Svāmī Prabhuddhānanda Sarasvatī Mahārāja
16. Commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda
Agama Prakaraṇa
Note sul Śaṃkara Bhāṣya dall’inizio fino alla Kārikā I.6
Il primo mantra della Māṇḍūkya Upaniṣad dice “tutto questo è Oṃ” e il secondo, “tutto questo è Brahman”. Questo significa che non c’è differenza tra il nome (abhidhānam) e il nominato (abhidheyam). Noi pensiamo che tra i due ci sia una correlazione che non c’è: dietro l’apparenza della correlazione c’è letterale unicità. Unicità letterale è la realtà che sta dietro a una correlazione; qualsiasi nome e nominato, come la parola “vaso” e l’oggetto “vaso”, sono letteralmente uno. Noi pensiamo che ci sia una correlazione tra la parola “vaso” e l’oggetto “vaso”, ma, invece, c’è un’unicità letterale. Se il nome è il nominato e il nominato è il nome, allora il nome perde la sua identità di nome, come anche il nominato perde la sua identità di nominato: allora entrambi sono nirviśeṣam, quell’unità letterale chiamata mukhya ekatvam. Ogni parola e il suo significato sono letteralmente uno, mentre, restando nell’avidyā, si pensa che la descrizione e il descritto abbiano una correlazione. Così la śruti anche dice “mātrāḥ pādaḥ pādaḥ mātrāḥ”. “A”, “u” e “m” sono le mātrā, “jāgrat”, “svapna” e “suṣupti” sono i pāda: la śruti dice che le mātrā sono i pāda e i pāda sono le mātrā, che è come dire che abhidhānam è abhidheyam e abhidheyam è abhidhānam.
Così il primo mantra dice “tutto è Oṃ” e il secondo dice “tutto è Brahman”, intendendo così il mukhya ekatvam reso a parole come descrizione e descritto. In altri termini ciò è anche espresso in modo criptico come il nome e il nominato, la parola e l’oggetto, la parola e il suo significato, il tutto essendo parte della creazione. La parola “vaso” e il vaso sono letteralmente una cosa sola, mentre chi è nell’ignoranza pensa che siano una correlazione. La Māṇḍūkya Upaniṣad inizia dichiarando che tra il linguaggio e ciò che designa, tra il linguaggio e l’oggetto, non c’è correlazione, c’è mukhya ekatvam, com’è confermato dal secondo mantra. Il primo mantra, dunque, dice “tutto è Oṃ” e il secondo dice “tutto questo è Brahman”, il che significa che il Brahman, come origine di tutto, e Oṃ, il suo nome, la sua descrizione, sono lo stesso significato di nirviśeṣam. È il nirviśeṣam che è visto come universo, è il nirviśeṣam che viene insegnato come causa dell’universo, quando, invece, il nirviśeṣam rimane nirviśeṣam. La corda che rimane corda è vista come serpente, è insegnata come l’origine dell’apparizione del serpente, pur rimanendo corda. Il nirviśeṣam sembra essere Virāṭ, sembra essere Hiraṇyagarbha, sembra essere il creatore Īśvara, appare come creazione, è insegnato come causa, ma rimane sempre nirviśeṣam.
Quindi, il secondo mantra dice “tutto è Brahman come origine”; Brahman come fonte e Oṃkāra sono letteralmente uno, il che significa che anche la relazione principio-creazione è adhyāsa. È il nirviśeṣam che appare come vegliante e come stato di veglia, che viene insegnato come principio, ma che rimane sempre e solo nirviśeṣam. È la corda che viene vista come serpente, insegnata come causa dell’errore, ma che rimane corda. Quando è vista come serpente rimane corda e anche quando viene insegnata come origine del serpente rimane corda non duale. Rimanendo sempre non duale appare diversa; pur insegnata come origine, rimane nirviśeṣam. E, nel secondo mantra, l’Upaniṣad aggiunge: “quel Brahman, quel nirviśeṣam, sei tu”. Tu sei allo stesso tempo l’origine e il nirviśeṣam. Il Sé è insegnato come fonte, origine, principio, sorgente, creatore, ma è solo nirviśeṣam. Il modo in cui è insegnato è chiamato prakriyā (metodo iniziatico); esso è insegnato come causa (kāraṇam), ma rimane nirviśeṣam. Il testo prosegue dicendo che Brahman, il nirviśeṣam, non solo viene insegnato come fosse l’origine di tutto, ma anche come se avesse quattro pāda. Non ha affatto quattro pāda: è a fine di insegnamento che si dice abbia quattro pāda.
Nel terzo mantra si dice che il primo pāda di Brahman è Virāṭ. Virāṭ non significa tutti i veglianti messi insieme, non è tutti i jīva allo stato di veglia messi insieme. Virāṭ è il vegliante e l’universo della veglia; l’universo e colui che lo vede, il jīva individuale e il jagat messi insieme; il dominio dell’individuo in stato di veglia e il mondo della veglia sono Virāṭ. È il nirviśeṣam a essere visto, a essere percepito come universo della veglia e jīva della veglia. La śruti chiama Virāṭ ciò che appare come un dominio di percezione, ma non è altro che nirviśeṣam che appare come te e come l’universo. Il quarto mantra dice “na antaḥprajñam na bahiṣprajñam”: ossia, quello che noi chiamiamo stato di sogno, la śruti lo chiama Hiraṇyagarbha. È il nirviśeṣam che viene visto sia come sognatore sia come sognato.
Pertanto, ciò che sembra solo un individuo e una molteplicità di oggetti è jīva–jagat. Lo stato di sogno del jīva e il mondo del sogno sono la Realtà che appare come sognatore e come ciò che si sogna; il nirviśeṣam, che appare come sognatore e ciò che è sognato, è il secondo pāda chiamato Hiraṇyagarbha. Nirviśeṣam visto come Virāṭ è il primo pāda, il primo errore. Il nirviśeṣam visto come sognatore e sognato è il secondo pāda, il secondo errore. Il quinto mantra tratta del sonno profondo (suṣupti). Suṣupti come ānandamaya1 è ghana–prajñā2. In verità ghana–prajñā è coscienza (prajñā)non manifesta: in suṣupti tutte le percezioni diventano non manifeste e, in quanto non manifeste, sono indistinguibili. Un pensiero è indistinguibile da un altro pensiero allorché entrambi diventano non manifesti; nel sonno senza sogni l’intera percezione della veglia e l’intera percezione del sogno diventano non manifeste e, in quanto lì non appaiono manifeste, il terzo pāda è chiamato ghana–prajñā. È il nirviśeṣam che appare in quanto suṣupti e, quindi, è la terza parte dell’errore. Non voglio chiamarlo terzo errore, ma la terza parte dell’errore.
Il sesto mantra dice che questo è suṣupti, che noi definiamo stato non manifesto quando ci poniamo dal punto di vista manifesto. Tuttavia, mentre lo sperimentiamo, non lo possiamo definire né manifesto né non manifesto. In base all’esperienza non è uno stato non manifesto, non è ghana–prajñā: è presenza non-duale e quella presenza non-duale è Īśvara. Il sesto mantra parla dello stesso Ātma suṣupta, inteso come presenza del divino Signore, (aiśa Īśvara), del sommo Signore dell’universo (aiśa sarveśvara), del supremo regolatore interno (aiśa antaryāmin), dell’origine divina d’ogni esistenza (aiśa prabhavyapya bhūtanam); in altri termini qualcosa che è la causa. Cos’è che la śruti indica come la fonte? Ogni volta che sentiamo la parola “origine” immaginiamo qualche fonte esterna. No. Proprio colui che vede, in quanto advitīyam, è la fonte. Quando il Non-duale è la fonte che vede la creazione, lo stesso non-duale svolge il ruolo di colui che vede, lo stesso Non-duale svolge il ruolo di individuo. Il sogno nasce in te e tutto ciò che è oggettivabile appare in te. Chi svolge il ruolo di colui che vede, è la stessa fonte della creazione che svolge il ruolo di vedente. Avendo creato, egli stesso diventa colui che vede la creazione. E quindi è il vedente non-duale, è la vista non-duale che svolge il ruolo di vedente e, quindi, lo stesso che vede è la fonte di tutto.
Il quinto mantra ha parlato di suṣupti come uno dei tre stati, con parole come ghana–prajñā, ecc. Suṣupti vi è anche descritta come ‘origine della coscienza di veglia e di sogno’ (cetomukhaḥ). Un profano pensa che il sogno venga dopo la veglia e che suṣupti venga dopo il sogno, ma non è così; il sogno e la veglia vengono dopo suṣupti; suṣupti è il primo stato, suṣupti è seguita dal sogno e dalla veglia o dalla veglia e dal sogno. Prima che l’uomo nascesse era in suṣupti, poi si sveglia e per un po’ sta in veglia e per un po’ in sogno e poi torna a dormire. Non è che per un po’ vada a dormire e, poi, si svegli. No! Per capire il Vedānta si deve correggere tale idea.
Il pensiero nasce e si dissolve: la percezione della veglia nasce e si dissolve, la percezione del sogno nasce e si dissolve. È suṣupti che è seguita dalla percezione della veglia. Non è che per un po’ di tempo dormiamo e ci svegliamo. Questo è ciò che mantiene l’avidyā: pensiamo sempre che lo stato di veglia sia il nostro stato naturale e invece no: lo stato di veglia non è il nostro stato naturale. Uno stato di percezione non è mai uno stato naturale, il pensiero non è il nostro stato naturale; il nostro stato naturale è la libertà dal pensiero, questo è svarūpa avasthā. Quindi, suṣupti è seguita dal sogno e dalla veglia, la vita segue suṣupti. Anche l’idea di vita e di morte viene dopo suṣupti: la libertà dal pensiero di ‘essere’ è la nostra natura originale. Allo stesso modo il silenzio è lo stato naturale della creazione: la creazione non è lo stato naturale, la libertà dalla creazione è lo stato naturale. Infatti, il silenzio è lo stato naturale, il rumore non è lo stato naturale. Così, quando parliamo di causa del mondo (jagat kāraṇam), l’universo è oggettivato, ma l’origine dell’universo non può essere oggettivata. Se c’è qualcosa che non può essere oggettivato, quello è il proprio Sé. Se il sogno avviene all’interno di suṣupti, se la veglia avviene all’interno di suṣupti, ciò significa che entrambi avvengono nella presenza del Sé: in presenza appaiono e in presenza scompaiono.
Così Ātman è descritto nel sesto mantra come la causa del mondo (jagat kāraṇam), chiunque sia il vedente dell’universo ne è lui stesso l’origine. Se il Principio dell’universo fosse esterno, allora diventerebbe anch’esso parte della creazione. Tutto ciò che è oggettivabile è parte della creazione, e questo solleva un problema: ci si può perfino sentire a proprio agio pensando al Signore come origine. Ed è proprio questo è l’errore, perché l’errore può anche essere confortante. Quando vedi una ghirlanda [e non un serpente! (N.d.C.)] invece della corda pensi che è qualcosa di bello; o quando vedi una moneta d’argento invece della conchiglia di madreperla, ti senti molto felice per un momento. Ecco come un pensiero errato, sovrapposto alla Realtà, può rendervi felici perché è piacevole oggettivare, immaginare e anche avere molte aspettative da parte de Signore. “Bhagavān farà questo, di certo farà quest’altro…”. Come convinzione può essere molto confortante, ma è comunque un errore; è confortante solo finché non si diventa maturi. Una volta maturi, si vede al di là del velo della propria immaginazione e allora non è più confortante. Perciò, in questo senso il pensiero errato può essere confortante.
È scopo della śruti, in quanto valida prova di conoscenza oralmente trasmessa da un Guru (śābda pramāṇa), risalire dalla creazione al non creato, all’eterno. Qualsiasi cosa io veda è non-eterna, il processo di oggettivazione è non-eterno. Anche il processo di oggettivazione si dissolve proprio perché è non-eterno. Se il pensiero è non-eterno allora ogni oggettivazione è non-eterna; per questa ragione l’origine non può mai essere oggettivata. È, dunque, responsabilità della śruti indicare l’origine dell’universo, che è la presenza non-duale del soggetto. Non è suṣupti in quanto stato (avasthā) non manifesto. Noi la descriviamo come non manifesta dal punto di vista manifesto della veglia, ma, quando la sperimentiamo, è unicamente la propria presenza non-duale priva di oggetti. Non è uno stato di assenza (śūnyam) delle cose, è la propria presenza libera dalle cose. Non si può mai raggiungere l’assenza di Sé, non si può mai essere la propria assenza, non si può mai sperimentare la propria assenza, non si può mai essere la propria negazione. Perciò è molto, molto ingannevole pensare che sia uno stato di assenza. Perciò il sesto mantra parla dell’Ātman come causa del mondo (jagat kāraṇam).
Il primo pāda è Brahman come Virāṭ, il secondo pāda è Brahman come Hiraṇyagarbha, il terzo pāda è Īśvara, ossia Brahman come jagat kāraṇam, Brahman come causa. Il terzo pāda non è altro che la Realtà come fonte della creazione, ma anche la relazione Creatore-creato fa parte dell’errore: è la Realtà vista come Virāṭ, vista come Hiraṇyagarbha ed è insegnata come fonte, mentre è nirviśeṣam. Abbiamo esaminato anche le Kārikā che riguardano tutti questi sei mantra.
Il primo mantra dice “tutto questo è Oṃ”. La prima metà del secondo mantra dice “tutto questo è Brahman”, il che significa che c’è un mukhya ekatvam tra Oṃ e Brahman in quanto jagat kāraṇam. Ma il secondo mantra dice anche che Brahman, il nirviśeṣam che è Ātman, è catuṣpāda, ha quattro pāda. Il terzo mantra parla di cosciente dell’esterno (bahiṣprajña), con sette membra (saptāṅga), ecc. Il quarto mantra parla del secondo pāda in quanto Hiraṇyagarbha. Il quinto mantra parla di suṣupti come uno dei tre stati. Il sesto mantra ne parla in quanto terzo pāda. Il settimo mantra parla del caturtha pāda, cioè della Realtà (vastu).
Ora passiamo a una breve nota che precede il settimo mantra. Il quarto pāda deve essere spiegato. Il primo pāda è visto come Virāṭ, il secondo pāda come Hiraṇyagarbha, il terzo pāda come Brahman insegnato come causa. Quindi, per logica sequenza, la śruti dovrebbe di seguito parlare del quarto pāda.
Quando si parla dello svarūpa (la natura della Realtà) non si può parlare in termini affermativi, cioè in termini qualificativi come “l’albero è verde”; non si può descrivere la Realtà in termini qualificativi, in termini descrittivi. La natura della Realtà non può essere descritta in termini affermativi, qualificativi, descrittivi o in termini positivi. Ci si può riferire ad essa solo usando il ‘neti neti’ a scopo correttivo. Se si prende la corda per un serpente, l’insegnamento è “non è un serpente”. Se si prende l’incolore come fosse colorato, si deve dire “non è rosso”, “non è verde”, “non è giallo”: solo se è libero da tutti i colori, allora è incolore. Allo stesso modo la Realtà è descritta come libera da essere Virāṭ, è libera da essere Hiraṇyagarbha, è libera persino dall’essere la causa in quanto non è oggettivabile. La gente la chiama Caturtham, ma, invero, è la Realtà.
Questa è la ragione per cui il settimo mantra parla della natura della Realtà in termini correttivi. La Realtà non ha nulla in sé che possa giustificare il linguaggio; dove ci sono qualità si può usare il linguaggio per descrivere; ma come si fa a descrivere il silenzio? Esso è privo di rumore, è privo di dolore, non è una forma, non è un suono, non è gusto, non è tatto, non è odore: questo si chiama silenzio. Il silenzio può, quindi, essere sempre descritto in termini di neti neti; l’incolore può essere descritto solo in termini di neti neti. Questa è erroneamente chiamata descrizione, ma tutto il linguaggio che usiamo è solo un linguaggio correttivo. La Realtà non ha nulla che possa giustificare il linguaggio. L’illimitato non può essere un oggetto del linguaggio.
Allora perché usiamo il linguaggio? Usiamo il linguaggio per correggere il tuo errore, per dire che la Realtà non è ciò che pensi di essere. Ciò che pensi di essere non è: questo si chiama neti neti. Ciò che pensi di essere non è, come tutto ciò che pensi di essere in questo mondo, tutto ciò che pensi di essere in sogno, tutto ciò che pensi che non è in suṣupti. Tu sei libero da tutto questo. La śruti vuole insegnare la Realtà, il caturtham, solo per mezzo di termini correttivi; termine negativo significa termine che corregge, termine correttivo. Il Pūrvapakṣin obietta allora che, se caturtham è libero da tutto forse è il vuoto [dei buddhisti, śūnyam]; non è questo, non è questo e se la Realtà non è nessuna di queste cose, se è libera da tutto questo, tempo, spazio, forma, pensiero, elementi, se si dice che è libera da tutto questo può essere śūnyam, può essere il nulla. È qui che i sādhaka devono riflettere perché śūnyam può essere preso come libertà da tutto: anche la libertà dal pensiero in generale può essere presa come śūnyam.
Quando, però, in un cristallo non c’è nessun colore, non è śūnyam: è la presenza incolore del cristallo. Quando tutti i pensieri si placano, è la presenza di te stesso senza pensieri, la presenza di te che sei il pensante. Quando il pensiero si attenua anche la tua produzione di pensieri si attenua; e quando tale produzione si arresta, allora ciò che rimane sei solo tu, libero dal pensiero e libero dal produrre pensieri. Questo è il tu silenzioso, il tu non-duale, è solo la presenza silenziosa del tuo essere. Non è śūnyam: è il jīva che tende a pensare che quando tutti i pensieri si placano allora non c’è altro che śūnyam, che quando la memoria si placa c’è śūnyam, quando la produzione di pensieri si placa c’è śūnyam. Quando tutto si placa non c’è śūnyam, la libertà dal pensiero non è śūnyam.
Se la libertà dal pensiero non è śūnyam, allora tu non sei il vuoto, ma diventi la fonte del pensiero. Non sei qualificato dal pensiero, ma sei l’origine del pensiero. L’incolore non è qualificato dai colori, ma comprende tutti; tutti i colori sono percepiti nell’incolore quale strumento di percezione dei colori: i colori sono percepiti nell’incolore. La Realtà non è il vuoto, non è śūnyam, non è qualificata dal pensiero; ma ciò non significa che sia il nulla. Non è una forma, ma allo stesso tempo non è il nulla; non è un suono, non è il gusto né il tatto né l’odore: eppure non è il nulla. Non è un pensiero, eppure non è il nulla; non è un piacere o un dolore, eppure non è il nulla.
Il problema è la logica: ogni errore ha dietro di sé un fatto radicato in una realtà; ogni illusione ha una radice reale. “Io sono una forma” è un’illusione con cui vivo, tanto che sembra una realtà assoluta; dico che è reale, ma il ragionamento può demistificarne l’inganno. Che “io sia una forma” sembra vero ma il ragionamento può provare che è falso. Cosa dice il ragionamento? Che il vedente non può mai essere il visto; il vedente e il visto non possono essere una cosa sola, il vedente non può essere il visto, l’uditore del suono, colui che è consapevole del suono è diverso dal suono. Tuttavia, l’uomo non cerca di verificare, non usa la logica dello śāstra. Se la usasse, gli sarebbe d’aiuto, ma l’uomo usa sempre il ragionamento che qualsiasi cosa sembri reale deve essere accettata come tale; questa è la sua logica.
Per il profano, qualsiasi cosa sembri reale, è reale. La śruti dice di no: ciò che è illogico, anche se pensi che sia reale, è un’illusione che sembra reale. Colui che vede non può mai essere il veduto e, perciò, questa illusione “io sono una forma” è un’illusione che è radicata nella realtà che questo vedente è diverso dal veduto. La forma è il veduto; il vedente è diverso dal veduto. Il vedente è la realtà, mentre l’illusione è il veduto. Il serpente è un’illusione e ciò che è realtà è la corda, quindi tra la realtà e l’illusione c’è un enorme contrasto. Osservare tale contrasto è ciò che si chiama riflessione (manana). Vedere la differenza tra il soggetto e l’oggetto, vedere il contrasto tra il vedente e il veduto, vedere il contrasto tra il pensatore e il pensiero, vedere il contrasto tra il cosciente e l’inerte si chiama vicāra.
Il Siddhāntin dice al buddhista: “Caro buddhista, la vita per lo śūnyavādin è un’illusione. Anche per me è illusione; è un’illusione perché si basa sulla non riflessione. Se il cielo sembra incurvarsi, è un’illusione; se il cielo sembra avere un tetto è un’illusione e la realtà è che il cielo che non ha un tetto, lo spazio non ha un tetto e questo io la chiamo illusione. Ogni illusione non è radicata nel vuoto, l’illusione è radicata nella presenza della Realtà. Se si dichiara un’illusione, si deve indicare la realtà. Lo stesso vedente dell’illusione è la Realtà, perché il vedente dell’illusione sopravvive alla cancellazione dell’illusione. Come si fa a dimostrare che l’illusione è un’illusione se questa non è testimoniata dal vedente? Chi ha visto il sogno è lo stesso che ne vede l’annullamento. Quindi chi può dimostrare che il sogno non è eterno, che il sogno è falso, se non chi l’ha visto?
Il vedente è la prova della presenza e dell’assenza delle cose, è il Testimone. Il Testimone è usato quale prova (pramāṇam). Il vedente del sogno è la prova che il sogno è non-eterno, perché svegliandosi ne vede anche la sua cancellazione; il vedente dell’illusione vede anche la negazione dell’illusione. Pertanto, la Realtà che si cela dietro l’illusione è il suo stesso vedente. Tu lo chiami vuoto (śūnyam), io chiamo Ātman, il vedente (dṛṣṭṛ). Per vedere una moneta d’argento deve esserci una conchiglia; l’illusione della moneta d’argento è fondata nella conchiglia, l’illusione del serpente è radicata nella corda, l’illusione del bandito appostato è vista nel tronco: non esiste alcun vuoto. Non abbiamo alcuna prova che dietro un’illusione ci sia il vuoto; l’illusione non è radicata nel vuoto, l’illusione è radicata nella presenza di una realtà. Questa è la differenza fondamentale tra buddhismo e induismo.
I buddhisti non hanno alcuna verità da conoscere. Lo śābda pramāṇa non è qualcosa che si crede per fede. In questo mondo ogni religione è una credenza, ma il Vedānta non è una tra le diverse credenze: il Vedānta indica la Realtà. Dietro l’argento (rajatam) c’è la madreperla (śuktikā), dietro l’illusione del serpente c’è la corda, dietro l’illusione del brigante c’è un palo, dietro l’illusione del miraggio c’è la sabbia. Allo stesso modo dietro l’illusione “io sono questo corpo” c’è la verità che l’Ātman non è questo corpo (deha) e, in quanto non-corpo, l’Ātman è illimitato. Preso per deha sembra limitato, altrimenti come si potrebbe concepire la limitazione? L’illimitato non può mai essere limitato e, se sembra limitato, è un problema della mia percezione. Si dà il caso che ci sia una sola luna anche se a qualcuno sembra ci siano due lune perché ha qualche problema alla vista. L’unica luna non vuole sembrare due: il difetto è nella mia percezione, non nella verità.
Non si può nemmeno pensare a un’illusione senza che sia radicata nella Realtà; non si può parlare di un’illusione radicata nel vuoto. Prima di tutto non esiste alcuna cosa chiamata vuoto: vuoto è un pensiero e il pensiero non è vuoto. Noi riduciamo anche l’idea di vuoto a un pensiero, ma il pensiero non è vuoto, è un errore. Come la presenza di un oggetto è un pensiero, anche l’assenza di un oggetto è un pensiero. Ma dove si trova il vuoto? Quando si dice “mi sento vuoto”, questa sensazione non è il vuoto, presuppone la Realtà. Quindi non esiste una cosa chiamata śūnyam.
L’oppositore (Pūrvapakṣin) dice: “Se la Realtà è dietro tutte le illusioni, tutte le illusioni sono radicate nella Realtà. Tuttavia, se tutte le illusioni sono descrivibili con il linguaggio, anche la loro Realtà dovrebbe essere descrivibile col linguaggio. Infatti, lo śūnyam non ha identità, ma se tu dici che la Realtà è illimitata, ecc., allora ha una identità e, perciò dovrebbe essere definibile con il linguaggio. Se, dunque la Realtà ha la sua identità, perché dici che non è descrivibile con il linguaggio? In questo caso non si dovrebbe usare un linguaggio correttivo, ma un linguaggio affermativo. Proprio come quando si descrive un albero, che ha una sua identità, lo si descrive nel linguaggio come alto, verde e con altri aggettivi”.
Ma il Siddhāntin ha detto che è una presenza senza attributi fisici, senza attributi materiali; e, senza gli attributi materiali non si può usare il linguaggio.
Gli attributi materiali sono, per esempio, specie (jāti), qualità (guṇa), attività (kriyā), relazioni (sambandha), attributi anatomici, fisiologici, emotivi. La Realtà è, ma è libera da attributi materiali. Come il cristallo incolore non è vuoto ma è libero dai colori, allo stesso modo la tua esistenza è lì libera da tutti gli attributi materiali. La corda è libera dagli attributi del serpente: la corda non è śūnyam, ha la sua identità, ma è libera dagli attributi del serpente. Allo stesso modo l’Ātman è l’origine della materia ma è libero dagli attributi materiali. Il linguaggio è utile solo per descrivere qualcosa con attributi materiali, ma l’Ātman non ha attributi materiali.
La Realtà in cui è radicata l’illusione non può avere gli attributi dell’illusione. L’illusione presuppone la Realtà perché si può avere un’illusione solo sulla Realtà. L’illusione non è una categoria specifica (jāti): qualsiasi fraintendimento della Realtà è chiamato illusione. L’illusione non è una specie, come le vacche, le tigri, l’umanità. L’illusione non rientra in una specie; una concezione errata della Realtà si chiama illusione; la mia percezione distorta della realtà si chiama illusione e l’illusione ha alcuni attributi, attributi illusori. Vedo un uomo invece di un tronco e, quando lo vedo, vedo anche alcune sue caratteristiche, che si nasconde, che è un bandito, che vuole assalirmi; tutti attributi che non appartengono al tronco. Quando sono intrappolato in un’illusione, il mio pensiero è disordinato. Tutto questo mondo materiale è un’illusione, è una percezione illusoria ed è radicata nella Realtà che non è qualificata dagli attributi dell’illusione.
Gli attributi dell’illusione non diventano gli attributi della Realtà e, quindi, non si può usare la conchiglia di madreperla come una moneta d’argento. Tra la verità e l’errore non c’è contatto, uno è, l’altro è solo visto come fosse. Asat non è una specie, è una percezione errata di Sat; un’illusione è una percezione distorta della Realtà. Quindi tra Sat e asat non c’è contatto, è solo una mia percezione. Ciò che è puramente mia percezione, un semplice pensiero, non può qualificare il Fatto. Il sogno è un pensiero; colui che lo vede è il Fatto e tra il vedente del sogno e il sogno veduto non c’è alcun contatto reale.
L’identità cosciente è: il sognato è solo sognato essere. Il serpente è solo visto essere, mentre la corda è. Tra ciò che è e ciò che si vede soltanto essere, non c’è contatto; l’uno è un’illusione, l’altro è un Fatto; uno è una percezione e l’altro è un Fatto. Il nostro essere illimitati è un Fatto, che io sia un deha è solo veduto. “Io sono deha” è solo veduto e ciò che è veduto non è verificato se sia vero o meno. Io continuo a vivere la mia percezione, continuo a vivere le mie opinion che non controllo. La śruti dice che è meglio verificare, guardare molto attentamente, esaminare le proprie percezioni.
- Il quinto kośa della Taittirīya Upaniṣad (II.8.5); ānandamaya kośa, ‘fatto di beatitudine’, nel quinto mantra della MU è definito ānandabhuk, ‘fruitore di beatitudine’, ovvero coscienza che gode dei meriti acquisiti con l’azione [N.d.C.].[↩]
- Coscienza omogenea. Nella śruti si trova nella forma prajñānaghana, massa omogenea di coscienza [N.d.C.].[↩]