La Bhāvana Upaniṣad

Testo e Commento

8. La conoscenza è il rispettoso ricevere; l’oggetto della conoscenza è l’oblazione; e il soggetto che conosce è colui che si offre in oblazione. La contemplazione della non differenziazione tra Conoscente, Conoscenza e Conosciuto (con il proprio Sé) è l’adorazione offerta allo Śrī Cakra.

Queste affermazioni terminano la parte introduttiva del testo upaniṣadico. L’adorazione dello Śrī Cakra (Śrī Cakra pūjanam), la cui principale caratteristica è la meditazione concentrata (upāsanā), prende tre forme:

  1. L’adorazione rituale dello yantra, che è la rappresentazione visiva della Devī, tracciato impiegando materiali e vari processi di consacrazione (yantra pūjā);
  2. La ripetizione metodica del mantra pañcadaśī o śoḍaṣī, che sono la forma verbale della Dea (mantra japa);
  3. La meditazione (bhāvanā) sul simbolismo dello yantra e del mantra.

Il simbolismo stesso è di tre forme, com’è descritto nello Yoginīhṛdaya incluso nel Vāmakeśvara Tantra, uno dei testi base di Śrī Vidyā:

  1. Simbolismo della rappresentazione diagrammatica (cakra saṅketa);
  2. Simbolismo del mantra (mantra saṅketa);
  3. Simbolismo del rito d’adorazione (pūjā saṅketa).

Come evidenzia il commento (Setubandha), l’idea che il simbolismo geometrico suggerisce è la forma segreta (rahasya rūpam) della Dea. Il senso simbolico dello Śrī Cakra rappresenta dunque questa forma segreta, in cui è raffigurata la collocazione delle differenti potenze (śakti samūha) che agiscono sul triplice processo fenomenico: manifestazione, conservazione e riassorbimento. Il mantra di Śrī Vidyā è un’altra forma segreta della Devī che indica che la principiale potenza è il suono, identificato come kuṇḍalinī, presente in tutti gli esseri viventi. Il mantra non soltanto rappresenta la Devī, ma la rivela al devoto effettivamente. Infine, anche il rituale d’adorazione è una forma segreta che congiunge le corrispondenze simboliche tra i principi graficamente rappresentati nello yantra alle vibrazioni del mantra, identificando così il devoto stesso alla Devī. Il segreto aspetto dell’adorazione è rivelato nell’aforisma tantrico: “La beatitudine è la forma del Brahman in corrispondenza con la forma del corpo” (Ānandam Brahmano rūpam tacca dehe vyavasthitam).

Il testo upaniṣadico descrive il processo segreto di adorazione che implica la comprensione dell’analogia tra gli aspetti macrocosmici e quelli microcosmici della potenza della Dea. La maggior parte dell’opera spiega le coincidenze dei singoli dettagli dello Śrī Cakra, in quanto disegno visibile, con i principi corrispondenti della costituzione sia dell’universo sia dell’individuo. La parte introduttiva, contenuta negli śloka precedenti, definisce il simbolismo del rito d’adorazione (pūjā saṅketa).

Di solito, il rituale di adorazione implica la dualità tra chi adora (pūjaka) e l’oggetto dell’adorazione (pūjya). Chi adora è l’iniziato dotato della potenza di conoscere (jñāna śakti), della potenza di volontà (icchā śakti) e di quella di celebrare i riti (kriyā śakti). Poiché la meditazione sul simbolo sostituisce i riti e richiede volontà, qui diventa importante solo l’aspetto conoscitivo. Questo è il motivo per cui chi adora è definito conoscitore (jñātā), vale a dire colui che ha il potere di comprendere il simbolismo dell’oggetto d’adorazione. L’oggetto di adorazione (jñeya) è, ovviamente, lo Śrī Cakra, che è, allo stesso tempo, un disegno (yantra) e un mantra. La relazione tra i due è il processo reso effettivo dall’atto di adorazione (pūjā), cioè dalla meditazione sul simbolo o contemplazione (bhāvanā).

Il simbolismo su cui meditare è l’idea centrale di questi vākya. Il rito, generalmente, ha una terza modalità, che s’aggiunge al soggetto meditante e all’oggetto meditato, ed è lo svolgimento stesso del processo della meditazione, definito qui, con espressione criptica, ‘rispettosa accoglienza’ (arghya). Questa ‘accoglienza’ dà il benvenuto all’emergere della comprensione del simbolo, che costituisce l’argomento dell’Upaniṣad. Infatti la parola ‘arghya’ (dalla radice arh) in generale significa l’acqua che è rispettosamente offerta in segno di benvenuto quando arriva un ospite onorevole. Il suo significato etimologico, tuttavia, indica qualcosa che è prezioso, una cosa di valore (arghyate pūjyate pūjana yogyam). Ciò che è usato qui nella meditazione è propriamente la conoscenza del simbolo (lakṣaṇa jñāna); per questo tale rito è solo mentale ed esime completamente dall’utilizzo di mezzi materiali di adorazione come pure da rituali esteriori.

Il termine havis in generale indica qualsiasi oblazione, come latte, burro chiarificato (ghṛtam, ghī), cereali o altro, che viene versata a fine propiziatorio nel fuoco consacrato che simboleggia la divinità. Sta a rappresentare una qualunque offerta in una oblazione nel corso di un sacrificio esteriore (bahiḥ sthitam). Ma in questo caso, l’offerta di oblazione nel fuoco sacrificale è interiore e consiste nell’attenzione rivolta al simbolo dello Śrī Cakra, ovvero dell’oggetto della conoscenza (jñeya).

Nei riti sacrificali esteriori, il termine hotā (hotṛ) indica la persona che versa letteralmente l’offerta nel fuoco (juhoti). Invece, in questo caso, hotā è riferito all’iniziato tāntrika che sta meditando sul simbolismo dello Śrī Cakra. Con hotā, in questo caso si intende il Sé-soggetto (Ātma viṣayin) del meditante che, nella triade adorante, adorato e adorazione (pūjaka, pūjya, pūjā), è colui che adora (pūjaka).

Mentre il testo upaniṣadico non menziona lo Śrī Cakra quale oggetto d’indagine (jñeya) o di meditazione (pūjya), il Tantrarāja Tantra (35.6), dal quale tali affermazioni sono state tratte, si riferisce palesemente allo Śrī Cakra in quanto oggetto di conoscenza come supporto esterno alla meditazione di colui che conosce (jñātṛ).

Ci si può chiedere come mai il testo upaniṣadico abbia omesso di menzionare lo yantra quale oggetto della meditazione. Il testo tantrico non segue dettagliatamente il procedimento del rituale sacrificale come, invece, fa l’Upaniṣad; infatti neppure utilizza i termini haviḥ e hotā, cari alle regole sacrificali vediche. Usa il termine arghya in senso più ampio, come s’è detto sopra. La cosa interessante è che riduce il mondo della relazione (vyavahāra) in tre categorie di base, vale a dire il soggetto meditante, l’oggetto meditato e la meditazione che unisce i due. In questo modo questi tre aspetti possono dirsi unificati nella meditazione. Il meditante è il soggetto, l’iniziato; Śrī Cakra è l’oggetto su cui meditare e l’identificazione dell’oggetto con il soggetto è il reale atto meditativo del rituale di meditazione (pūjana). Il testo upaniṣadico, tuttavia, aggiunge il concetto della identificazione dell’offerente (hotṛ) con l’offerta (hota), con la stessa oblazione (arghya) cioé con la vittima del sacrificio (havih). La presenza della divinità a cui il sacrificio è offerto è implicita. La divinità è rappresentata dal fuoco, tuttavia, nella prospettiva sacrificale upaniṣadica non può essere considerata esattamente come oggetto delle oblazioni.

L’idea di non differenziazione (abheda bhāvanā) del soggetto meditante (upāsaka), dell’oggetto meditato (upāsya) e della meditazione (upāsanā) non vuol dire che ci sia identità tra i tre elementi in relazione tra loro, ma che ciascuno di essi è identico al Sé del sādhaka. Il testo cerca di porre in rilievo che lo Śrī Cakra è realmente il corpo di ognuno di noi, per cui ogni dettaglio può essere identificato nel nostro aggregato grossolano: la stessa comprensione di tali corrispondenze è identificata alla nostra mente. La Dea che regna sul disegno chiamato Śrī Cakra è realmente la pura coscienza, l’energia potenziale e l’incondizionata volontà, ed essa costituisce la trama che fa da sostrato alla nostra esistenza. Le tre potenze, coscienza, energia e volontà, sono sue manifestazioni poiché regge il centro del nostro intero essere.

9. Gli stati emotivi come l’amore ecc., con i loro limiti normali, hanno l’obiettivo di ottenere poteri come quello di diventare di dimensioni minuscole a volontà ecc. Il desiderio, l’ira, l’avidità, l’illusione, l’orgoglio, l’invidia, il merito e il demerito sono le otto potenze chiamate Brāhmī ecc. I nove cakra nel corpo sono le potenze dotate del sigillo dell’autorità.

Il primo recinto: l’Illusione del Trimundio (Trailokya Mohana).
Con questo śloka inizia l’esame dettagliato dei nove circuiti dello Śrī Cakra. Il primo recinto è il riquadro che incornicia l’intero disegno. Il quadrato è formato da tre linee che circondano lo Śrī Cakra in tutte e quattro le direzioni, con quattro portali (toraṇa), uno per ogni lato. Per la tradizione Dakṣiṇāmūrti questo recinto è il punto di partenza nel processo di riassorbimento (saṃhāra krama). Tale ritrazione avviene dal recinto più esterno verso l’interno, fino a raggiungere il punto centrale (bindu). Questo ordine che va dalla periferia in direzione del centro si trova sia nel testo dell’Upaniṣad sia nel Tantrarāja Tantra (35.7-13).

I. La prima linea che recinge questo quadrato, quella più esterna che circonda tutto, è identificata con i più esteriori e superficiali risultati dello Yoga chiamati siddhi. Si tratta di poteri paranormali acquisiti dal sādhaka, come, per esempio, quello di assumere dimensioni corporee minuscole (aṇimā), e altre che ora elencheremo. Questi risultati sono la conseguenza del controllo esercitato dal sādhaka sugli elementi grossi (sthūla saṃyama)1 e sono descritti come i diversi poteri divini (aiśvarya) per dominare le forze degli elementi. Di solito, nei testi yogici sono elencate otto siddhi:

  1. Aṇimā, la siddhi di diventare piccolo come un atomo;
  2. Laghimā, il potere di diventare estremamente leggero, tanto da fluttuare nell’aria come una piuma;
  3. Mahimā, la capacità di gonfiarsi e di ingrandirsi fino a raggiungere le dimensioni di un elefante, di una montagna, o d’un regno;
  4. īśitva, il potere di governare su tutto e di cambiare le regole a proprio piacimento;
  5. Vaśitva, la siddhi di dominare su tutti gli esseri sia senzienti sia insenzienti;
  6. Prāpti, la facoltà di allungarsi tanto da poter toccare anche la luna con un dito;
  7. Prākāmya, il dono di poter esaudire qualsiasi desiderio;
  8. Yatra kāmāvasāyitva, il potere di soddisfare la propria volontà2.

I testi tantrici accettano le otto siddhi del pātañjala yoga anche se chiamano l’ultima siddhi icchā. Tuttavia ne aggiungono altre due:

  1. Bhukti, il potere di fruizione dei risultati raggiunti;
  2. Sarvakāma siddhi, il potere di esaudire tutto ciò che si è desiderato ardentemente per poi non doverlo più desiderare.

Il potere chiamato prākāmya nello Yoga darśana e il sarvakāma del Tantra appaiono molto simili tra loro, tanto da sembrare un inutile duplicato per la sādhanā tantrica. Ma l’interpretazione tantrica di prākāmya si limita al potere di realizzare qualsiasi brama che, quindi, non comprende il suo superamento e la rinuncia al desiderio (sarva kāma saṃnyāsa).

Il luogo dove si ottiene il potere aṇimā è nel portale orientale, laghimā nel portale occidentale, mahimā in quello meridionale, īśitva nel settentrionale, vaśitva nell’angolo di sud-est, prākāmya nell’angolo di sud-ovest, bhukti nell’angolo nord-occidentale e icchā in quello nord orientale; degli altri due poteri da raggiungere, prāpti è localizzato lungo la linea est muovendo verso l’angolo settentrionale, e sarvakāma siddhi lungo la linea ovest diretta verso l’angolo sud. Ognuna di queste localizzazioni è vista come una divinità femminile, a partire dalla prima che è chiamata aṇimā siddhyaṃbā e così analogamente per le altre.

Ciò che questi dieci poteri simboleggiano è descritto per mezzo dei nove rasa, stati emotivi o sentimenti, a cui s’aggiunge niyati come decimo. L’espressione niyati richiede qualche spiegazione: significa coercizione o ciò da cui si è costretti (niyam yate anayā) e suggerisce l’idea delle forze che sono fuori del controllo dell’uomo; può essere resa con il fato, che determina la buona o la cattiva sorte (bhāgya) di ognuno. Bhāskararāya dà a questa parola lo stesso significato di prārabdha karma, ossia le azioni compiute in esistenze passate che hanno già incominciato a produrre il loro frutto in questa vita. In altri termini, sono le costrizioni con cui ogni individuo nasce. Manoramā3 rende niyati dandogli il senso di quel potere che dipende dalla costituzione naturale (niyati siddhyā śaktyā saha) di ciascuno. Entrambi i commentatori hanno sorvolato sul fatto che niyati fa parte del pensiero tantrico, e che è descritto come una camicia stretta (kañcuka), una forza limitante e coercitiva proiettata dalla māyā, in contrasto con la potenza onnipervasiva della beatitudine.

I nove stati emozionali o sentimenti sono:

  1. śṛñgāra, l’amore;
  2. vīra, il coraggio;
  3. karuṇā, la compassione;
  4. hāsya il divertimento;
  5. bībhatsa il disgusto;
  1. raudra, l’ira;
  2. bhayānaka, la paura;
  3. adbhuta, la meraviglia;
  4. śānta, la tranquillità.

Aggiungendo niyati, divengono dieci. Essi sono fatti corrispondere alle summenzionate dieci siddhi da raggiungere con la pratica (prakriyā).

Bhāskararāya nel suo Nyāsa abbina le siddhi e i rasa nel seguente modo: aṇimā con śānta, laghimā con adbhuta, mahimā con karuṇā, īśitva con vīra, vaśitva con hāsya, prākāmya con bībhatsa, bhukti con raudra, icchā con bhayānaka, śṛṅgāra e sarvakāma siddhi con niyati.

II. Il Tantrarāja Tantra (4.68-69) identifica la seconda linea, quella mediana, che racchiude il quadrato, con le otto śakti madri (mātṛkā). I Purāṇa fanno risalire l’origine di queste divinità femminili all’irraggiamento delle potenze dei sette eroici Deva che si erano riuniti per aiutare la Dea nella lotta contro i demoni. Da Brahmā emerse Brāhmī o Brāhmaṇī, che rappresenta la potenza dell’immensità, dell’espansione e dell’essere. Da Maheśvara spuntò fuori Māheśvarī o Īśanī, la potenza di dominare su tutto. Da Kārtikeya o Kumāra uscì Kārttikeyī o Kaumāri-Māyurī, la potenza della giovinezza. Da Viṣṇu emerse Vaiṣṇavī, la potenza di pervadere e di sostenere tutte le cose. Da Varāha, l’avatāra di Viṣṇu in forma di cinghiale, sorse Vārāhī, la potenza di liberare e di proteggere. Da Indra venne fuori Indrāṇī, la potenza dell’abbondanza e della forza. Da Yama fu emanata Yamī, la śakti dell’ordine e del riassorbimento. Il Varāha Purāṇa aggiunge alla lista precedente un’ottava mātṛkā, Māhendrī.

Anche il testo di Śrī Vidyā intitolato Bahurūpāṣṭaka, parla di otto śakti madri, ma sostituisce Māhendrī con Śivadūti. Di solito, tuttavia, se ne enumerano solo sette, sostituendo, però, Cāmuṇḍā a Yamī. Sei mātṛkā hanno la loro controparte maschile, mentre Cāmuṇḍā ne è priva, in quanto sarebbe sorta direttamente dal corpo della Devī stessa, allorché scoprì che, pur usando assieme la potenza di sei Deva, non riusciva a vincere i demoni. Nei testi tantrici è spesso aggiunta come ottava śakti Mahālakṣmī, altra forma di Vaiṣṇavī.

Abbiamo già accennato che le sette mātṛkā rappresentano le sette vocali, dalle quali hanno origine tutti i mantra e tutte le parole; esse ricoprono il ruolo materno (matāiva) che, del resto, è anche il significato di mātṛkā. Il Kāśikā di Nandikeśvara e il Tattva Vimarśinīdi di Upamanyu declinano l’esatta produzione principiale dei sette suoni vocalici seminali contenuti nel Māheśvara Sūtra, nel seguente ordine: cinque vocali pure, a, i, u, , , più le due vocali composte e, o.

Il simbolismo delle otto śakti madri che aiutarono la grande Devī nella sua lotta contro i demoni è stato accuratamente espresso nei Purāṇa. Il loro simbolismo corrisponde, in negativo, alle otto malvagie disposizioni dell’essere umano, che corrompono la natura umana e ostacolano la luce del puro spirito, come accade nella vita quotidiana. Anche i testi upaniṣadici nominano sei categorie di attitudini negative: lussuria (kāma), ira (krodha), avidità (lobha), illusione (moha), orgoglio (madā) e invidia (mātsarya), a cui si aggiungono demerito (pāpa) e merito (puṇya). Le due ultime, per la verità, non riguardano le inclinazioni negative, quanto piuttosto i risultati che si raggiungono perseguendole o reprimendole. Il Tantrarāja Tantra (35.7) menziona queste inclinazioni negative come sette ‘ondate’(ūrmi) o impulsi (pravarta) e, in più, aggiunge il merito e il demerito.

Tradizionalmente con ‘ondate’ s’intendono gli attacchi che si subiscono da parte della fame e della sete, del timore dell’invecchiamento e della morte, del dolore e dell’illusione. Per questa ragione Bhāskararāya rifiuta di dare il senso di inclinazione negativa al termine ūrmi, in quanto contrario all’uso tradizionale; tuttavia è proprio il commentario al Tantrarāja Tantra a suggerire tale interpretazione. Egli, però, osserva correttamente che merito (puṇya) e demerito (pāpa) sono due tipi di azioni (karmāni) che sopraggiungono all’essere come risultato di tali impulsi.

In ogni caso, l’abbinamento tra i vizi elencati nei Purāṇa e le divinità tantriche a loro opposte è quello che segue: lussuria (kāma), Yogīśvarī; ira (krodha), Māheśvarī; avidità (lobha), Vaiṣṇavī; superbia (madā), Brahmāṇī; illusione (moha), Kaumārī; invidia (mātsarya), Indrāṇī; calunnia (paiśunya), Yamī; gelosia (anusūyā), Vārāhī. Nella letteratura tantrica tarda, le sette mātṛkā sono presenti per essere adorate soprattutto allo scopo di reprimere le tendenze negative dell’iniziato, in quanto le sei tendenze (ṣadvarga) sono d’ostacolo alla pratica dello yoga. In questo periodo, che facciamo coincidere con il XVIII secolo, generalmente Brāhmī era identificata con il desiderio primordiale di manifestazione (kāma); Māheśvarī con le brame giovanili di vivere e di godere (lobha); Vaiṣṇavī con il potere di affascinare e di illudere (moha); Vārāhī con l’orgoglio e l’arroganza (madā); Indrāṇī con la gelosia e l’invidia (mātsarya); Cāmuṇḍā con l’incitamento a peccare (pāpa) e con il desiderio di far soffrire gli altri attraverso la magia nera (abhicāra); e Mahālakṣmī con le inclinazioni benevole (puṇya). Il Tantrarāja Tantra (36.15-16) spiega che puṇya è il comportamento dell’uomo mosso dalla saggezza mentre pāpa è conseguenza dell’illusione.

Si trova anche una identificazione delle otto mātṛkā con gli otto costituenti del corpo, perché in questo recinto sono visibili (prakaṭa) le loro divinità attendenti (yoginī). Le mātṛkā, quindi, sono viste in forma grossa (sthūla ākāra) come yoginī. Gli otto costituenti del corpo sono presieduti dalla potenza delle otto divinità: la pelle da Brāhmī, il sangue da Māheśvarī, i muscoli da Kaumārī, il grasso da Vaiṣṇavī, il midollo osseo da Indrāṇī, il seme da Cāmuṇḍā, la forza (ojas) da Mahālakṣmī. Sono localizzate rispettivamente in mezzo alle sopracciglia, sul petto, sull’ombelico, sull’orecchio, sul viso, sul naso e sulla fronte.

III. La terza linea più interna che delimita il quadrato è identificata con le dieci divinità denominate mudrā. L’espressione mudrā originariamente significava sigillo d’autorità, distintivo, segno di riconoscimento di una carica. Più tardi ha acquisito un altro senso per designare certi gesti della mano usati per esprimere emozioni (rasa). In contesto tantrico la parola significa un modo accattivante per avvicinarsi alle divinità. Le mudrā possono essere di tre tipi: grossa (sthūla), come le posture del corpo e i gesti delle dita; sottile (sūkṣma), composta da precise e potenti sillabe seminali (akṣarātmakāḥ); sottilissima (parā), che consiste nella purificazione della mente per ottenere la conoscenza della Realtà (vāsanātmaka). Le quattro armi che la forma umana della Devī porta in mano, arco, freccia, cappio e pungolo per elefanti, sono le mudrā del primo tipo. Le nove sillabe seme (dram, drīm, klīm, blūm, saḥ, kraum, hskhphrem, hsaum e aim) sono le mudrā che riguardano la modalità sottile. Le mudrā sottilissime comportano solo la purezza della mente. Ciascuna delle tre categorie di mudrā presiede a una delle tre linee delimitanti il primo recinto, a partire dalla più esterna.

Il Tantrarāja Tantra (4.23-25) elenca venti mudrā comunemente usate, cinque delle quali sono utilizzate nei rituali di adorazione (āvāhanī, ecc.), mentre quattro di esse sono simboliche.

I nove poteri rappresentati da queste mudrā (mudrā śakti) sono: Samkṣobhinī (la potenza che turba), Vidrāviṇī (la potenza che respinge), Ākarṣinī (la potenza che affascina), Vaśikaraṇī (la potenza soggiogante), Unmādini (la potenza che fa impazzire), Mahāṅkuśā (la potenza che stimola), Khecarī (la potenza che si muove nel vuoto), Bījā (la potenza che è la sorgente) e Yonī (la potenza che procrea). A questo gruppo è aggiunta Trikhaṇḍinī (o Trikhaṇḍikā) la potenza che divide tutti i molteplici fenomeni separati in tre singole unità, ossia in conoscitore, conoscenza e conosciuto; è anche chiamata śaktyutthāpinī, la śakti che fa sorgere e mantiene la potenza del sādhaka. Quest’ultima è la mudrā usata per invocare la Devī, Lalitā.

La nove potenze sopra elencate sono identiche ai nove cakra del corpo: si tratta dei già noti sei centri sottili, mūlādhāra, svādhiṣṭāna, maṇipūra, anāhata, viśuddha e ājñā; oltre a questi s’aggiungono i due loti dai mille petali (sahasradala kamala), quello sul culmine della testa, l’altro alla base, sotto al mūlādhāra. Il nono cakra è situato sulla punta della lingua (laṃbikāgra). La totalità (samaṣṭi) di tutte queste potenze costituisce la decima śakti, Trikhaṇḍikā, colei che divide in tre.

Alcuni hanno osservato che le dieci mudrā śakti, come pure la loro corrispondenza con i dieci cakra, non sono state menzionate nel Tantrarājā Tantra. Questo testo nemmeno menziona le dieci potenze corrispondenti alla terza linea di recinzione del quadrato. Dopo le dieci mātṛka, questo scritto (4.71) prosegue a trattare direttamente del simbolismo del secondo recinto (4.72-72).

Il primo recinto, si diceva, consiste dei tre gruppi di divinità denominati siddhi, mātṛkā e mudrā. È chiamato Trailokya mohana, l’illusorietà del trimundio, in cui tre mondi si riferiscono a tre piani di esperienza: attaccamenti, ostacoli e poteri. Tutti e tre i loka sono confinati nell’aggregato corpo-mente nella sua ordinaria relazione con il mondo circostante. Si cerca di propiziarseli affinché l’iniziato possa essere protetto dal pericolo di procedere in modo sbagliato o di fallire nel suo sforzo.

La rappresentazione iconografica delle divinità di questi tre livelli più esteriori è sovraccarica di simboli. Le siddhi sul primo livello, che sono di colore rosso e coronate dalla luna, portano nella mano destra tutti i gioielli che esaudiscono i desideri (cintāmaṇi). Le mātṛkā sono blu scure, indossano abiti rossi e portano in mano un loto rosso e una coppa colma di nettare (amṛta). Le mudrā sono di un colore che ricorda il sole del mattino, e nelle due mani portano un cappio e un pungolo per elefanti.

  1. Patañjali, Yoga Sūtra, III.44.[]
  2. Patañjali, Yoga Sūtra Vyāsa Bhāṣya III.44.[]
  3. Così è spesso chiamato, dal nome del suo autore, un commento agli Yoga Sūtra intitolato Siddhāntakaumudī.[]