Śrī Śrī Svāmī Ātmānandendra Sarasvatī Mahārāja
1. Karma e karma yoga nell’insegnamento della Bhagavad Gītā
a cura di Maitreyī
Karma Kāṇḍa
1. Karma
Al fine di diventare qualificati per accedere alla via del Jñāna oppure a quella dello Yoga, si devono sviluppare alcune virtù di base, senza le quali la mente, impegnata in attività del mondo esterno, non sarà capace di rivolgersi alle scritture né si libererà dalla sua natura egocentrica. Secondo le scritture, per sostenere la nostra esistenza si deve attingere energia da tre fonti: 1. da noi stessi, 2. dalla nostra società e 3. dal Signore. Se viviamo senza ripagare i nostri debiti per queste tre energie di sostegno, non si equilibrerà il ciclo dell’universo e questo non funzionerà correttamente. Il Signore ha dichiarato che una vita del genere è sprecata, rubata e colpevole (BhG III.12-13; III.16). Per saldare questo debito, si devono compiere tre azioni.
Il primo debito è ripagato con l’esecuzione del tapas, le austerità. Lo scopo del compimento delle austerità è quello di ripristinare le energie che abbiamo attinto dal nostro io (BhG XVII.14-19). Lo scopo del tapas, della moderazione nel cibo, della solitudine, del silenzio, del controllo dei sensi e della mente, è quello di ripristinare ciò che abbiamo sperperato del nostro ego (svārtha), ciò che è stato fatto a vantaggio del proprio ‘mio’ e quelle attività che sono compiute in favore del proprio ‘io’.
Il secondo debito è ripagato con l’elemosina (dāna). Fare elemosina ai bisognosi e ai meritevoli, al momento opportuno, con l’intenzione che ciò che viene dato è del Signore che deve essere reso, è ciò che si chiama pagamento del debito verso la società (parārtha), ciò che viene fatto per il bene della società. L’elemosina va distinta dalla dakṣinā, che si riferisce a ciò che deve essere dato al sacerdote officiante di uno yajña (BhG XVII.13). In questo caso, il sacerdote vende effettivamente il suo sforzo, dato che il risultato di tale sforzo non andrà a lui, bensì allo yajamāna, colui che ha dato la dakṣinā, il pagamento per il sacrificio.
Il terzo debito è ripagato attraverso l’esecuzione di sacrifici (yajña). Nella Gītā la parola sacrificio ha una connotazione molto più ampia di quella che indica semplicemente i rituali vedici come il sacrificio del fuoco (agni hotra) ecc. La Gītā ha esteso il significato di questa parola per indicare “il compimento di tutte le azioni come adorazione [meditazione] del Signore, offrendole completamente a Lui, in modo che non diventino un’ulteriore fonte di schiavitù” (BhG III-9; V.10; XVIII.46). Le Scritture dichiarano: “In verità, lo yajña è Viṣṇu”. L’esecuzione del karma ha questo senso: è l’offerta dei suoi frutti al Signore, alla Realtà e Coscienza Suprema che pervade l’intero universo (Viṣṇu significa ciò che pervade tutto) manifestandosi come universo. Tale oblazione, fatta per amore del Supremo, ricompenserà ciò che attingiamo da Lui.
Oltre alla restituzione di questi tre debiti, ci sono anche altre virtù da sviluppare, come il controllo dei sensi (dama) e lo studio delle scritture (svadhyāya), essenziali per ottenere il pieno beneficio delle attività summenzionate: sacrificio, dono e austerità. Senza il controllo dei sensi le azioni saranno rājasa o tāmasa, che potenzieranno le qualità demoniache (āsurī vṛtti), quelle che conducono nella direzione sbagliata. È anche evidente che se i sensi non sono sotto controllo, l’esecuzione efficace e corretta del karma, in conformità con le regole scritturali, diventa impossibile. Poiché solo le Scritture rappresentano l’autorità decisiva per accertare ciò che è opportuno fare e ciò che non è opportuno fare (dharma e adharma), il loro studio costante è essenziale affinché si intraprenda il karma giusto e nel modo appropriato (BhG XVI.24). La necessità di coltivare virtù quali la rettitudine e la semplicità (ārjavam), in modo da non essere eccessivamente egocentrici, non richiede particolare fatica. Tutte queste summenzionate virtù sono necessarie per distogliere la mente dal mondo e indirizzarla verso il Signore, in modo da far maturare le qualità divine (daivī vṛtti) che avviano verso l’illuminazione. Non deve essere, tuttavia, sopravalutata l’utilità di queste virtù per condurre una vita sana e utile anche dal punto di vista pratico.
Mentre lo sviluppo di queste virtù divine è senza dubbio necessario, è ugualmente importante, forse ancor di più, che le qualità asuriche (āsurī vṛtti) siano eliminate poiché sono loro che costituiscono gli ostacoli che ci impediscono di migliorare noi stessi e di procedere sul retto sentiero. Mentre le virtù divine aiutano a sbarazzarci del nostro attaccamento al corpo, ai sensi, alla mente e all’ego, le qualità asuriche rafforzano il nostro attaccamento al corpo, ai sensi, alla mente e all’ego. In altre parole, le qualità negative sono state chiamate asuriche perché in realtà rafforzano i nostri sentimenti di identificazione con ciò che non siamo. La necessità di sradicare queste qualità negative, in modo da dirigersi verso la Liberazione, è chiaramente evidenziata nel verso XV.5 della Gītā. Non solo queste qualità asuriche trascinano una persona verso l’inferno, ma anche quando alla fine rinascerà, otterrà nascite sempre più basse. Questo esito è anche conseguenza dell’odio verso il Signore, com’è indicato in BhG XVI.18-20. È essenziale ricordare che l’origine di tutte queste qualità avverse risiede nel desiderio, nell’ira e nell’avidità, che si dice siano le tre porte dell’inferno (BhG XVI.21). Coloro che si sforzano di evitare queste tre qualità negative stanno effettivamente lavorando per il proprio benessere e quindi in futuro otterranno nascite migliori (BhG XVI.22). Le tre qualità negative (desiderio, ira e avidità) possono in ultima analisi essere ridotte alla radice del problema, vale a dire al solo desiderio (kāma), perché è quello che spinge la mente a rivolgersi verso l’esterno (BhG III.37). Si dice che il desiderio è d’ostacolo sia alla conoscenza sia all’intuizione ed è ciò che costituisce il vero nemico per ogni cercatore della verità (BhG III.43). Il Signore ha esaminato con cura e in dettaglio queste qualità negative, che sono predominanti nella maggior parte di noi. La descrizione di queste qualità asuriche sembra fatta su misura per descrivere le condizioni attualmente prevalenti nel mondo. Ricordando che è molto più facile deviare verso le vie del male piuttosto che percorrere il sentiero delle nobili virtù, dobbiamo fare uno sforzo consapevole per sviluppare le rette virtù e frenare i vizi. Quindi, il passo fondamentale e primissimo sul cammino spirituale è esaminare queste due serie di qualità opposte che sono descritte molto attentamente nel capitolo XVI. Avendo compreso la natura di questi due insiemi si deve guardare dentro il proprio Sé con onestà e sincerità per accertare quale di queste qualità sia predominante e quindi fare ogni sforzo per sbarazzarsi delle qualità negative e rafforzare le virtù positive.
In ogni momento, tutti noi ci comportiamo in un certo modo a causa della natura innata (svabhāva) che portiamo con noi dalle nostre vite passate (BhG XVIII.60). A seconda di questa natura (BhG XVII.2), in noi prevarrà una qualità che ci spinge ad agire in un certo modo e che non siamo capaci di reprimere. È questa impotenza che spinge Arjuna in preda all’angoscia ad appellarsi al Signore, per sapere quale forza induce le persone a compiere azioni sbagliate che le porteranno a soffrire. Né alcun controllo può essere efficace, poiché persino i Saggi agiscono solo in accordo con quella loro natura (BhG III.33). A seconda della qualità predominante, i sensi rincorrono gli oggetti esterni che possiedono le qualità corrispondenti. Pertanto, un’analisi della direzione a cui si volgono le nostre attrazioni rivelerà quali sono le qualità predominanti in noi. Questo è il primo passo della pratica. Per facilitare questa operazione, che è una parte molto importante della pratica spirituale, sono state descritte le caratteristiche di ciascuno dei tre guṇa in modo molto dettagliato nei versetti XIII.21, XIV.12-18 e XVIII.39 della Bhagavad Gītā. Il secondo passo di questo processo, dopo aver accertato in noi la propensione verso le qualità divine o asuriche, è scoprire in quale direzione la mente si muova tra i vari oggetti dei sensi. Quando, attraverso una costante introspezione, si identifica la qualità predominante (guṇa) che ci sta guidando, si possono prendere misure correttive. Quando tamas è prevalente, sentiamo sia la mancanza di discriminazione sia l’assenza di zelo nell’azione. A causa di tamas prendiamo tutto in modo contrario alla corretta comprensione. Ne consegue la tendenza al torpore quando, invece, dovremmo agire. Poiché la caratteristica principale di tamas è la pigrizia, l’unico rimedio a ciò consiste nell’impegnarsi in un’attività incessante che, unita al desiderio, ci porterà alle tendenze che sono caratteristiche di rajas. Quando rajas predomina, si manifestano egoismo, avarizia e una ricerca incessante di attività. Manca lo sforzo costante verso una direzione da perseguire, per cui le nostre attività, per la maggior parte, non saranno particolarmente fruttuose, ma dispersive. Dovrebbe essere ovvio che questo tipo di comportamento rājasika non ci porterà alla pace che stiamo cercando. In questo contesto, può essere utile citare alcuni esempi. Il tipo di cibo che consumiamo attraverso tutti i nostri sensi influisce di conseguenza sulla nostra mente. Mentre il cibo puro (sāttvika) svilupperà la qualità di sattva, il tipo di cibo sbagliato ostacolerà sicuramente tale sviluppo. Nelle Scritture si descrive come il cibo mangiato venga digerito in tre parti: la parte più grossolana è espulsa come rifiuto, mentre la parte più sottile alimenta la mente. Questa è la ragione per la quale le scritture hanno insistito sulla purezza del cibo da assumere, in modo che anche la mente diventi pura (ChU VII.26.2).
Questo primo passo è in realtà una delle parti più facili della pratica spirituale. Possiamo esaminare quale tipo di cibo ci attrae e che tipo di effetto produce in noi. Per esempio, è esperienza comune che il cibo raffermo produca sonno; eppure vediamo che molte persone sono attratte da questo. Molte persone apprezzano il cibo raffermo, il cui odore è considerato sgradevole da molti altri. Spesso si nota che coloro che sono inclini ad assumere cibi molto piccanti, guarniti di ricchi contorni, tendono ad avere un carattere focoso. Al contrario, coloro che consumano la giusta quantità di cibo facilmente digeribile sono considerati equilibrati e hanno il vantaggio di mantenere una buona salute. Questo è ciò che si intende quando il Signore ci avverte che per raggiungere lo Yoga è essenziale la giusta quantità di cibo, riposo, sonno, lavoro e svago.
Allo stesso modo, vediamo che la natura di alcune persone è quella di accorrere in aiuto di altri. Al contrario, vediamo spesso persone indifferenti ai sentimenti di chi ha bisogno e altre ancora che in realtà traggono piacere e vanto di procurare intenzionalmente difficoltà e dolore agli altri. In realtà non c’è attività che non rientri in una di queste tre categorie: sattva, che porta alla purezza e alla conoscenza, rajas che porta all’attività e al desiderio, e tamas che porta alla pigrizia, al torpore o all’ignoranza. La personalità di ciascuno è plasmata, in larga misura, dall’effetto cumulativo delle sue azioni. Per questo motivo, è necessario essere prudenti nelle nostre azioni affinché il risultato rappresenti un proprio miglioramento e non una degenerazione. Alcune persone sono così attente a come parlano che nulla sfugge loro di bocca, una caratteristica che certamente non sarà piacevole per gli altri. Altre persone, invece, sembrano non riuscire mai a dire qualcosa che non ferisca gli altri, anche quando non ne hanno l’intenzione. È meglio ricordare che questi casi di discorsi piacevoli o di sfoghi violenti non sono casuali o motivati da una particolare occasione. La vera causa è la nostra natura abituale, di cui spesso non siamo nemmeno consapevoli. Anche se bisogna ammettere che non si può prevedere ciò che accade al momento, se si analizzano in modo obiettivo le circostanze dopo l’accadimento increscioso, si può scoprire che ciò che è successo non era poi così inevitabile. Questo perché il comportamento è controllato dalla nostra natura interiore che abbiamo portato con noi come prodotto delle azioni precedenti e che ha causato il comportamento attuale. È quindi per garantire lo sviluppo di un atteggiamento corretto che la Gītā si preoccupa di classificare le attività umane nei vari guṇa.
Come abbiamo detto in precedenza, una delle tre pratiche essenziali per la purificazione è l’austerità (tapas). In tutte le nostre azioni, siano esse del corpo, della parola o della mente, si deve praticare il tapas (BhG XVII.14-19). Per esempio, l’austerità per quanto riguarda il corpo consiste nelle seguenti caratteristiche: rispetto verso il Divino, per i due-volte-nati, per i Saggi, la pulizia, la schiettezza e la non violenza verso tutti gli esseri. Questa è la cosiddetta austerità del corpo. La parola, quando non causa disturbo agli altri, quando è veritiera, gradevole, buona anche a lungo termine e quando include lo studio delle Scritture e la traduzione di tale studio in azione, è nota come austerità della parola. Mantenere la mente pulita, controllata e libera dalla furbizia, rimanere calmi e tranquilli sono tutti segni di austerità della mente.
Questi tre tipi di austerità devono essere intrapresi senza desiderare alcuna ricompensa e con una mente pacificata. Quando le austerità sono intraprese in questo modo, i dotti dicono che sono sāttvika e che portano a un comportamento migliore. Quando, invece, le austerità sono intraprese cercando l’adulazione, il rispetto, lo sfarzo e l’esibizione, sono considerate austerità rājasika e tendono a essere ondivaghe e a non produrre risultati coerenti. Quando le austerità sono intraprese da coloro che sono preda dell’ignoranza, tamas, si rivoltano contro loro stessi o contro gli altri provocando danni che condurranno a dissoluzione.
Come le austerità, anche i sacrifici (yajña) e le elemosine (dāna) devono essere eseguiti per arricchire il contenuto della nostra purezza (sattva). In tutte queste attività (sacrifici, doni e austerità) la caratteristica comune, che può essere considerata come la loro stessa essenza, è che devono essere intraprese con la sensazione di essere un dovere e con lo scopo di calmare e purificare la mente, con la totale assenza di aspettative per il risultato dell’attività, sia qui che nell’aldilà in un’altra vita. Allo stesso modo, la conoscenza, l’attività e la motivazione dell’attività sono state analizzate nella Gītā secondo i guṇa (BhG XVIII.20-28). Inoltre, anche l’intelletto, la risolutezza e la felicità sono stati analizzati in base ai guṇa nei versi XVIII.30-39. La precisazione che queste attività devono essere svolte nello spirito dello Yoga, rivolgendole al Signore, è inevitabile perché, come abbiamo visto in precedenza, tutte le attività devono essere precedute dalla discriminazione per eliminare quelle inutili e coltivare le qualità utili.
L’introspezione continua di tutte le nostre attività è indispensabile per accertare quale sia il guṇa che sta avendo la meglio. Per esempio, se tamas è in aumento, si manifesterà naturalmente la pigrizia e allo stesso modo rajas si manifesterà con l’irrequietezza. Ci sono quindi dei segnali di attenzione che ci mettono al riparo da questi due guṇa e ci orientano verso la purezza (sattva), utilizzando i parametri indicati nel testo per le misure correttive e di rimedio. Sebbene tutti e tre i guṇa siano sempre presenti, quando uno di essi domina, gli altri due vengono sottomessi. Pertanto, l’unica causa della schiavitù del saṃsāra sono i tre guṇa, come è chiaramente indicato nel passo seguente:
Non c’è nulla in o sopra la Terra, o anche nel cielo degli Dei che non sia composto da questi tre guṇa di Prakṛti (BhG XVIII.40).
Pertanto, il passo cruciale nel processo di liberazione dalle catene del saṃsāra è trascendere questi tre guṇa, perché, nonostante la purezza (sattva) sia essenziale per il sorgere della conoscenza (jñāna), anche quel guṇa di purezza continuerà ad essere per noi una fonte di schiavitù.
Così il Signore ci assicura:
Chi si rende conto che solo questi tre guṇa stanno eseguendo i karma e intuisce l’Ātman al di là di essi, raggiunge la mia stessa natura. Chi trascende questi tre guṇa, che producono il corpo, va oltre il saṃsāra sotto forma di nascita e morte, vecchiaia e dolore, e raggiunge l’Eternità”. (BhG XIV.19-20).
La conclusione di ciò dovrebbe essere evidente. Poiché l’intera gamma delle azioni, sia vediche (sacre) sia mondane (profane) o anche quelle che portano al mokṣa, rientra nell’ambito dei tre guṇa di Prakṛti e deve inevitabilmente coinvolgere uno di questi tre guṇa. Da questa prospettiva è facile capire che qualsiasi sforzo non sarà sufficiente a liberarci dal saṃsāra. Possiamo progredire verso la meta attraverso l’esecuzione di karma, karma incessanti per superare tamas; possiamo eseguire quei karma senza desiderare il loro frutto in modo da superare rajas, e infine possiamo eseguire il karma in modo totalmente distaccato e senza identificazione, diventando prevalentemente sāttvika. Ma le ultime tracce di questo sattva, per quanto puro possa diventare, saranno comunque un ostacolo alla Liberazione e una fonte di rinascita. L’unico modo per eliminare il saṃsāra è quindi arrendersi a Lui, al Signore Supremo che ha Prakṛti sotto controllo (BhG VII.14; X.11). Questa sequenza mostra chiaramente il valore indispensabile della devozione e dell’abbandono e come l’esecuzione del karma serva semplicemente come preparazione a questo abbandono ultimo.
La discussione precedente sulla sequenza dei passi che portano all’abbandono finale all’Essere Supremo solleva alcune domande. Se, come si è detto, quando agiamo in un determinato momento, quell’azione non è qualcosa su cui abbiamo avuto scelta, e siamo costretti ad agire semplicemente in base alle nostre disposizioni passate, allora gli esseri umani si ridurranno a semplici macchine, ad automi, e il concetto di sforzo umano diventerà privo di significato. Se le nostre azioni attuali sono predestinate da quelle passate, il futuro diventerà automaticamente il risultato di queste presenti azioni e, quindi, diventerà ineluttabile come quelle attuali. Questo non lascia alcun margine di scelta, non consente alcuno sforzo cosciente, né per migliorare noi stessi né per contribuire al benessere della comunità che ci circonda. In queste circostanze, l’intera serie di esercizi forniti del testo diventerà inutile.
L’argomentazione di cui sopra deriva chiaramente dalla tendenza tāmasika di cercare di evitare qualsiasi sforzo per poi a trovare una scusa razionale per non fare nulla. Questo atteggiamento dovrebbe essere condannato come un totale errore di lettura della Gītā. È vero che funzioniamo in un modo particolare, controllati dalle nostre azioni passate e, dacché queste azioni passate sono già state completate, non possono essere riviste. A causa del rapporto irrevocabile tra causa ed effetto, in questo caso l’azione e il suo risultato, il presente, è esattamente come sta procedendo (BhG V.14). Ma questo non significa che siamo semplici strumenti nelle mani del destino. È evidente che la possibilità di scelta a nostra disposizione ci preserva dalla costrizione di causa ed effetto. Il Signore avvertì Arjuna che era dipendente dal suo ego e che l’idea di non combattere era un’illusione, poiché la natura guerriera che aveva ereditato lo avrebbe costretto a combattere. È la nostra inclinazione che forma il seme per il futuro, un’inclinazione verso le azioni che inevitabilmente compiamo, in modo che non diventino ulteriori fonti di schiavitù, ma piuttosto diventino un aiuto per liberarsi dalle loro grinfie. La Gītā mostra chiaramente che sono le nostre attrazioni e repulsioni interne, in altre parole le nostre inclinazioni, a poter essere trasformate con sforzo. Il Signore dice:
I sensi hanno attrazione e repulsione per i loro rispettivi oggetti; nessuno dovrebbe farsi influenzare da essi. Essi sono infatti gli ostacoli sul cammino degli uomini (BhG III.34).
Per questo motivo, non siamo spinti a ricorrere ad azioni infinite anche contro la nostra volontà. In un momento di impeto, possiamo agire impulsivamente, ma quando interviene la prudenza, controlliamo la nostra azione, e altre volte ci affidiamo sconsideratamente agli impulsi dei sensi individuali.
Visto in questa luce, diventa chiaro il motivo per cui nella Gītā sono state stabilite alcune restrizioni e precondizioni all’esecuzione dei rituali, che ritornano ripetutamente. Qui di seguito riportiamo alcuni esempi per mostrare come il controllo dei sensi e della mente e la completa assenza di attaccamento siano indicati come prerequisiti per l’esecuzione del karma.
Avete diritto solo al karma e mai ai suoi frutti (BhG II.47).
Stabilitevi nello Yoga, eseguite i rituali, abbandonate tutti gli attaccamenti (BhG II.48).
Chi si è liberato da tutti i desideri, chi non ha pensieri orientati all’ego, chi non si identifica con “io” o “mio”, solo costui ha diritto alla pace finale (BhG II 71).
Eccelle chi, controllando i sensi attraverso la mente, continua a impegnarsi nel karma senza legami, praticando il karma yoga (BhG III.7).
Pertanto, controllando i sensi ecc. si distrugge qui quel nemico maligno e terribile (il desiderio), che uccide conoscenza e intuizione (esperienza diretta) (BhG III.41).
Gli yogin compiono il karma per mezzo del corpo, della mente, dell’intelletto e dei sensi, rinunciando agli attaccamenti… (BhG V.11)
Una domanda deve essere affrontata a questo punto: se tutti i karma devono essere in accordo con uno qualsiasi dei tre guṇa, e dato che l’intero scopo della pratica è quello di superare i guṇa, vale a dire la Prakṛti stessa, i karma, che sono essenzialmente l’attività della stessa, come possono contribuire alla pratica? La risposta a questa domanda costituisce il secondo passo della pratica, dopo aver già completato il primo, che consiste nell’accertare la nostra natura in termini di guṇa verificando le nostre varie attività.
Poiché per tutti noi, inclusi anche i dotti, l’identificazione con il corpo, i sensi e la mente è naturale (qui la parola “naturale” indica lo stato di non discriminazione che è comune a tutti), essendo tutti questi elementi, corpo, sensi e mente, oggetti inerti (jaḍa) della coscienza, è normale aspettarsi che, a parte pochi praticanti che si trovano in uno stato elevato di realizzazione, tamas sia il guṇa predominante in tutti noi, in quanto tutti ci identifichiamo con questi oggetti inerti, quindi questa è l’oscurità, il tamas che abbiamo tutti. L’unica differenza è la misura in cui tamas tiene sotto controllo gli altri due guṇa, spingendoci a evitare il nostro dovere. Molti cercano perfino di trasformare in virtù questa evidente manchevolezza verso i doveri rituali, con argomenti apparentemente intelligenti e citazioni contraddittorie delle Scritture, dimenticando che queste sono proprio le caratteristiche tipiche di tamas (BhG XIV.13). Perciò, per procedere al superamento dei guṇa, il primo passo è quello di superare tamas. Questo tamas deve essere superato tramite un’azione incessante (nirantara karma). Il Signore disse:
Non c’è un solo momento in cui si possa esistere senza attività, perché tutti gli esseri sono costretti all’azione dai guṇa di Prakṛti (BhG III.5).
Possiamo ritirarci dall’attività verso l’esterno inibendo le facoltà di azione, ma in tale stato la mente diventa più furiosamente attiva, il che è assoluta ipocrisia (BhG III.6). Inoltre, anche se ci ritiriamo dall’azione esterna, il mantenimento del corpo e delle sue attività continuerà, essendo impossibile la totale inazione (BhG III.8). Quindi, finché è presente l’identificazione con il corpo, l’abbandono completo delle azioni è impossibile (BhG XVIII.11). Ne consegue che la cessazione assoluta delle azioni è possibile solo quando cessa l’identificazione con il corpo. Mentre un jñãni non ha alcun dovere rituale da compiere (BhG III.17-17), il ritiro dall’attività da parte di una persona ignorante sarà disastroso e ipocrita (BhG III.6).
Questo continuo impegno nell’attività (rajas) per superare tamas, ci porterà naturalmente in uno stato di desideri incessanti, perché ogni attività è spinta dal desiderio di ottenere il risultato di quell’azione per il proprio godimento. Quindi, coltivando l’abitudine all’attività continua (karma), la mente cercherà senza sosta infinite cose da fare e infinite cose da acquisire, perché l’avidità è la caratteristica principale di rajas. L’avidità spinge la persona nella giungla dei desideri e delle attività, uno stato in cui difficilmente sarà in grado di svolgere correttamente anche il rito che sta compiendo. Spesso, prima ancora di iniziare il proprio rituale, la mente passa a un’altra attività per ottenere un altro risultato. Questa mente incontrollata e rājasika sarà quindi distratta in mille direzioni, in uno stato che è suicida per l’efficacia del nostro karma e per la pace, e che non potrà mai portare al vero Yoga (BhG II.44).
Dobbiamo capire che tutti i desideri nascono e alimentano rajas (BhG III.37). Poiché c’è questo difetto intrinseco in ogni azione, in quanto lega chi la compie al suo risultato, ci si può legittimamente chiedere perché mai si debba intraprendere un karma, mentre il Signore, più di una volta, ci abbia ingiunto di compiere un karma. Si può notare che una parte consistente del capitolo III della Gītā è dedicata a un’eloquente argomentazione sulla necessità di eseguire il karma. La risposta a questa domanda è che la inattività, con la quale ci si limita ad astenersi dalle azioni, porta inevitabilmente a tamas. È quindi necessario agire, ma l’azione deve essere svolta in modo particolare, in modo che rajas non venga alimentato e ingrossato. I desideri hanno la loro dimora nei sensi, nella mente e nell’intelletto. (BhG III.49). Quindi, se la nostra intenzione è quella di non moltiplicare i desideri, rajas deve essere controllato anche mentre si continua a eseguire il karma. Il controllo dei sensi, della mente e dell’intelletto diventa quindi indispensabile. Questo controllo, infatti, diventa possibile solo quando, in ogni fase dell’esecuzione di qualsiasi azione, si intrattiene il minimo attaccamento per essa e per i suoi risultati. Invece, l’ingiunzione che si trova nel primo quarto del verso II.47 della Gītā (“Il tuo dharma è solo all’attività (karma)”) aveva lo scopo di stimolare la persona a essere attiva, in modo da superare tamas. Il quarto successivo del verso II.47 è un’istruzione che riguarda il metodo per superare rajas, in modo che l’attività non abbia più alcun effetto su di noi.
In accordo con l’opinione di cui sopra, viene così chiarita un’altra apparente contraddizione. Il Signore ha ordinato che il criterio per ciò che deve essere fatto e ciò che non deve essere fatto si trovi solo nelle Scritture (BhG XVI.24). Critica anche quelle azioni che ignorano le scritture e le descrive prive di ritegno e che, inoltre, non producono siddhi (perfezioni) o felicità qui in questo mondo né alcun sollievo, dopo la morte, in qualsiasi altro mondo. Al contrario, il Signore ci ha avvertito che a meno che l’intelletto, che normalmente è macchiato dal desiderio per i frutti delle attività scritturali, non si ritiri da quella dipendenza, il conseguimento dello Yoga non sarà raggiunto (BhG II.53), perché i desideri sono innumerevoli, come sono anche innumerevoli coloro che li desiderano. Le scritture prescrivono i karma corrispondenti, che servono come mezzi rituali per raggiungere quei fini, e anche come palliativi per purificare la mente dalla sua attrazione per il mero corpo grossolano e per il mondo, al fine di invertire la mente dalla sua naturale inclinazione a indulgere agli oggetti dei sensi.
La prescrizione di rituali descritti nelle scritture è ingiunta principalmente perché senza di essi le persone si allontanerebbero spontaneamente verso le sole attività mondane e rimarrebbero completamente invischiate nelle loro innate inclinazioni animalesche. Questo non significa che una persona debba intraprendere tutte le attività scritturali o anche una certa particolare attività rituale, a meno che non voglia veramente il frutto di quel karma. Infatti, non ha bisogno di impegnarsi in alcuna attività scritturale chi è veramente libero dall’identificarsi al suo corpo grossolano e al mondo grossolano.
Quindi, la direttiva di evitare i rituali scritturali dovrebbe essere intesa da applicare a quei rituali che vengono intrapresi con lo scopo specifico di ottenere un certo risultato desiderato, mentre i doveri obbligatori non dovrebbero essere abbandonati; anzi, dovrebbero essere eseguiti con un senso del dovere, senza attaccamento al frutto e con pieno abbandono al Signore (BhG II.42-44; XVIII.5-6; XVIII.9). Questa conclusione è confermata quando il Signore contrappone un Brahmajñāni a chi è interessato ai karma, usando il paragone dell’oceano e delle pozzanghere d’acqua: le pozzanghere rappresentano il bisogno di karma e l’oceano rappresenta il completo distacco da tutti i desideri. Quando si sta già navigando nell’oceano, a che serve una pozzanghera d’acqua? Cioè, per chi è stabilito nel Brahman a che servono i riti vedici? È da questo punto di vista che il Signore ordina ad Arjuna di superare i guṇa, nel cui dominio si collocano i Veda (BhG II.45). Ovviamente non c’è intenzione qui di criticare le scritture in generale, ma c’è una chiara ingiunzione di mettere sotto controllo i nostri desideri.
Pertanto, l’esecuzione del karma, senza puntare ai risultati, ciò che si chiama niśkāma karma, è necessaria per superare rajas e quindi per eliminare i desideri. C’è un punto che dovrebbe essere preso in considerazione in questo contesto, ed è che si abbia in vista o meno il risultato, il risultato è destinato comunque a essere accreditato sul nostro conto, come l’inevitabile fumo che accompagna il fuoco. Il frutto è l’inseparabile compagno del karma (BhG XVIII.48). Questa è la ragione per cui le scritture hanno descritto il frutto del karma come indistruttibile: per questa ragione il frutto è chiamato amṛta, privo di morte, mai distrutto (MuU I.1.8). Ciò che deriva dall’esecuzione del niśkāma karma è di liberarci dall’errore di mettere al primo posto il desiderio per il risultato che, come sappiamo, è fonte di distrazione per la mente.
Poiché con il niśkāma karma, cioè svolgendo un’attività senza desiderarne il frutto, si può superare il rajas, non ci si deve però adagiare su di esso, sperando che sattva, che è noto essere la causa della conoscenza, ci liberi. Questo perché il sattva guṇa crea in noi anche una sottile schiavitù, che nel migliore dei casi può essere descritta come una manetta d’oro sotto forma di superbia per la conoscenza delle Scritture, che da sola può diventare un forte tipo di schiavitù; infatti, l’ego in questo stadio, essendo molto sottile, diventa estremamente difficile da eliminare. Inoltre, a causa dell’attaccamento alla felicità che deriva dal sattva guṇa, si crea un tipo sottile di schiavitù (BhG XIV.6). Ma anche sattva è incluso in Prakṛti e, quando è presente anche in minima parte, la Liberazione non può avvenire. Quando si compie il karma senza desiderio, si è comunque consapevoli di essere il suo esecutore e si ha un senso di attivismo rispetto a quell’azione. Perciò, per liberarsi dal sattva guṇa, è necessario un ulteriore sforzo, che deve consistere nell’assicurarsi che l’insieme del corpo, dei sensi e della mente continui a svolgere tutte le attività che gli si presentano, senza attaccamento per tali attività in nessuna loro fase. Questo include la volontà di compiere l’azione, che è il primo pensiero che sorge in noi prima di intraprendere un’azione, l’azione stessa e il risultato dell’azione. Lo stato che si prospetta è descritto nella Gītā come segue:
Egli rinuncia all’attaccamento ai frutti e all’azione; distaccato, sempre soddisfatto, indipendente, anche se è impegnato nelle opere, non fa nulla (BhG IV.20).
È quando le attività vengono svolte con questo atteggiamento mentale che quelle stesse attività non vincolano più chi le compie. Questo insegnamento è ciò che viene indicato nei versetti IV.22-23 della Gītā:
Accontentandosi di ciò che si ottiene senza aver richiesto, al di là delle dualità, liberi dallo spirito competitivo, uguali nel guadagno e nella perdita, non si è vincolati nonostante l’azione (BhG IV.22).
Tutti i karma del liberato stabile nella conoscenza, compiuti come sacrificio, si dissolvono completamente Le azioni del liberato che si è sbarazzato dell’attaccamento e la cui mente è stabile nella conoscenza, compiute come sacrificio si dissolvono totalmente (BhG IV.23).
Eseguendo le attività in questo modo, completamente ignaro di essere in qualche modo un agente di quell’azione, il praticante acquisisce la convinzione che i guṇa da soli sono la causa di tutte le attività e l’agente di ogni attività, e che quindi non ha alcun legame con nessuno di essi. A questo punto, l’azione stessa perde tutto il suo valore e di fatto non è più un’attività. Questo accade perché il senso stesso di essere un agente è completamente svanito. Questo è il vero spirito e significato della parola sacrificio (yajña) che si trova nel versetto III.9 della Gita. È con questo significato più profondo che la parola sacrificio viene descritta quando ad Arjuna viene detto che sarà vincolante il karma compiuto, a eccezione di quello compiuto in spirito di sacrificio. Lo stesso testo citato afferma che se compiuti come sacrificio, nel senso di completo distacco dall’intero processo dell’azione, tutti i karma vengono completamente dissolti.