā. Ciò fa apparire il nirviśeṣam quale origine, ma quando il nirviśeṣam è considerato come origine, tale affermazione è intenzionale (tātparyam) a scopo d’insegnamento. Nirviśeṣam in quanto tale, ovvero Brahman-nirviśeṣam, non è mai disponibile alla descrizione in nessuna lingua. Perciò si può parlare di Realtà solo nei termini di neti neti, na idam na idam (libero da questo, libero da questo), libero da tutto ciò che è oggettivabile. Non si può descrivere la propria esistenza in termini qualificativi, si può solo descrivere la propria esistenza in termini di libertà da tutto: libertà dal suono, dal gusto, dal tatto, dall’odorato, dalla memoria, da tutto. Perciò si può parlare di Realtà solo in termini correttivi. Se si pensa di essere la forma, non si è la forma; se si pensa di essere il vedente della forma, non si è il vedente della forma, perché non c’è nessuna forma; così si può parlare della Realtà solo in termini correttivi, neti neti. Quando li si chiama termini correttivi, s’intende l’uso del neti neti, del na iti na iti, na idam na idam, per dire che la Realtà è libera dall’essere questo; la Verità è libera dall’essere la forma, è libera dall’essere il veggente della forma, è libera dall’essere l’origine della forma: la Verità è presenza non-duale, l’esistenza della Verità non ha nulla da spartire con l’errore, la Verità non ha alcun contatto. Ciò che È non ha alcun contatto con ciò che si vede. Ciò che si vede è una percezione, l’altra è l’esistenza indipendente dalla percezione. La percezione non è indipendente dall’esistenza della Verità mentre l’esistenza della Verità è indipendente dalla percezione. La Realtà non è descrivibile dal linguaggio, il che significa che non è disponibile a essere esposta dal linguaggio. Śābda non può raggiungere la Realtà; i mezzi descrittivi non possono raggiungere la Verità. I mezzi descrittivi non possono raggiungere la Verità, il che significa che la Verità non può essere vista o udita, non è oggetto esterno degli strumenti di conoscenza (pramāṇa antara viṣayam), né è accessibile al linguaggio descrittivo. Non è accessibile al linguaggio né ai sensi; non è oggettivabile dai sensi, non è oggettivabile dalla memoria; non è realmente descrivibile nel linguaggio. Il linguaggio non agisce sulla Realtà, agisce sul pensiero umano nei riguardi della Realtà: questa è una grande svolta. Tu pensi che sia una forma e invece non è una forma, pensi che sia udibile e invece non è udibile, pensi che sia tangibile, ma non è tangibile, pensi che sia odorabile, ma non è odorabile. Pensi di poter ricordarlo e invece non puoi ricordarlo, pensi di poterlo dimenticare, ma non lo puoi dimenticare. Non è oggetto del pensiero o della memoria. Quindi il Vedānta Śāstra non opera sulla natura della Realtà, non è possibile: il Vedānta opera sul pensiero umano circa la natura della Realtà. Śābda pramāṇam non agisce sulla Realtà, agisce sul pensiero umano riguardante la Realtà. Caro signore, questo è ciò che pensi di te stesso, ma non è ciò che sei; pensi di avere nascita e morte, mentre sei libero da entrambe; pensi di essere un individuo, ma non sei un individuo.
In questo modo, il Vedānta Śāstra solamente corregge il pensiero umano sulla Realtà; non oggettiva la Realtà. Non ci si può intromettere nella Realtà, perché, dal punto di vista della Realtà, non c’è nessuno che possa intromettersi; la mente non può immischiarsi nel sonno profondo, perché la stessa mente nel sonno profondo non c’è; il suono non può mescolarsi al silenzio, perché dal punto di vista del silenzio non esiste alcun suono. Quindi la Verità non è accessibile al linguaggio né al pratyakṣa pramāṇam: anzi, non è raggiungibile da alcun pramāṇam. Śābda è un pramāṇam che non presenta la Verità come se si portasse qui una vacca per dichiarare: “questa è una vacca”. È come mostrare una vacca e un cavallo a chi ascolta, dicendo “Questa è una vacca, questo è un cavallo”: la natura della Realtà non si può dimostrare come si può mostrare la natura di una vacca o di un cavallo, evidenziando le diversità tra i due animali. Ciò è impossibile: nessun pramāṇam può oggettivare la Realtà.
Allora, che fa il Vedānta? Il Vedānta non si immischia con la Realtà, il Vedānta non parla della Verità, il Vedānta non è impegnato a parlare di te. La tua esistenza è lì. Il Vedānta solo corregge il tuo pensiero su te stesso. Quindi il Vedānta pramāṇam sta nel dominio del pensiero e il dominio del pensiero è adhyāsa. Il Vedānta pramāṇam agisce solo sul pensiero dell’uomo per avvertirlo: “Ehi signore, questo è ciò che pensi; ma la Realtà è libera da questa nozione; pensi di essere il corpo (deha) ma non sei deha; pensi di essere nel tempo, ma non sei nel tempo”. Perciò la Verità non è accessibile nemmeno al Vedānta; la Realtà non è accessibile a nulla perché non c’è nulla al di fuori di essa. Non è accessibile a nulla, nemmeno allo śābda pramāṇam; è sbagliato dire “nessun pramāṇam ha accesso alla Verità tranne lo śābda pramāṇam”. Nemmeno lo śābda pramāṇam ha accesso alla Verità perché è lo stesso śābda pramāṇam a dire che la Verità non è accessibile allo śābda, ed è comprensibile ed evidente che Satya non è oggettivabile. Che cosa fa il Vedānta? Il Vedānta solo corregge il pensiero umano, il pensiero che il jīva ha di se stesso. Il Vedānta si rivolge al jīva e dice che qualsiasi cosa tu pensi di te stesso, non lo sei. Pensi di essere nato e soggetto alla morte, ma non lo sei. Il Vedānta opera solo sul pensiero umano per ciò che riguarda la Realtà; educa l’uomo. Ogni pensiero su te stesso è sbagliato. Non è che certi pensieri siano giusti e certi pensieri siano sbagliati: ogni pensiero su di te è errato, è sbagliato; e tu non puoi produrmi un solo pensiero riguardo la tua esistenza che sia vero. Se tu avessi un solo pensiero sulla tua esistenza, esso cancellerebbe l’intero errore. Se trascendi anche solo d’un pelo la creazione, hai trasceso l’intera creazione. Perciò ogni tuo pensiero è sbagliato e il Vedānta opera solo per correggere il pensiero umano. Dato che la presenza non oggettivabile del tuo essere è l’Ātman, i dettagli oggettivabili della creazione sono chiamati anātman. Dunque l’anātman è evidente all’Ātman e l’Ātman è autoevidente. Ogni oggetto ha un aggettivo che è una caratteristica limitante (upādhi), ha un certo luogo che è upādhi, è contemporaneo a certi tempi che sono upādhi. Se ogni oggetto ha upādhi ed è upādhi, mentre l’Ātman non ha upādhi, cioè è nirupādhi per natura, il corpo non è forse l’upādhi dell’Ātman?
No! Soltanto dal punto di vista degli upādhi (dṛṣṭi upādhi) il corpo è un upādhi per l’Ātman, ma nella visione della propria reale natura (dṛṣṭi svarūpa), l’Ātman non ha upādhi, perché è non corporeo, non è prāṇico, non è mentale e, quindi, non è accessibile a nessun pramāṇam, sia il pratyakṣa sia lo śābda sia qualunque altro. Non è come una vacca: una vacca può essere chiamata vacca tenendo conto della sua specie. Tutte le vacche sono vacche, perciò quando se ne descrive una, la prima affermazione è che “è una vacca” e poi che “ha quattro zampe, due corna” ecc. Quando si descrive qualcosa, la prima cosa che si dice è a quale specie appartiene, poi la razza (jāti), quali sono le sue caratteristiche (guṇa), cosa fa (kriyā) e quali sono le sue relazioni (sambandha), in base alla sequenza della descrizione. Il Sé non ha alcuna jāti, guṇa, kriyā o sambandha; una vacca può essere chiamata tale in base alla sua jāti, come un essere umano è chiamato così in base alla sua specie d’appartenenza. Che sia brāhmaṇa, kṣatriya, vaiśya o śūdra dipende da particolarità sociali mentre la nascita umana (mānuṣatvam) è sempre universale secondo la creazione di Dio. Dopo averlo definito uomo, si può dire che è basso, alto, istruito, ecc.; poi lo si definisce per quello che fa (kriyā), come che è un contadino, un medico; infine, secondo le sue relazioni, se è padre di Tizio e figlio di Caio. Dunque una vacca è tale per jāti, ma Brahman non ha jāti, quindi per Esso non si può usare il linguaggio descrittivo. Che una vacca sia tale è dal punto di vista generale (sāmānya), ma che sia una vacca Jersey è una visione particolare (viśeṣa); così l’uomo è sāmānya, un uomo indiano è viśeṣa. Perciò jāti ha le categorie generale e particolare (sāmānya-viśeṣa bhāva). Il Sé, al contrario, è non-duale, perciò non ha sāmānya-viśeṣa. La Realtà non ha alcuna kriyā, non agisce. La Realtà è. “Ma qui non è il Vedānta a dire che la verità è?” Invero sei tu che pensi che il Vedānta stia dicendo, ossia che stia agendo, ma la Realtà è solo ‘è’; pensi di agire, ma la tua esistenza è solo ‘è’. In questo modo il Vedānta sta solo correggendo il tuo pensiero sulla Verità, non sta descrivendo la Verità.
La Verità non ha aggettivi; non ha forme, non è visibile, non ha colore, non ha sapore, non ha tatto, non ha odore, eppure non è śūnyam, è libera da tutto questo, eppure non è il nulla. È come il silenzio che è libero da tutti i suoni senza essere il nulla. Se l’argomento centrale di una religione è lo śūnyam, quella religione un giorno morirà: lo śūnyam non interessa. La cultura vedica è così antica, ma sopravvive perché il suo argomento centrale è valido; il suo argomento è un essere vivente, non è un Dio lontano o una Verità lontana. il suo argomento è lo stesso discepolo che ascolta, la realtà del discepolo. Il Vedānta culmina con il detto “Tattvam asi”: quella Realtà sei tu, oh discepolo. Quindi nulla può essere più intimo della tua stessa esistenza che non è śūnyam, è nirviśeṣam. È presenza nirviśeṣam, è presenza non qualificata. L’oggetto non può essere considerato presente perché è mithyā; ciò che è mithyā non può essere considerato presente, non se ne può parlare come presente o assente. È solo una percezione falsa, una percezione correggibile. “Svāmījī,” dirai “non possiamo dire che una percezione correggibile ‘sia’”. No, se si dice che una percezione correggibile ‘è’, anche questa è una percezione mithyā, è un’idea sbagliata. Il mondo non può essere descritto in termini di ‘è’ e ‘non è’: non si può dire che il mondo è né si può dire che il mondo non è. Il mondo è una percezione di ciò che è. La Realtà non può essere riferita da alcun linguaggio. La Realtà non è accessibile al linguaggio, non è accessibile ai sensi, non è accessibile al pensiero. Se non è accessibile, allora che cosa te ne fai? Non devi farci nulla, solo riconoscere che è la tua esistenza. La Realtà non accessibile al linguaggio e ai sensi è la tua esistenza. Non devi fare qualcosa con la Realtà, devi solo riconoscerla; se si dovesse fare qualcosa con la Realtà, allora dovrebbe essere accessibile, ma in suṣupti non fai nulla con te stesso: sei lì in pace. A questo punto il pūrvapakṣin dice che forse la Realtà è come le corna della lepre, ossia che è inesistente, ma il siddhāntin lo nega.
Per il prossimo verso è importante capire che la Realtà non è accessibile a nessun pramāṇam, incluso l’insegnamento orale delle Upaniṣad (śābda pramāṇam). Allora perché c’è lo śābda pramāṇam? Esso opera solo sul pensiero umano per tutto ciò che riguarda la sua esistenza; senza śābda pramāṇam un essere umano non può discriminare sui suoi pensieri perché fondamentalmente non è in grado di operare criticamente sul suo pensiero. Può elaborare il suo pensiero riguardo alle sue opinioni sugli oggetti, ma non potrà pensare che la sua percezione di sé è sbagliata. Continuerà a credere sempre di essere un individuo, che questo mondo è lì fuori e, dando per scontato il senso di realtà del mondo e il senso della propria individualità, si metterà a speculare sulla Realtà. Ma questa speculazione non gli serve a nulla. Lo Śāstra dice che il senso di essere un individuo è un errore, il senso che l’universo sia reale è sbagliato. Quindi, l’essere umano non può mettere in discussione il fondamento della percezione. Tutto ciò che mette in discussione e cerca di correggere sono solo le sue percezioni particolari, come la correzione dell’idea che la terra sia piatta dopo essersi accorto che, invece, è rotonda. L’intera scienza è uno studio su cose particolari e, in tutto questo, non c’è niente che vada al di là. Perciò, senza śābda pramāṇam l’uomo non può mai mettere in discussione la sua percezione di se stesso e dell’universo; può solo mettere in discussione alcune percezioni settoriali come che la terra gira intorno al sole e non che il sole gira intorno alla terra. Queste sono tutte singole percezioni che egli può correggere operando sulle sue percezioni, ma non può correggere l’idea della veridicità della percezione in quanto tale.
Tutti facciamo speculazioni su come è nato il mondo, ecc. Nessuno scienziato mette in discussione il senso della realtà, nessun logico mette in discussione il senso dell’individualità, nessuno che dia realtà al mondo esterno mette in discussione il senso dell’individualità. Usano la parola “realtà”, e quando usano la parola “realtà” siamo sommersi dalla loro letteratura. Di fatto essa non è nulla: è solo una realtà per loro definizione, non una realtà in quanto tale. È un’idea speculata, non è la Verità, è un’idea errata della Verità; che Dio sia in cielo non è Dio, è solo un’idea su Dio. Gli esseri umani possono solo formulare idee sulla Realtà, ma non possono mai conoscere la Realtà. Invece, la śruti dice “la tua stessa esistenza è la Realtà”. Non si può convertire un’idea in Realtà, non si può convertire il suono in silenzio: non è possibile, come non si può avere un’idea del suono in termini di colori. Perciò, per cominciare, bisogna capire che la Realtà non è accessibile a nessun pramāṇam, compreso lo śābda pramāṇam. La tua esistenza non è qualcosa che può essere oggettivata attraverso una qualsiasi facoltà individuale. La si descrive come un soggetto che oggettiva, ma dal suo punto di vista reale c’è solo lei e quindi lo śābda pramāṇam deve essere inteso come un insegnamento che opera sul pensiero umano in vista della Realtà; non è una letteratura che descrive la Realtà. Anche quando si dice “l’Assoluto è Realtà, Conoscenza e Infinito” (Satyam Jñānam Anantam Brahman) si pronuncia una frase correttiva. L’uomo pensa di essere una forma, mentre la śruti dice che tu non sei irreale (asatyam), sei satyam. Pensi di essere ottuso (jaḍam), ma non sei jaḍam, sei jñānam; pensi di essere limitato (paricchinnam), ma non sei paricchinnam, sei eterno (anantam). Dunque Satyam Jñānam Anantam non sono termini descrittivi della natura della Realtà, sono correttivi; Quando si dice “correttivo”, si intende ciò che corregge il pensiero umano sulla Realtà, correttivo del pensiero del jīva. Senza presupporre un pensiero sbagliato non si può usare il termine “correttivo”.
Śābda pramāṇam corregge il pensiero del jīva sulla sua esistenza, senza intromettersi nella Realtà: come s’è detto, la Realtà non è accessibile al śābda pramāṇam. È come la ninna nanna che agisce sul tuo pensiero per farti scivolare nel sonno, senza intromettersi nel tuo sonno. La ninna nanna pacifica la mente, ti aiuta a ritirarti dal jāgrat; ti aiuta a ritirare la mente dal jāgrat in modo che tu possa addormentarti. Allo stesso modo il Vedānta aiuta a correggere le percezioni errate su di te. La ninna nanna ti aiuta a ritrarre le percezioni, senza intromettersi nel sonno; così il Vedānta ti aiuta a correggere le percezioni, senza intromettersi nella Realtà. La Realtà non è accessibile ad alcun pramāṇam, perciò non è accessibile nemmeno allo śābda pramāṇam. Quando lo śābda dice “neti neti”, non descrive la Verità: “neti neti” significa correggere il pensiero del jīva sulla sua natura, è una frase correttiva.
Il primo pāda è stato descritto come Virāṭ, che è l’aspetto dello stato di veglia. Lo stato di veglia e il vegliante insieme sono chiamati Virāṭ. Il primo pāda è disponibile per la descrizione vedāntica, come anche il secondo pāda. Il terzo pāda è anche disponibile per il linguaggio ma soltanto se considerato come origine. Invece il quarto pāda non è disponibile per il linguaggio. Questo perché tutti e tre i primi pāda sono adhyāsa; per spiegare meglio, i primi due pāda sono adhyāsa e il terzo pāda è un’immaginazione scritturale (śāstra kalpitam). Il primo pāda è un’immaginazione dovuta all’ignoranza (avidyā kalpitam); anche il secondo pāda è avidyā kalpitam; il terzo pāda è śāstra kalpitam e il quarto pāda è libero da qualsiasi immaginazione (kalpana). Il quarto pāda non si può descrivere in termini qualificativi, se ne può parlare solo in termini correttivi. Il pūrvapakṣin obietta: “È come le corna della lepre: per noi è del tutto inutile, se non può essere toccata, annusata, ecc., cosa ce ne facciamo di questo tipo di Realtà?. Poiché tutti vogliono essere felici, qual è il colore e la forma della felicità se non è accessibile ad alcun linguaggio né è accessibile ad alcun pramāṇam?” La pace non è un pensiero della mente, non è un’emozione, non è un ricordo: la pace è il tuo Essere come tuo Essere è la Coscienza. Il siddhāntin dice che l’assenza di corna della lepre mi è inutile, ma anche se la lepre avesse le corna per me sarebbe comunque inutile. Invece la Realtà è utile. Quando la Verità è realizzata come proprio Sé, i desideri per l’anātman finiscono assieme agli sforzi del jīva.
Quando si capisce che è solo una conchiglia, la brama per l’argento sparisce; è capitato che io vedessi come argento una conchiglia di madreperla e, allora, mi sono affrettato a impadronirmene. Ma allorché ho scoperto che era solo una conchiglia, la mia brama per l’argento è sparita. Questo è un piccolo risultato: liberarsi dalla brama non è il punto essenziale, è un semplice risultato, non è una grande cosa, ma così il senso di individualità sparisce. Infatti si diventa liberi dalla brama perché si diventa liberi dal senso di individualità, non viceversa; la libertà dal desiderio è solo il risultato della libertà dal senso di individualità e la libertà dal senso di incarnazione è possibile solo quando il Turīyam, il nirviśeṣam, è compreso come il proprio essere. Il primo pāda è un errore, il secondo pāda è anch’esso un errore, il terzo pāda è kalpitam e il quarto pāda è libero dai tre pāda. Si chiama apavāda perché il quarto pāda è libero da tutti e tre gli altri pāda. Non si può dire che la Realtà è come le corna della lepre che non servono a nulla, perché quando il Turīyam è compreso come il proprio Sé si è liberi dal senso di individualità e quindi dal senso del desiderio. Il desiderio è il risultato di adhyāsa. Deho’ham (io sono il corpo) è l’errore sul Sé, è l’errore che è corretto dalla giusta conoscenza: come, quando si conosce la corda e si corregge l’idea che sia un serpente, sparisce di conseguenza anche la paura del serpente. Questo non è niente, perciò non si dica “conoscendo la corda ci si libera dalla paura del serpente”, perché ci si libera dalla paura del serpente quando ci si libera dalla nozione che ci sia un serpente. Finché si pensa che la corda sia un serpente, anche se si controlla la paura per il serpente per qualche tempo, essa tornerà di nuovo. Non ci si deve fidare dell’errore non corretto, del problema non risolto. I problemi empirici possono non tornare, ma l’errore non corretto tornerà. Anche se chiudo gli occhi per non vederlo, finché penso che ci sia un serpente, la paura permane. Perciò solo la Verità è utile, solo la Verità è pacifica, solo ciò che è pacifico per natura mi è utile: se si comprende che questo è il mio Essere, Brahman non sarà mai inutile come le corna della lepre.
Bhagavān dice che non è possibile che l’ignoranza continui quando è apparsa la luce della conoscenza; quando c’è la luce l’oscurità non può rimanere. Similmente alla luce della giusta conoscenza la conoscenza sbagliata non può rimanere. Ogni lotta, ogni miseria sono proprie dell’uomo che pensa erroneamente alla sua esistenza. L’ignorante pensa di essere una bella forma, una forma nobile, perciò continua a nutrire la sua forma. E quella forma, che è stata nutrita per tutta la vita, alla fine è semplicemente gettata sul campo di cremazione.
Śābda pramāṇam lavora sul pensiero umano riguardo alla Realtà, Realtà che non può catturare: il linguaggio non può delimitare la Realtà. La parola Satya dice solo che il corpo non c’è, è un termine correttivo. Il linguaggio descrittivo è usato solo per descrivere gli errori sovrapposti alla Realtà; ma quando si tratta della natura della Realtà l’unica cosa che vale è il linguaggio correttivo, il neti neti, libero da tutto, libero da tutto ciò che può essere oggettivato e libero dall’intera creazione, libero dall’idea di sostenerla, libero dall’idea di risolverla, libero da ogni idea. È presenza silenziosa.