Vai al contenuto

Aditi, “Advaita Vedānta”, No. IV, 2022

🇮🇹 Abbiamo ricevuto un numero unico della rivista francese Aditi, dedicato l’Advaita Vedānta, che tocca diversi argomenti importanti affrontati sul nostro sito Veda Vyāsa Maṇḍala.

Renaud Fabbri, “Éditorial” (Editoriale); Swami Yogananda Sarasvati (tr. par) “Ratha-kalpanā”; Martine Chifflot, “Le moi, le monde et Dieu: perspectives dualistes et non-dualistes du Vedānta” (L’io, il mondo e Dio: prospettive dualiste e non dualiste del Vedānta); Ira Schepetin, “Vedānta traditionnel et néo-Vedānta” (Vedānta tradizionale e neo-Vedānta); Renaud Fabbri, “Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī ou la critique de la raison vedāntique” (Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī o la critica della ragione vedāntica); Armandine Girard “La notion d’ahaṃkāra” (Il concetto di ahaṃkāra); Vasanthi Srinivasan, “Émerveillement incandescent : le raisonement analogique dans la Viśiṣṭādvaita” (L’incandescente stupore: il ragionamento analogico nel Viśiṣṭādvaita); David Dubois, “Advaita Vedānta et Shivaisme du Cachemire : unité ou dualité?” (Advaita Vedānta e Shivaismo del Kashmir: unità o dualità?); Felix Herkert [éd. par] “Svāmī Karpātrī. L’unité des religions [Dharmon kī ektā]” (Svāmī Karpātrī. L’unità delle religioni [Dharmon kī ektā]); Pierre Bonnasse, “Śāktādvaita-Sādhanā-Sāra. L’Essence de la practique spirituelle du Śaktisme non-duel” (Śāktādvaita-Sādhanā-Sāra. L’Essenza della pratica spirituale dello Śaktismo non-duale).

Éditorial. La rivista apre con un editoriale del capo redattore M. Renaud Fabbri che connota correttamente il Vedānta non duale come la dottrina metafisica insegnata nella linea iniziatica di Gauḍapāda, di Śaṃkara e di Sūreśvara. La breve presentazione introduce l’Advaitavāda indicando nel Mahāvākya “tu sei Quello” l’identità dell’Ātman ‘di ciascuno’ con il Brahman assoluto. A questo riguardo, M. Fabbri utilizza il termine guénoniano di ‘identità suprema’ il cui senso qui non appare del tutto inadeguato. Tuttavia, sarebbe comunque da evitare in quanto ripropone l’erronea traduzione di Ivan Aguéli della formula sufica waḥdāt al-wujud. Possiamo aggiungere che il capo redattore avvicina il concetto śaṃkariano di mokṣa alla realizzazione spirituale descritta nelle Enneadi di Plotino, che si sarebbe poi conservata nel tempo attraverso “les voies mystiques tant chrétiennes que musulmanes”. Questa inclinazione verso il neoplatonismo, residuo di ispirazione ‘perennialista’, si riscontra in altri contributi nel corso della pubblicazione. È perciò necessario fare un po’ di chiarezza. L’emanazionismo plotiniano è in quanche modo paragonabile alla dottrina sāṃkhya del satkāryavāda (come il suo contrario, il creazionismo ex nihilo semitico, ha qualche somiglianza con l’asatkāryavāda del Nyāya). La teoria satkārya sostiene che l’effetto è preesistente nella causa in forma di possibilità: i ventitre tattva prodotti dalla Prakṛti altro non sono se non estrinsecazioni o modificazioni dalla stessa causa materiale. La dottrina della causalità asatkārya dei naiyāyika, invece, sostiene che l’effetto è prodotto ex novo e che era inesistente in precedenza. Nessuna di queste due dottrine è riconosciuta valida dall’Advaita Vedānta. La sua posizione è il vivartavāda, la dottrina dell’irrealtà: l’effetto è apparenza irreale sovrapposta alla causa. E, poiché senza effetto la causa non è causa, non esistono né causa né effetto. Così si conferma la non dualità del Brahmātman. Il Non duale, quindi, non è assimilabile all’idea dell’Uno neoplatonico, che può essere meglio accostabile alle scienze del Non-supremo (aparabrahma vidyā).

Ratha-kalpanā (Introduction – Extrait et commentaire). L’ospite d’onore che apre la serie dei contributi è Swami Yogananda Sarasvati, un francese operante in Francia, discepolo del discusso guru di Yoga Swami Satchidananda, fondatore a San Francisco dell’Integral Yoga Institute, a sua volta discepolo dello Svāmī Śivānanda, fondatore della scuola yogica Divine Life Society di Ṛṣikeśa. L’introduzione già presenta alcuni equivoci caratteristici di chi interpreta l’advaitavāda alla luce del pātañjala yoga, come per esempio: “[Il Brahman] ayant projecté le monde, il y entre pour l’animer en se reflétant sur l’intellect, prenant ainsi la forme du jīvātman, le soi individual vivant.” (p. 11) Che il Brahman proietti il mondo e che il jīvātman sia una forma altra da Quello non è certamente dottrina advitīya. Più avanti (pp. 14-15), l’Autore attribuisce alla conoscenza gli anubandha catuṣṭaya (argomento, scopo, metodo d’insegnamento e persona qualificata a riceverli) che sono, invece, le motivazioni per l’insegnamento orale. (śābda pramāṇa). Segue la traduzione di nove śloka (I.3.3-11) tratti dalla Kaṭha Upaniṣad,commentati sempre da Swami Yogananda. Anche in questo caso ci si imbatte in un errore d’interpretazione. L’Upaniṣad, nelle righe precedenti, descrive il processo di purificazione della mente, paragonando i diversi componenti dell’antaḥkaraṇa a un carro da battaglia: “L’homme qui a pour cocher le discernement et qui tient la bride de son mental arrive au terme du chemin, à la Demeure suprême du tout-pénétrant Viṣṇu” (KU I.3.9). L’Autore, nel suo commento, afferma: “C’est l’état du Soi supreme, l’état non suprême ou inférieur étant celui du soi individuel soumis à la transmignation par manque de discerniment. Le fruit de la connaissance du Soi est donc la libération, la fin du grand rêve cosmique, l’éveil spirituel. C’est l’attainte de la destination finale, la Demeure suprême de Viṣṇu” (p. 21). Ora, poiché mokṣa non si ottiene al termine di alcun cammino né può essere considerato come una destinazione o una dimora finale, è evidente che la Dimora suprema di Viṣṇu non è altro che il Brahmaloka quando s’immerge nel pralaya, come è ben esposto anche in Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya (IV.3.10). La purificazione della mente è propedeutica al jñāna mārga, ma da sola non è sufficiente a garantire la Liberazione. Da sola può condurre al massimo al Brahmaloka e alla Dimora di Viṣṇu, ma sempre e soltanto a conclusione della via postuma del Devayāna. Che sia così è dimostrato anche nello śloka 11 che, non a caso, supera la tappa della Dimora di Viṣṇu, affermando: “Supérieur au non-manifesté [il Pradhānaest le Puruṣa. Rien n’est superieur au Puruṣa. C’est la culmination. C’est le but suprême” (p. 23).

Le moi, le monde et Dieu: perspectives dualistes et non-dualistes du Vedānta. M.me Martine Chifflot scrive un articolo dal quale traspare un grande amore per le dottrine dell’induismo, pur avendo deciso di rimanere nel seno del cristianesimo. Rivisitando, quando è possibile, gli insegnamenti evangelici alla luce dei suoi studi vedāntici, comunica ai lettori di raggiungere un senso di soddisfazione e di pace. Nulla di reprensibile, per la verità, purché con questo non si voglia forzare i propri testi sacri e striracchiarne le interpretazioni alla ricerca di presunte tracce di non dualità. Quest’articolo si basa sulla convinzione seguente: “Comme l’a bien vu René Guénon, ce serait une erreur de souligner les differences [tra le diverse scuole di Vedāntaau point d’y voir des contradictions” (pp. 54-55). Ma le cose non stanno così. Eccezion fatta per l’advaita, tutte le altre scuole di Vedānta contraddicono, in misure diverse, la non dualità, pur intitolandosi Viśiṣṭa advaitaDvaita advaita, Śuddha advaita e così via. In un modo o nell’altro separano irriducibilmente la realtà del Brahmanda quelle di jagat e dei jīva. L’advaitavāda, al contrario, dichiara che solo il Brahman è l’unica Realtà. A maggior ragione, il vivekin è tenuto a identificare l’errore nelle correnti di mūlāvidyāvāda che inquinano lo stesso Advaita Vedānta. Che l’Autrice dell’articolo non abbia molta familiarità con l’advaitavāda è anche dimostrato dal fatto che, stilando brevi note sulla dottrina della Māṇḍūkya Upaniṣad, afferma che la ripetizione dell’Oṃkāra permette al vivekin la conoscenza del Brahman-Ātman (p. 45), come se gli advaitin seguissero il metodo del japa in uso nelle vie di karma kāṇḍa. M.me Chifflot cita e commenta alcuni passaggi salienti di Prakāśānanda, senza accorgersi che questo autore tardivo (XVI sec.) si era reso conto che la mūlāvidyā dei post-śaṃkariani aveva creato un artificioso dualismo con la co-eternità di Brahman e dell’ignoranza. Tuttavia, il tentativo di Prakāśānanda di porvi rimedio ha complicato ancor più la matassa. Infatti, egli sostenne che lo stato di sogno è composto da oggetti inesistenti del mondo del sogno, proiettati dalla mente del sognatore. Al risveglio, si ottiene la certezza che sia il sognatore sia gli oggetti del mondo del sogno erano asat. Così il mondo della veglia, i suoi oggetti e lo stesso vegliante sono un sogno del Brahman che scompaiono al suo risveglio come il serpente quando si conosce la corda. La stessa Autrice fa rilevare che ciò conduce a una prospettiva solipsista, senza peraltro spiegarne il perché. Infatti, per dimostrare davvero l’inesistenza dell’ajñāna si deve ricorrere non solo a veglia e sogno, ma soprattutto al vicāra sul sonno profondo.

Vedānta traditionnel et néo-Vedānta. M. Ira Schepetin usa il termine neo-Vedānta in un senso più ampio di quello usuale. Abitualmente con neo-Vedānta s’intende il modernismo hindū, fortemente contaminato da scientismo, moralismo protestante ed egualitarismo sociale. L’Autore comprende tra i neo-vedāntin anche quelli che noi definiamo ‘postśaṃkariani’. Tale estensione del senso del termine è del tutto comprensibile e condivisibile. Prosegue con una breve, ma pregnante critica alla dottrina deviata della mūlāvidyā in tredici punti, in cui segue fedelmente gli insegnamenti del grande Guru di Advaita, Svāmī Jñānandendra Sarasvatī Mahārāja. Si tratta di un articolo altamente raccomandabile per la riflessione.

Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī ou la critique de la raison vedāntique. M. Renaud Fabbri ha dedicato un cospicuo scritto per descrivere il ripristino della pura dottrina di Śaṃkara Bhagavatpāda per correggere le alterazioni dell’advaita da parte dei post-śaṃkariani. Tale opera di restauro avvalse a Svāmījī il riconoscimento di essere un Abhinava Śaṃkara, novello Śaṃkara. L’articolo, davvero eccellente, dà un quadro preciso della dottrina delle tre avasthā e, soprattutto, del suo uso metodico, argomento del tutto sconosciuto in Occidente fino a quando le pagine vedāntiche di Veda Vyāsa Maṇḍala non l’hanno reso noto. Si tratta di un contributo importante e raccomandabile a tutti coloro che sono sinceramente interessati al vicāra vedāntico. Un unico neo: non si capisce per quale motivo M. Renaud Fabbri abbia insistito, nel corso del suo scritto, a voler inserire un cuneo tra Svāmījī e K.A. Krishnaswamy Iyer, che fu uno dei suoi più important Guru, oltre che amico personale. È vero che Iyer spesso citava nei suoi scritti filosofi e letterati occidentali, per la verità in termini non certo lusinghieri, ma anche Svāmījī ogni tanto in nota nominava e criticava autori occidentali. D’altra parte, i due personaggi erano anche in possesso di una solida cultura che permetteva di lanciare i loro strali con grande sicurezza. D’altra parte, lo stesso Autore in questo contributo non si è astenuto dal citare due pensieri di Cartesio e Schopenhauer, peraltro sorprendentemente interessanti.

La notion d’ahaṃkāra. L’Autrice di queste pagine, M.me Armandine Girard, si avventura nell’argomento dell’ahaṃkāra nutrendo fiducia in ciò che affermano gli indologi. Infatti quel termine designa la buddhi in quanto, riflettendo la Coscienza dell’Ātman, produce (kāra) il senso illusorio dell’io individuale (aham). Inoltre, l’affermazione che “«Faire Je» signifierait au depart «pousser le cri ‘Je’»“, è del tutto senza senso. L’Autrice, sempre seguendo le orme di Michel Hulin, sostiene che tale termine indica anche ciò che s’intende con egoismo che, invece, corrisponde al sanscrito asmitā. In seguito, questa volta fidandosi di G.J. Larson, interpreta l’ahaṃkāra upaniṣadico sulla base del Sāṃkhya-yoga della Bhagavad Gītā, considerato evoluzionisticamente un proto-Sāṃkhya darśana. Anche questa è una grave svista, in quanto l’abbinamento Sāṃkhya-Yoga non ha nulla a che fare con gli omonimi darśana, ma designa la dottrina e il metodo dell’Advaita Vedānta. Si tratta di un errore in cui spesso cadono i profani, abbagliati dalla coincidenza dei termini. Āhaṃkāra nel Sāṃkhya, nel tantrismo e nella bhakti, è un tattva, una realtà. Invece nell’advaitavāda è pura apparenza priva di realtà: perciò non si capisce come faccia M.me Girard ad accostare Śrī Rāmaṇa Maharṣi, che ben sapeva che l’unica realtà (tattva) è l’Ātman non duale, a Śrī Anirvāṇa che s’appoggia al Sāṃkhya darśana per spiegare la realizzazione come il ritorno dell’ahaṃkāra al suo ‘punto di partenza’.

Émerveillement incandescent: le raisonement analogique dans la Viśiṣṭādvaita. “Ananda Coomaraswamy faisait une fois remarquer que penser sous forme d’images et de symbols était le langage «adéquat» de la métaphysique”. Così inizia l’articolo di M.me Vasanthi Srinivasan. Anche se questo è un pensiero assai diffuso in ambienti tradizionalisti, la realtà non è proprio così. L’immagine e il simbolo sono stumenti per quelle vie iniziatiche che li usano come supporto di meditazione. Soprattutto le meditazioni più elevate sono aliṅga upāsanā, in quanto devono prescindere dall’uso del simbolo esteriore come pure dalla sua immagine interiorizzata (antardṛṣṭi), pur essendo ancora nell’ambito del karma kāṇḍa. L’advaitavāda procede per rimozione di ogni forma per mezzo della discriminazione “neti neti”. Il resto dell’articolo offre diversi spunti interessanti, che tuttavia non riguardano l’Advaita Vedānta argomento di questa pubblicazione.

Advaita Vedānta et Shivaisme du Cachemire : unité ou dualité? Non poteva mancare un contributo sul cosiddetto Shivaismo del Kashmir, vera ossessione per gli occidentali e che, grazie al loro martellamento, comincia a contagiare anche l’ambiente accademico indiano. M. David Dubois ripropone l’ennesima comparazione tra il suddetto Trika e il Vedānta śaṃkariano, ovviamente a tutto vantaggio del primo. Poiché l’advaitavāda afferma che l’esistenza del mondo manifestato e degli esseri che lo popolano, vale a dire la dualità, è illusoria, in questo articolo lo si definisce ‘esclusivo’. Al contrario, quella corrente tantrica sarebbe ‘inclusiva’ perché integra la dualità nell’Assoluto. Questo è un altro modo per dire che, a suo livello, anche la dualità gode di una sua realtà all’interno dell’Assoluto. Inoltre, basandosi sui Tantra del Trika, M. Dubois riferisce che per quella via iniziatica non c’è incompatibilità tra Liberazione (mokṣa) e fruizione (bhoga) dei frutti dell’azione. In realtà la fruizione avviene nel saṃsāra, mentre il mokṣa è proprio la Liberazione dal saṃsāra, cioè dal divenire, dall’azione, da ogni relazione, come quella di fruitore-fruito (bhoktṛ-bhogya). Basta questo per rendersi conto che anche nel caso del Trika ci si trova davanti a un uso improprio del concetto di non dualità. Infine, poiché la trasmissione iniziatica del Trika è definitivamente spenta, l’autore di questo articolo sosterrebbe che è ancora vivente nell’India meridionale con il nome di Śrī Vidyā. A parte il fatto che Śrī Vidyā è oggi fiorente anche nel settentrione, non è affatto vero che questa tradizione śākta sia una derivazione dallo “Shivaismo del Kashmir”, avendo una paramparā, una dottrina e testi tantrici suoi propri. Inoltre, a differenza del TrikaŚrī Vidyā non ha mai preso posizioni dottrinali polemiche e divergenti nei confronti dell’Advaita Vedānta; anzi ha sempre fiorito e fiorisce tuttora presso i Pīṭha e i Maṭha śaṃkariani, essendo i loro Jagadguru maestri di entrambe le vie iniziatiche. Semmai, Śrī Vidyā è considerata dagli advaitin un potente avvio intellettuale verso la via della conoscenza (jñāna mārga).

Svāmī Karpātrī, L’unité des religions [Dharmon kī ektā]. M. Felix Herkert ha introdotto la sua traduzione da hindī dell’articolo di Svāmī Karpātrī Mahārāja “L’unità delle religioni” (Dharmon kī ektā). Vi si trova la descrizione della personalità tradizionale e dell’alta funzione di Svāmījī, anch’egli ovunque conosciuto con i titoli di Abhinava Śaṃkara (novello Śaṃkara) e anche di Dharma Samrāṭ (imperatore del dharma). Nonostante il grande rispetto e ammirazione che dimostra per il grande ācārya di Vedānta (e di Śrī Vidyā), M. Herkert insinua che Svāmījī abbia riformulato il concetto di sanātana dharma come una “auto-désignation de l’unité de la tradition védique principalement en distinction des autres religions”. Questa opinione si allinea a una malevola voce che da qualche tempo sta dilagando nelle università allo scopo di negare all’induismo una sua identità da tempo immemorabile. L’induismo sarebbe una giustapposizione di differenti religioni dalle origini più disparate che sarebbero state unificate artificialmente di recente a scopo nazionalistico assumendo il nome di sanātana dharma. Non a caso M. Herkert cita Wilhelm Halbfass, secondo cui “[Svāmī Karpātrī] a élaboré comme une difference par rapport a l’hindouisme pré-moderne et traditionnel: à savoir, que le sanātana dharma est devenu de plus en plus important dans les auto-identifications hindoues qui ont émergé, en particulier depuis le XIXème siècle au cours de la rencontre de l’Inde avec l’Occident” (p. 124). Halbfass apparteneva infatti a quella corrente di indologi che detestano l’India e che propagandano simili teorie al fine di demolire la tradizione eterna. È vero che Svāmī Karpātrī ha svolto una funzione sociale, anche ispirando la fondazione di un partito hindū tradizionale con il tentativo (vano) di contrastare una deriva gandhiana anticastale, socialista e filoislamica per l’India libera dal dominio britannico. Si trattava del Rām Rājya Pariṣad che proclamava quale modello statale il regno ideale di Rāma. M. Herkert aggiunge che Svāmījī avrebbe fondato anche il movimento nazionalistico Dharma Saṃgha, seguendo le tendenziose informazioni di Alain Daniélou (peraltro già smentite dai libri del Dr. J.L. Gabin). In realtà lo Svāmī fondò il Dharma Saṃgha Śikṣā Maṇḍala di Benares, istituzione per l’insegnamento tradizionale in sanscrito per bambini e adolescenti. L’articolo Dharmon kī ektā, ben lungi da voler diffondere una qualsiasi unità ‘trascendente’ o ‘fondamentale’ delle religioni-tradizioni, riconosce che tutte sono accomunate a difendere i valori dell’ahiṃsā (il comportamento di non produrre sofferenza agli esseri coscienti, qui gandhianamente tradotto come ‘non-violenza’) e la verità secondo le loro angolature. Tuttavia, Karpātrījī si guardava bene dal considerare tutte le forme tradizionali come ‘complete’ ed ‘equivalenti’, e distingueva nettamente tra la tradizione eterna (sanātana dharma) e le tradizioni e religioni sorte nel corso della storia dell’umanità, fondate da un personaggio ben identificato (curiosamente Svāmījī ha tralasciato di citare Mosé tra i fondatori storici di religioni). L’articolo è interessante, pur non rappresentando una vetta della produzione karpātrīana. Tuttavia, sebbene Svāmī Karpātrī Mahārāja fosse un maestro di Vedānta, anche in questo caso è lecito chiedersi a quale titolo questo scritto compaia in un numero della rivista dedicato all’Advaita.

Śāktādvaita-Sādhanā-Sāra. L’Essence de la practique spirituelle du Śaktisme non-duel. Le medesime riserve che abbiamo espresso recensendo alcuni dei precedenti articoli, possono essere mosse al contributo di M. Pierre Bonnasse. Si tratta di una introduzione alla traduzione di un inno śākta di mantra yoga. Il fatto che s’intitoli Śāktismo non duale non lo colloca affatto nell’ambito del Vedānta śaṃkariano, riferendosi esclusivamente a riti, feste, voti, meditazioni, invocazioni, a tutto ciò che rileva dal campo del karma e non del jñāna. Non ci stancheremo mai di ripetere che non si deve collegarea acriticamente al Vedānta śaṃkariano la parola advaita ogni qual volta ci si imbatta in essa. Lo abbiamo fatto rilevare anche per i termini sāṃkhya e yoga, che solo in certi ambiti designano gli omonimi darśana; e lo stesso vale per mīmāṃsādhyānapratyahara e mille altre parole sanscrite che hanno svariatissime applicazioni e sfumature di significato diverso.

In conclusione, nonostante le molte doverose riserve mosse ai contenuti di questa rivista, è nostra opinione che essa possa essere utile per chi ha già maturato una stabile comprensione della dottrina della non dualità. In modo particolare sono molto raccomandabili gli articoli che hanno centrato l’obiettivo proposto, apportando nuove luci su tematiche di non facile comprensione. È nostro auspicio che la Redazione prosegua in questa direzione, affinando ulteriormente la qualità generale e ampliando il ventaglio delle informazioni dottrinali.

🇫🇷 Nous avons reçu le numéro unique de la revue française Aditi, consacré à l’Advaita Vedānta, qui aborde plusieurs sujets importants traités dans notre Veda Vyāsa Maṇḍala.

Renaud Fabbri, “Éditorial”; Swami Yogananda Sarasvati (tr. par) “Ratha-kalpanā”; Martine Chifflot, “Le moi, le monde et Dieu: perspectives dualistes et non-dualistes du Vedānta”; Ira Schepetin, “Vedānta traditionnel et néo-Vedānta”; Renaud Fabbri, “Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī ou la critique de la raison vedāntique”; Armandine Girard “La notion d’ahaṃkāra”; Vasanthi Srinivasan, “Émerveillement incandescent : le raisonement analogique dans la Viśiṣṭādvaita”; David Dubois, “Advaita Vedānta et Shivaisme du Cachemire : unité ou dualité?”; Felix Herkert [éd. par] “Svāmī Karpātrī, L’unité des religions [Dharmon kī ektā]”; Pierre Bonnasse, “Śāktādvaita-Sādhanā-Sāra. L’Essence de la practique spirituelle du Śaktisme non-duel”.

Éditorial. La revue s’ouvre sur un éditorial de M. Renaud Fabbri, rédacteur en chef, qui désigne à juste titre le Vedānta non duel comme étant la doctrine métaphysique enseignée dans la lignée initiatique de Gauḍapāda, Śaṃkara et Sūreśvara. La brève présentation introduit l’Advaitavāda indiquant dans le Mahāvākya “ tu es Cela ” l’identité de l’Ātman “propre à chacun” avec le Brahman absolu. À cet égard, M. Fabbri utilise le terme guénonien d’ « identité suprême », dont le sens ne semble pas tout à fait assez adéquat ici. Cependant, ce terme est à éviter car il repropose la traduction erronée de la formule soufique waḥdāt al-wujud, proposée par Ivan Aguéli. On peut ajouter que le rédacteur en chef rapproche le concept śaṃkarien de mokṣa à la réalisation spirituelle décrite dans les Ennéades de Plotin, laquelle serait alors préservée dans le temps par “les voies mystiques tant chrétiennes que musulmanes”. Ce penchant pour le néo-platonisme, vestige d’une inspiration « pérennialiste », se retrouve dans d’autres contributions de la publication. Il est donc nécessaire d’apporter quelques éclaircissements. L’émanationnisme plotinien est en quelque sorte comparable à la doctrine sāṃkhya du satkāryavāda (de même que son opposé, le créationnisme sémitique ex nihilo, présente une certaine ressemblance avec l’asatkāryavāda du Nyāya). La théorie satkārya soutient que l’effet préexiste dans la cause sous forme de possibilité : les vingt-trois tattvas produits par la Prakṛti ne sont que des manifestations ou des modifications de la même cause matérielle. La doctrine de la causalité asatkārya des naiyāyika considère en revanche que l’effet est produit ex novo et était inexistant auparavant. Aucune de ces doctrines n’est reconnue valide par l’Advaita Vedānta. Elle rentre plutôt dans le vivartavāda, la doctrine de l’irréalité : l’effet est une apparence irréelle superposée à la cause. Et, puisque la cause n’est pas telle sans effet, il n’y a pas de cause et pas d’effet. Ainsi, la non-dualité du Brahmātman est confirmée. Le non-duel n’est donc pas assimilable à l’idée de l’Un néo-platonicien, que l’on peut mieux aborder à partir des sciences du Non-supreme (aparabrahman vidyā).

Ratha-kalpanā (Introduction – Extrait et commentaire). L’invité d’honneur qui ouvre cette série de contributions est Swami Yogananda Sarasvati, un Français travaillant en France, disciple du controversé Guru de Yoga Swami Satchidananda, fondateur de l’Integral Yoga Institute de San Francisco, lui-même disciple de Svāmī Śivānanda, fondateur de l’école yogique Divine Life Society de Ṛṣikeśa. L’introduction présente déjà quelques malentendus caractéristiques de ceux qui interprètent l’advaitavāda à la lumière du pātañjala yoga, tels que : “ [Le Brahman] ayant projeté le monde, il y entre pour l’animer en se reflétant sur l’intellect, prenant ainsi la forme du jīvātman, le soi individuel vivant. “ (p. 11) Que le Brahman projette le monde et que le jīvātman soit une forme autre que Cela (Tat) ce n’est certainement pas la doctrine advitīya. Plus loin (pp. 14-15), l’auteur attribue à la connaissance les anubandha catuṣṭaya (sujet, but, méthode d’enseignement et personne qualifiée pour les recevoir) lesquelles sont, par ailleurs, les motivations de l’enseignement oral. (śābda pramāṇa). Il s’ensuit la traduction de neuf ślokas (I.3.3-11) de la Kaṭha Upaniṣad, à nouveau commentée par Swami Yogananda. Ici encore, nous rencontrons une erreur d’interprétation. L’Upaniṣad, dans les lignes précédentes, décrit le processus de purification de l’esprit en comparant les différentes composantes de l’antaḥkaraṇa à un char de combat : “L’homme qui a pour cocher le discernement et qui tient la bride de son mental arrive au terme du chemin, à la Demeure suprême du tout-pénétrant Viṣṇu” (KU I.3.9). L’auteur, dans son commentaire, précise : “C’est l’état du Soi suprême, l’état non suprême ou inférieur étant celui du soi individuel soumis à la transmigration par manque de discernement. Le fruit de la connaissance du Soi est donc la libération, la fin du grand rêve cosmique, l’éveil spirituel. C’est l’atteinte de la destination finale, la Demeure suprême de Viṣṇu” (p. 21). Or, puisque le mokṣa n’est atteint au bout d’aucun chemin et qu’il ne peut être considéré comme une destination ou une demeure finale, il est évident que la Demeure Suprême de Viṣṇu n’est autre que le Brahmaloka lorsqu’il plonge dans le pralaya, comme le Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya (IV.3.10) l’affirme également. La purification du mental est préparatoire au jñāna mārga, mais ne saurait à elle seule assurer la Libération. Tout au plus, elle pourra conduire au Brahmaloka et à la Demeure de Viṣṇu, mais toujours au terme de la voie posthume du Devayāna. Qu’il en soit ainsi le démontre également le śloka 11ème lequel, sans surprise, passe l’étape de la Demeure de Viṣṇu, en déclarant : “Supérieur au non-manifesté [le Pradhānaest le Puruṣa. Rien n’est supérieur au Puruṣa. C’est la culmination. C’est le but suprême” (p. 23).

Le moi, le monde et Dieu : perspectives dualistes et non-dualistes du Vedānta. Mme Martine Chifflot écrit un article qui révèle son grand amour pour les doctrines de l’hindouisme, même si elle a décidé de rester dans le giron du christianisme. En revisitant, chaque fois que possible, les enseignements de l’Évangile à la lumière de ses études védantiques, elle dit à ses lecteurs qu’ils peuvent atteindre un sentiment de satisfaction et de paix. Rien de répréhensible, à vrai dire, tant qu’il ne s’agit pas de forcer ses textes sacrés et de tordre leurs interprétations à la recherche de prétendues traces de non-dualité. Cet article repose sur la conviction suivante : “Comme l’a bien vu René Guénon, ce serait une erreur de souligner les différences [entre les différentes écoles du Vedānta] au point d’y voir des contradictions” (pp. 54-55). Malheureusement, ce n’est pas le cas. À l’exception de l’Advaita, toutes les autres écoles du Vedānta contredisent la non-dualité à des degrés divers, tout en se nommant Viśiṣṭa-advaitaDvaita-advaitaŚuddha-advaita et ainsi de suite. D’une manière ou d’une autre, ils séparent irréductiblement la réalité de Brahman de celle du jagat et des jīva. Au contraire, l’advaitavāda déclare le Brahman comme l’unique Réalité. A fortiori, le vivekin est tenu à identifier et corriger l’erreur du mūlāvidyāvāda qui contaminent des courants de l’Advaita Vedānta. M.me Chifflot cite et commente quelques passages saillants de Prakāśānanda, sans se rendre compte que cet auteur tardif (XVIème siècle) avait compris que la mūlāvidyā des post-śaṃkariens avait créé un dualisme artificiel déclarant la co-éternité du Brahman et l’ignorance. Cependant, la tentative de Prakāśānanda d’y remédier a compliqué encore plus la situation. En fait, il a soutenu que l’état de rêve est composé d’objets inexistants du monde du rêve, projetés par l’esprit du rêveur. Au réveil, on obtient la certitude que tant le rêveur que les objets du monde onirique étaient asat. Ainsi, le monde éveillé, ses objets et même la personne éveillée sont un rêve de Brahman disparaissant au réveil comme le serpent lorsque la corde est reconnue. L’auteur même souligne que cela conduit à une perspective solipsiste, sans toutefois expliquer pourquoi. En effet, pour démontrer véritablement la non-existence de l’ajñāna, il faut non seulement recourir à l’éveil et au rêve, mais surtout au vicāra sur le sommeil profond.

Vedānta traditionnel et néo-Vedānta. M. Ira Schepetin, utilise le terme néo-Vedānta dans un sens plus large que d’habitude. Habituellement, le néo-Vedānta désigne le modernisme hindū, fortement contaminé par le scientisme, le moralisme protestant et l’égalitarisme social. L’auteur y inclut également ce que nous appelons les “ postśaṃkariens “. Cette extension du sens du terme est tout à fait compréhensible et partageable. Suit une critique brève, mais prégnante, en treize points, de la doctrine déviante de la mūlāvidyā, dans laquelle il suit fidèlement les enseignements du grand guru d’AdvaitaSvāmī Jñānandendra Sarasvatī Mahārāja. C’est un article hautement recommandé à la réflexion.

Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī ou la critique de la raison vedāntique. M. Renaud Fabbri a consacré un article remarquable à la restauration de la doctrine pure de Śaṃkara Bhagavatpāda comme alternative aux altérations de l’Advaita opérés par les postśaṃkariens. Un tel travail de restauration valut à Svāmījī d’être reconnu en tant que Abhinava Śaṃkara, un nouveau Śaṃkara. L’article, vraiment excellent, donne une image précise de la doctrine des trois avasthā et, surtout, de son utilisation méthodique, sujet entièrement inconnu en Occident jusqu’à ce que les pages védāntiques du Site Veda Vyāsa Maṇḍala le fassent connaître. C’est une contribution importante et recommandé à tous ceux qui s’intéressent sincèrement aux vicāra vedāntique. Son seul défaut : on ne comprend pas pourquoi M. Renaud Fabbri s’efforce, dans son exposé, à opérer un clivage entre Svāmījī et K.A. Krishnaswamy Iyer, l’un de ses principaux gurus, ainsi qu’un ami personnel. Il est vrai que dans ses écrits, Iyer a souvent cité des philosophes et des hommes de lettres occidentaux, dans de termes peu flatteurs, en tout cas. Mais même Svāmījī citait et critiquait occasionnellement les auteurs occidentaux dans ses notes. D’autre part, les deux personnages disposaient d’une solide culture, qui leur permettait de lancer leurs critiques avec une grande sûreté. D’autre part, dans cette contribution, l’auteur lui-même n’a pas négligé de citer deux réflexions étonnamment intéressantes de Descartes et de Schopenhauer.

La notion d’ahaṃkāra. L’auteur de ces pages, Madame Armandine Girard, s’aventure sur le sujet de l’ahaṃkāra en faisant confiance à ce qu’en disent les indologues. En fait, ce terme désigne la buddhi étant donné qu’en reflétant la Conscience du Ātman, elle produit (kāra) le sens illusoire du moi (aham). De plus, l’affirmation selon laquelle « Faire Je » signifierait d’abord « pousser le cri Je » est complètement absurde. L’auteur, toujours dans le sillage de Michel Hulin, soutient également que ce terme indiquerait aussi l’égoïsme, correspondant plutôt quant à lui au sanskrit asmitā. Plus loin, s’appuyant cette fois sur G.J. Larson, elle interprète l’ahaṃkāra upaniṣadique sur la base du Sāṃkhya-Yoga de la Bhagavad Gītā, considéré de manière évolutionniste comme étant un proto-Sāṃkhya darśana. Il s’agit là aussi d’un grave malentendu, puisque la combinaison Sāṃkhya-Yoga n’a rien à voir avec les homonymes darśanas, mais désigne la doctrine et la méthode de l’Advaita Vedānta. C’est une erreur dans laquelle tombent souvent les profanes, éblouis par la coïncidence des termes. Āhaṃkāra dans le Sāṃkhya darśana, dans le tantrisme et la bhakti, est un tattva, une réalité. Dans l’advaitavāda, en revanche, il s’agit d’une pure apparence dépourvue de réalité. On ne voit donc pas comment M.me Girard peut comparer Śrī Rāmaṇa Maharṣi, qui savait bien que la seule réalité (tattva) est l’Ātman non-duel, avec Śrī Anirvāṇa qui s’appuie sur le Sāṃkhya darśana pour expliquer la réalisation comme le retour de l’ahaṃkāra à son «  point de départ ».

Émerveillement incandescent : le raisonnement analogique dans la Viśiṣṭādvaita. “Ananda Coomaraswamy faisait une fois remarquer que penser sous forme d’images et de symboles était le langage « adéquat » de la métaphysique”. Ainsi commence l’article de M.me Vasanthi Srinivasan. Bien qu’il s’agisse d’une idée répandue dans les milieux traditionalistes, la réalité est toute autre/bien différente. L’image et le symbole sont des outils pour les chemins initiatiques les utilisant comme support de méditation. Même les méditations les plus élevées – tout en rentrant dans le cadre du karma kāṇḍa – sont des aliṅga upāsanā, car elles doivent éviter tout symbole extérieur ainsi que son image intériorisée (antardṛṣṭi). L’advaitavāda procède par élimination de toutes les formes au moyen de la discrimination «  neti neti ». Le reste de l’article offre plusieurs éclairages intéressants, ne concernant cependant pas le sujet de l’Advaita Vedānta de cette publication.

Advaita Vedānta et Shivaisme du Cachemire : unité ou dualité? Il ne pouvait pas manquer une contribution sur ce qu’on appelle le Shivaïsme cachemirien, véritable obsession des Occidentaux lequel, grâce à leur martèlement, commence à infecter également le milieu universitaire indien. M. David Dubois propose encore une autre comparaison entre le Trika précité et le Vedānta śaṃkarien, évidemment à l’avantage du premier. Puisque l’advaitavāda affirme que l’existence du monde manifesté et des êtres qui l’habitent, c’est-à-dire la dualité, est illusoire, cet article la définit comme étant «  exclusive ». Au contraire, ce courant tantrique serait « inclusif » car il intègre la dualité dans l’Absolu. C’est une autre façon de dire que, à son niveau, la dualité jouit aussi de sa propre réalité au sein de l’Absolu. De plus, se basant sur les Tantras du Trika, M. Dubois signale que pour cette voie initiatique il n’y a pas d’incompatibilité entre la Libération (mokṣa) et la jouissance (bhoga) des fruits de l’action. En réalité, la jouissance a lieu dans le saṃsāra, tandis que le mokṣa est précisément la Libération du saṃsāra, c’est-à-dire du devenir, de l’action et de toute relation, telle que celle de jouisseur-joui ? (bhoktṛ-bhogya). Cela suffit pour se rendre compte que, même dans le cas de la Trika, nous sommes confrontés à une utilisation inappropriée du concept de non-dualité. Enfin, la transmission initiatique de la Trika étant définitivement éteinte, l’auteur de cet article soutiendrait qu’elle survit encore dans le sud de l’Inde sous le nom de Śrī Vidyā. Outre le fait que maintenant Śrī Vidyā s’est épanoui aussi dans le nord, il n’est pas du tout vrai que cette tradition śākta soit une dérivation du « Shivaïsme cachemirien », du moment qu’elle possède une paramparā, une doctrine et des textes tantriques qui lui sont propres. De plus, contrairement au TrikaŚrī Vidyā n’a jamais pris de positions doctrinales polémiques et divergentes à l’égard de l’Advaita Vedānta ; en effet, elle a toujours prospéré et prospère encore parmi les Pīṭhas et Maṭhas śaṃkariens, leur Jagadguru étant maître des deux voies initiatiques à la fois. À la rigueur, Śrī Vidyā est considérée par les advaitins comme une puissante ouverture intellectuelle à la voie de la connaissance (jñāna mārga).

Svāmī Karpātrī, L’unité des religions [Dharmon kī ektā]. M. Felix Herkert a présenté sa traduction de l’hindī de l’article de Svāmī Karpātrī Mahārāja « L’unité des religions » (Dharmon kī ektā). On y trouve une description de sa personnalité traditionnelle et de sa haute fonction de Svāmījī, puisque Svāmī Karpātrī est également connu partout sous les titres d’Abhinava Śaṃkara (nouveau Śaṃkara) et de Dharma Samrāṭ (empereur du dharma). Malgré le grand respect et l’admiration qu’il manifeste pour ce grand ācārya de Vedānta (et de Śrī Vidyā), M. Herkert suggère que ce Svāmījī a reformulé le concept de sanātana dharma comme une « auto-désignation de l’unité de la tradition védique principalement en distinction des autres religions ». Ce point de vue va dans le sens d’une rumeur malveillante qui circule depuis quelque temps dans les universités visant à contester à l’hindouisme son identité datant des temps immémoriaux. L’hindouisme serait une juxtaposition de différentes religions aux origines les plus disparates, récemment unifiées artificiellement à des fins nationalistes sous le nom de sanātana dharma. Ce n’est pas un hasard si M. Herkert cite Wilhelm Halbfass, selon qui « [Svāmī Karapātrī] a élaboré comme une différence par rapport à l’hindouisme pré-moderne et traditionnel : à savoir, que le sanātana dharma est devenu de plus en plus important dans les auto-identifications hindoues qui ont émergé, en particulier depuis le XIXème siècle au cours de la rencontre de l’Inde avec l’Occident » (p. 124). Halbfass appartenait en fait à ce courant d’indologues qui détestent l’Inde et propagent de telles théories afin de démolir la tradition éternelle. Il est vrai que Svāmī Karapātrī a rempli une fonction sociale, ayant même inspiré la fondation d’un parti hindū traditionnel avec la tentative (vaine) de contrer une dérive gandhienne anti-caste, socialiste et pro-islamique pour une Inde libérée de la domination britannique. C’était le Rām Rājya Pariṣad qui a proclamé le royaume idéal de Rāma comme modèle d’état. M. Herkert ajoute que le Svāmījī a également fondé le mouvement nationaliste Dharma Saṃgha, suivant les informations tendancieuses d’Alain Daniélou (lesquels ont déjà été réfutées par les livres du M. J.L. Gabin). En fait, Svāmī Karapātrī a fondé à Bénarès le Dharma Saṃgha Śikṣā Maṇḍala, une institution d’enseignement traditionnel en sanskrit pour les enfants et les adolescents. L’article Dharmon kī ektā, loin de propager une quelconque unité « transcendante » ou « fondamentale » des religions-traditions, reconnaît que toutes sont unies pour défendre les valeurs d’ahiṃsā (le comportement consistant à ne pas produire de souffrance aux êtres conscients – ici traduit à la façon gandhienne par « non-violence » – et la vérité selon leurs points de vue spécifiques. Toutefois, Karpātrījī se garde bien de considérer toutes les formes traditionnelles comme « complètes » et « équivalentes » entre elles, et fait une distinction claire entre la tradition éternelle (sanātana dharma) et les traditions et religions surgies au cours de l’histoire humaine, fondées par une personne bien identifiée (curieusement, Svāmījī a omis de mentionner Moïse parmi les fondateurs historiques de religions). L’article est intéressant, bien qu’il ne représente pas le sommet de la production de Karapātrījī. Cependant, bien que Svāmī Karapātrī Mahārāja ait été un maître du Vedānta, là aussi on peut se demander pourquoi un tel article figure dans un numéro de la revue consacré à l’Advaita.

Śāktādvaita-Sādhanā-SāraL’Essence de la pratique spirituelle du Śaktisme non-duel. Les mêmes réserves que nous avons exprimées lorsque nous avons examiné certains articles précédents sont aussi valables à l’égard de la contribution de M. Pierre Bonnasse. Il s’agit d’une introduction à la traduction d’un hymne śākta de mantra yoga. Son titre Śāktism non duel ne le place nullement dans le champ d’application du Vedānta śaṃkarien, étant donné qu’il se réfère exclusivement aux rites, fêtes, vœux, méditations, invocations, à tout ce qui relève du domaine du karma et non du jñāna. Nous ne nous lasserons jamais de répéter qu’il ne faut pas relier sans réserve le mot advaita au Vedānta śaṃkarien chaque fois qu’on le rencontre. Nous avons également signalé cela pour les termes sāṃkhya et yoga, qui ne désignent leurs darśana homonymes que dans certaines circonstances ; et il en va de même pour mīmāṃsādhyānapratyāhāra et mille autres mots sanskrits qui ont des applications variées et des nuances de sens différent.

En conclusion, malgré les nombreuses réserves que nous avons justifiées par rapport à quelques contenus de cette revue, nous pensons qu’elle peut être utile pour ceux qui ont déjà développé une compréhension stable de la doctrine de la non-dualité. En particulier, nous recommandons vivement les articles qui ont abordé le cœur du problème et apporté un éclairage nouveau sur des questions difficiles à comprendre. Nous espérons que les éditeurs poursuivront dans cette voie, en améliorant encore la qualité générale et en élargissant l’éventail des informations doctrinales.

🇪🇸 Hemos recibido un número único de la revista francesa Aditi, dedicado al Advaita Vedānta que trata varios temas importantes que se pueden ya encontrar en nuestro Sitio Veda Vyāsa Maṇḍala.

Renaud Fabbri, “Éditorial” (Editorial); Swami Yogananda Sarasvati (tr. par) “Ratha-kalpanā”; Martine Chifflot, “Le moi, le monde et Dieu: perspectives dualistes et non-dualistes du Vedānta” (El yo, el mundo y Dios: perspectivas dualistas y no dualistas del Vedānta); Ira Schepetin, “Vedānta traditionnel et néo-Vedānta” (Vedānta tradicional y neo-Vedānta); Renaud Fabbri, “Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī ou la critique de la raison vedāntique” (Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī o la Crítica de la Razón vedāntica); Armandine Girard “La notion d’ahaṃkāra” (El concepto de ahaṃkāra); Vasanthi Srinivasan, “Émerveillement incandescent : le raisonement analogique dans la Viśiṣṭādvaita” (Asombro incandescente: el razonamiento analógico en el Viśiṣṭādvaita); David Dubois, “Advaita Vedānta et Shivaisme du Cachemire : unité ou dualité?” (El Vedānta Advaita y el Shivaísmo de Cachemira: ¿Unidad o dualidad?); Felix Herkert [éd. par] “Svāmī Karpātrī. L’unité des religions [Dharmon kī ektā]” (Svāmī Karpātrī. La unidad de las religiones [Dharmon kī ektā]); Pierre Bonnasse, “Śāktādvaita-Sādhanā-Sāra. L’Essence de la practique spirituelle du Śaktisme non-duel” (Śāktādvaita-Sādhanā-Sāra. La esencia de la práctica espiritual del Śaktismo no dual).

Éditorial. La revista se abre con una nota del editor jefe M. Renaud Fabbri, que connota correctamente el Vedānta no dual como la doctrina metafísica enseñada en la línea iniciática de Gauḍapāda, Śaṃkara y Sūreśvara. La breve presentación introduce el Advaitavāda indicando en el Mahāvākya “tú eres Eso”, la identidad del Ātman ‘de cada uno’ con el Brahman absoluto. A este respecto, M. Fabbri utiliza el término guénoniano de “identidad suprema”, cuyo sentido no parece aquí del todo inadecuado. Sin embargo, debería evitarse ya que vuelve a proponer la traducción errónea de Iván Aguéli de la fórmula sufí waḥdāt al-wujud. Podemos añadir que el redactor jefe aproxima el concepto śaṃkariano de mokṣa a la realización espiritual descrita en las Enéadas de Plotino, que se mantendría en el tiempo a través de “Las vías místicas, tanto cristianas como musulmanas”. Esta inclinación hacia el neoplatonismo, de inspiración “perennialista”, se encuentra en otras contribuciones a lo largo de la publicación. Por lo tanto, es necesario aclarar. El emanacionismo plotiniano es en cierto modo comparable a la doctrina sāṃkhya del satkāryavāda (al igual que su opuesto, el creacionismo ex nihilo semítico, tiene cierto parecido con el asatkāryavāda del Nyāya). La teoría satkārya sostiene que el efecto es preexistente en la causa en forma de posibilidad: los veintitrés tattvas producidos por la Prakṛti no son más que exterinaciones o modificaciones de la misma causa material. La doctrina de la causalidad asatkārya de los naiyāyika, en cambio, sostiene que el efecto previamente inexistente se produce ex novo. Ninguna de estas doctrinas es reconocida como válida por el Advaita Vedānta. Su posición es vivartavāda, la doctrina de la irrealidad: el efecto es una apariencia irreal superpuesta a la causa. Y, puesto que sin efecto la causa no es causa, no hay causa ni efecto. Así, se confirma la no dualidad de Brahmātman. El no-dual, por tanto, no es asimilable a la idea del Uno neoplatónico, que puede situarse mejor en las ciencias del no-supremo (aparabrahma vidyā).

Ratha-kalpanā. (Introduction – Extrait et commentaire). El invitado de honor que abre la serie de contribuciones es Swami Yogananda Sarasvati, un francés que tiene su escuela en Francia, discípulo del controvertido gurú de Yoga Swami Satchidananda, fundador del Instituto de Yoga Integral de San Francisco, a su vez discípulo de Svāmī Śivānanda, fundador de la escuela yóguica Divine Life Society de Ṛṣikeśa. La introducción ya presenta algunos malentendidos característicos de quienes interpretan el advaitavāda a la luz del pātañjala yoga, como: “[El Brahman] ayant projecté le monde, il y entre pour l’animer en se reflétant sur l’intellect, prenant ainsi la forme du jīvātman, le soi individual vivant”. (p. 11) Que el Brahman proyecte el mundo y que el jīvātman sea una forma distinta de Aquello no es ciertamente una doctrina advitīya. Más adelante (pp. 14-15), el autor atribuye al conocimiento el anubandha catuṣṭaya (tema, propósito, método de enseñanza y persona cualificada para recibirlos) que, en cambio, son las motivaciones de la enseñanza oral (śābda pramāṇa). Sigue la traducción de nueve ślokas (I.3.3-11) de la Kaṭha Upaniṣad, comentada por el mismo Swami Yogananda. Aquí de nuevo nos encontramos con un error de interpretación. La Upaniṣad, en sus líneas anteriores, describe el proceso de purificación de la mente comparando los diferentes componentes del antaḥkaraṇa con un carro de combate: “El hombre que tiene el discernimiento como cochero y sujeta la brida de su mente llega al final del camino, a la Morada Suprema de Viṣṇu que todo lo penetra”. (KU I.3.9). El autor, en su comentario, dice: “Este es el estado del Yo supremo, siendo el estado no supremo o inferior el del yo individual, sujeto a la transmutación por falta de discernimiento. El fruto del autoconocimiento es, pues, la liberación, el fin del gran sueño cósmico, el despertar espiritual. Es la consecución del destino final, la Morada Suprema de Viṣṇu” (p. 21). Ahora bien, puesto que mokṣa no se alcanza al final de ningún recorrido ni puede considerarse un destino o morada final, es evidente que la Morada Suprema de Viṣṇu no es otra que el Brahmaloka cuando se sumerge en el pralaya, como está bien expuesto en Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya (IV.3.10). La purificación de la mente es preparatoria para el jñāna mārga, pero no es suficiente para asegurar la Liberación. Por sí misma puede conducir, como mucho, al Brahmaloka y a la Morada de Viṣṇu, pero siempre y sólo al concluir el camino póstumo del Devayāna. También se demuestra en el śloka 11 que, como es lógico, va más allá de la etapa de la Morada de Viṣṇu, afirmando: “Superior a lo no manifestado [el Pradhānaes el Puruṣa. Nada es superior al Puruṣa. Esa es la culminación. Es la meta suprema” (p. 23).

Le moi, le monde et Dieu: perspectives dualistes et non-dualistes du Vedānta. M.me Martine Chifflot escribe un artículo que revela un gran amor por las doctrinas del hinduismo, aunque haya decidido permanecer en el seno del cristianismo. Revisando en lo posible las enseñanzas evangélicas a la luz de sus estudios vedánticos, expresa a sus lectores su sensación de satisfacción y paz. Nada censurable en esto, siempre que no se fuerzen los propios textos sagrados y se retuerzan sus interpretaciones en busca de supuestos rastros de no dualidad. Este artículo se basa en la siguiente convicción: “Comme l’a bien vu René Guénon, ce serait une erreur de souligner les différences [entre las distintas escuelas del Vedānta] au point d’y voir des contradictions” (pp. 54-55). Sin embargo éste es precisamnte el caso. A excepción del Advaita, todas las demás escuelas de Vedānta contradicen la no-dualidad en diversos grados, aunque se llamen a sí mismas Viśiṣṭa advaitaDvaita advaitaŚuddha advaita y así sucesivamente. De un modo u otro separan irreductiblemente la realidad de Brahman de la del jagat y de los jīva. El advaitavāda, por lo contrario, declara ser el Brahman la única Realidad. Con mayor razón, el vivekin está obligado a identificar y corregir el error del mūlāvidyāvāda que contamina algunas corrientes del propio Advaita Vedānta. Que la autora del artículo no esté muy familiarizada con el advaitavāda lo demuestra también el hecho que, haciendo breves apuntes sobre la doctrina de la Māṇḍūkya Upaniṣad, afirma que la repetición del Oṃkāra permite al vivekin conocer al Brahman-Ātman (p. 45), como si los advaitins siguieran el método de japa en uso en las vias del kāṇḍa karma. M.me Chifflot cita y comenta algunos pasajes destacados de Prakāśānanda, sin darse cuenta de que este autor tardío (siglo XVI) había ya entendido que la doctrina de los postśaṃkarianos conllevava un dualismo artificial con la coeternidad de Brahman y de la ignorancia (mūlāvidyā). Sin embargo, el intento de Prakāśānanda de remediar a esto complicó aún más el asunto. De hecho, argumentó que el estado de sueño está compuesto por objetos inexistentes del mundo onírico, proyectados por la mente del soñador. Al despertar, se obtiene la certeza de que tanto el soñador como los objetos del mundo onírico eran asat. Así, el mundo de la vigilia, sus objetos y la propia persona despierta son un sueño del Brahman que desaparece al despertar como la serpiente cuando se conoce la cuerda. La propia autora señala que esto conduce a una perspectiva solipsista, sin explicar por qué. De hecho, para demostrar realmente la inexistencia del ajñāna hay que recurrir no sólo a la vigilia y al sueño, sino especialmente al vicāra sobre el sueño profundo.

Vedānta traditionnel et néo-Vedānta. M. Ira Schepetin utiliza el término neo-Vedānta en un sentido más amplio que el habitual. Normalmente, el neo-Vedānta significa el modernismo hindú, fuertemente contaminado por el cientificismo, el moralismo protestante y el igualitarismo social. El autor también incluye entre los neo-Vedāntins a los que llamamos ‘postśaṃkarianos’. Esta ampliación del significado del término es totalmente comprensible y compartible. Continúa con una breve pero pregnante crítica a la doctrina desviada de la mūlāvidyā en trece puntos, en la que sigue atentamente las enseñanzas del gran Gurú advaitinSvāmī Jñānandendra Sarasvatī Mahārāja. Es un artículo muy recomendable para la reflexión.

Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī ou la critique de la raison vedāntique. M. Renaud Fabbri ha dedicado un artículo conspicuo para describir la restauración de la pura doctrina de Śaṃkara Bhagavatpāda para corregir las alteraciones del Advaita de los postśaṃkarianos. Tal trabajo de restauración le valió a Svāmījī la reputación de Abhinava Śaṃkara, el nuevo Śaṃkara. El artículo, verdaderamente excelente, da una imagen precisa de la doctrina de las tres avasthās y, sobre todo, de su uso metódico, tema completamente desconocido en Occidente hasta que las páginas vedānticas del Veda Vyāsa Maṇḍala lo dieron a conocer. Es una contribución importante y recomendable para todos aquellos que están sinceramente interesados en el Vedānta vicāra. El único inconveniente es que no está claro por qué M. Renaud Fabbri ha insistido, en su escrito, en insertar una cuña entre Svāmījī y K.A. Krishnaswamy Iyer, que ha sido uno de sus Gurús más importantes y amigo personal. Es cierto que Iyer a menudo citaba filósofos y hombres de letras occidentales, ciertamente en términos poco halagadores. El mismo Svāmījī mencionaba y criticaba autores occidentales en sus notas. Por otro lado, los dos Gurus poseían una sólida cultura que les permitía lanzar sus críticas con gran autoridad. Por otro lado, también el autor de esta contribución no se abstuvo de citar dos pensamientos sorprendentemente interesantes de Descartes y Schopenhauer.

La notion de ahaṃkāra. La autora de estas páginas, M.me Armandine Girard, se aventura en el tema de ahaṃkāra confiando en lo que dicen los indólogos. De hecho, el término designa a la buddhi que, reflejando la Conciencia del Ātman, produce (kāra) el sentido ilusorio del ser individual (aham). Por otra parte, la afirmación de que “Producir el yo” en origen significaría “gritar yo”, no tiene algun sentido. La autora, siguiendo de nuevo los pasos de Michel Hulin, argumenta que este término indica también lo que se entiende por egoísmo, que en cambio corresponde mejor a la asmitā sánscrita. Más tarde, esta vez confiando en G.J. Larson, interpreta el ahaṃkāra upaniṣadico basándose en el SāṃkhyaYoga de la Bhagavad Gītā, considerado evolutivamente como un proto-Sāṃkhya darśana. Esto, también, es un descuido muy serio ya que la combinación Sāṃkhya-Yoga de la Gītā no tiene nada que ver con los homónimos darśanas sino que designa la doctrina y el método del Advaita Vedānta. Este es un error en el que a menudo caen los profanos, confundidos por la coincidencia de los términos. Āhaṃkāra en el Sāṃkhya, en el tantrismo y en la bhakti, es un tattva, una realidad. En el advaitavāda, por lo contrario, es pura apariencia falta de toda realidad. M.me Girard iguala Śrī Rāmaṇa Maharṣi, que bien sabía que la única Realidad (tattva) es el Ātman no dual, a Śrī Anirvāṇa que se basa en el Sāṃkhya darśana para explicar la realización como el regreso del ahaṃkāra a su “point de départ”.

Émerveillement incandescent: le raisonement analogique dans la Viśiṣṭādvaita. “Ananda Coomaraswamy faisait une fois remarquer que penser sous forme d’images et de symbols était le langage «adéquat» de la métaphysique”. Así comienza el artículo de M.me Vasanthi Srinivasan. Aunque sea un pensamiento generalizado en los círculos tradicionalistas, la realidad no es esta. La imagen y el símbolo son instrumentos para aquellos recorridos iniciáticos que los utilizan de apoyo para la meditación. Especialmente las meditaciones superiores son aliṅga upāsanā, ya que tienen que ignorar el uso del símbolo exterior, así como su imagen interiorizada (antardṛṣṭi), aunque todavía estén dentro del dominio del karma kāṇḍa. El advaitavāda procede mediante la eliminación de todas las formas por medio de la discriminación ‘neti neti’. El resto del artículo ofrece varias ideas interesantes, que, sin embargo, no conciernen al sujeto del Advaita Vedānta de esta publicación.

Advaita Vedānta et Shivaisme du Cachemire: unité ou dualité? No podía faltar una contribución sobre el llamado Shivaísmo de Cachemira, una verdadera obsesión para los occidentales y que, gracias a su martilleo, empieza a infectar el ambiente académico indio. M. David Dubois propone otra comparación entre el Trika antes mencionado y el Vedānta śaṃkariano, obviamente en beneficio del primero. Puesto que el advaitavāda afirma que la existencia del mundo manifestado y de los seres que lo habitan, es decir la dualidad, es ilusoria, este artículo lo define como ‘exclusivo’. Por el contrario, esa corriente tántrica sería ‘inclusiva’ porque integra la dualidad en el Absoluto. Esta es otra manera de decir que, en su nivel, la dualidad también disfruta de su propia realidad dentro del Absoluto. Esta es otra manera de decir que, a su nivel, la dualidad también disfruta de su propia realidad dentro del Absoluto. Basándose en los Tantras del Trika, M. Dubois informa que para ese recorrido iniciático no hay incompatibilidad entre la Liberación (mokṣa) y la fruición (bhoga) de los frutos de la acción. De hecho, la fruición tiene lugar en el saṃsāra, mientras que mokṣa es precisamente la Liberación del saṃsāra, es decir, del devenir, de la acción, de toda relación, como la de bhoktṛ y bhogya. Esto es suficiente para darnos cuenta de que también en el caso del Trika nos enfrentamos a un uso inadecuado del concepto de no dualidad. Siendo la transmisión iniciática del Trika definitivamente extinta, el autor de este artículo afirma que sobrevive en el sur de la India bajo el nombre de Śrī Vidyā. Aparte el hecho de que Śrī Vidyā hoy en día florece también en el norte, no es cierto que esta tradición śākta sea una derivación del “shivaísmo cachemiro”, ya que tiene una paramparā, una doctrina y nos textos tántricos propios. Además, a diferencia del TrikaŚrī Vidyā nunca ha tomado posiciones doctrinales conflictivas o divergentes del Advaita Vedānta; de hecho, siempre ha florecido y todavía florece entre los Pīṭhas y Maṭhas śaṃkarianos, siendo sus Jagadgurus maestros de ambas vías iniciáticas. En cualquier caso, los advaitins consideran Śrī Vidyā como una eficaz introduccion intelectual a la vía del conocimiento (jñāna mārga).

Svāmī Karpātrī. L’unité des religions [Dharmon kī ektā]. M. Felix Herkert presenta su traducción de hindī del artículo de Svāmī Karpātrī Mahārāja “Unidad de las religiones” (Dharmon kī ektā). Describe la personalidad tradicional y la alta función de Svāmījī, también conocido en todas partes por los títulos de Abhinava Śaṃkara (nuevo Śaṃkara) y también de Dharma Samrāṭ (emperador del dharma). A pesar del gran respeto y admiración, que muestra por el gran ācārya de Vedānta (y de Śrī Vidyā), M. Herkert insinúa que Svāmījī reformuló el concepto de sanātana dharma como una “autodesignación de la unidad de la tradición védica principalmente en distinción de otras religiones”. Este punto de vista está en consonancia con un rumor malicioso que en la actualidad recorre las universidades con el objetivo de negar al hinduismo su identidad desde tiempos inmemoriales. Con eso se dice que el hinduismo es una yuxtaposición de diferentes religiones de los más dispares orígenes que recientemente se han unificado artificialmente con fines nacionalistas bajo el nombre de sanātana dharma. No es casualidad que M. Herkert cite a Wilhelm Halbfass, según el cual “[Svāmī Karpātrī] a élaboré comme une difference par rapport a l’hindouisme pré-moderne et traditionnel: à savoir, que le sanātana dharma est devenu de plus en plus important dans les auto-identifications hindoues qui ont émergé, en particulier depuis le XIXème siècle au cours de la rencontre de l’Inde avec l’Occident” (p. 124). Halbfass pertenecía, de hecho, a esa corriente de indólogos que detestan la India y propagan esas teorías para demoler la tradición eterna. Es cierto que Svāmī Karpātrī cumplió una función social, inspirando incluso la fundación de un partido tradicional hindū con el (vano) intento de oponerse a una deriva gandhiana anticasta, socialista y proislámica para una India libre del dominio británico. Se trataba del Rām Rājya Pariṣad, que proclamaba el reino ideal de Rāma como su modelo de Estado. M. Herkert añade que Svāmījī también fundó el movimiento nacionalista Dharma Saṃgha, siguiendo la información tendenciosa de Alain Daniélou (que ya ha sido refutada por los libros de M. J.L. Gabin). En realidad, el Svāmī fundó el Dharma Saṃgha Śikṣā Maṇḍala en Benarés, una institución de enseñanza tradicional en sánscrito para niños y adolescentes. El artículo Dharmon kī ektā, lejos de propagar cualquier unidad “trascendente” o “fundamental” de las religiones-tradiciones, reconoce que todas están unidas en la defensa de los valores de la ahiṃsā (el comportamiento de no producir sufrimiento a los seres conscientes, aquí traducido gandhianamente como “no violencia”) y la verdad según sus perspectivas. Sin embargo, Karpātrījī se abstuvo de considerar todas las formas tradicionales como ‘completas’ y ‘equivalentes’ y distinguió tajantemente entre la tradición eterna (sanātana dharma) y las tradiciones y religiones surgidas en el curso de la historia de la humanidad, fundadas por una persona bien identificada (curiosamente, Svāmījī omitió mencionar a Moisés entre los fundadores históricos de religiones). El artículo es interesante, aunque no representa la cumbre de la producción intelectual de Karpātrī. Sin embargo, aunque Svāmī Karpātrī Mahārāja era un maestro de Vedānta, también aquí cabe preguntarse por qué este artículo aparece en un número de la revista dedicado al Advaita.

Śāktādvaita-Sādhanā-SāraL’Essence de la practique spirituelle du Śaktisme non-duel. Las mismas reservas que hemos expresado al reseñar algunos de los artículos anteriores pueden hacerse sobre la contribución de M. Pierre Bonnasse. Se trata de una introducción a la traducción de un himno śākta de mantras de yoga. El hecho de que se titule Śāktismo no dual no lo sitúa en absoluto en el ámbito del Vedānta Śaṃkariano, refiriéndose exclusivamente a los ritos, las fiestas, los votos, las meditaciones, las invocaciones, a todo lo que es pertinente en el ámbito del karma y no del jñāna. No nos cansaremos de repetir que cada vez que se encuentre la palabra advaita no se debe relacionarla acríticamente con el Vedānta śaṃkariano. Hemos señalado esto también para los términos sāṃkhya y yoga, que sólo en ciertos circunstancias designan a sus homónimos darśana; y lo mismo ocurre con mīmāṃsādhyānapratyahara y mil otras palabras sánscritas que tienen aplicaciones variadas y matices de significados diferentes.

En conclusión, a pesar de las muchas debidas reservas sobre algunos contenidos de esta revista, es nuestra opinión que puede ser útil para quienes ya han desarrollado una comprensión estable de la doctrina de la no-dualidad. En particular, recomendamos los artículos que dan en el blanco propuesto, aportando nueva luz a cuestiones no siempre fáciles de entender. Esperamos que los editores continúen en esta dirección, refinando aún más la calidad general y ampliando la gama de información doctrinal.

🇬🇧 We have received a unique issue of the French journal Aditi, committed to Advaita Vedānta which develops several important subjects dealt with our Veda Vyāsa Maṇḍala Site.

Renaud Fabbri, “Éditorial” (Editor’s note); Swami Yogananda Sarasvati (tr. par) “Ratha-kalpanā”; Martine Chifflot, “Le moi, le monde et Dieu: perspectives dualistes et non-dualistes du Vedānta” (The ‘I’, the world and God: dualist and non-dualist perspectives in Vedānta); Ira Schepetin, “Vedānta traditionnel et néo-Vedānta” (Traditional Vedānta and neo-Vedānta); Renaud Fabbri, “Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī ou la critique de la raison vedāntique” (Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī or the Critique of Vedāntic Reason); Armandine Girard “La notion d’ahaṃkāra” (The concept of ahaṃkāra); Vasanthi Srinivasan, “Émerveillement incandescent : le raisonement analogique dans la Viśiṣṭādvaita” (Incandescent wonder: analogical reasoning in the Viśiṣṭādvaita); David Dubois, “Advaita Vedānta et Shivaisme du Cachemire : unité ou dualité?” (Advaita Vedānta and Shivaism of Kashmir: Unity or Duality?); Felix Herkert [éd. par] “Svāmī Karpātrī. L’unité des religions [Dharmon kī ektā]” (Svāmī Karpātrī. The Unity of Religions [Dharmon kī ektā]); Pierre Bonnasse, “Śāktādvaita-Sādhanā-Sāra. L’Essence de la practique spirituelle du Śaktisme non-duel” (Śāktādvaita-Sādhanā-Sāra. The Essence of the Spiritual Practice of Non-Dual Śaktism).

Éditorial. The journal opens with a note by editor-in-chief M. Renaud Fabbri, who correctly connotes the non-dual Vedānta as the metaphysical doctrine taught in the initiatic line of Gauḍapāda, Śaṃkara and Sūreśvara. The short presentation of the Advaitavāda points the Mahāvākya “you are That” as the identity of the ‘everyone’s’ Ātman with the absolute Brahman. M. Fabbri uses the Guénonian term of ‘supreme identity’, which in this context does not appear entirely inadequate here. However, it should be avoided since it re-proposes the Ivan Aguéli’s erroneous translation of the Sufic formula waḥdāt al-wujud. Moreover, the chief editor approximates Śaṃkara’s concept of mokṣa to the spiritual realisation described in Plotinus’ Enneads, preserved in time through ‘les voies mystiques tant chrétiennes que musulmanes’ (in both Christian and Muslim mystic paths). This attraction towards Neo-Platonism, a trace of ‘perennialist’ inspiration, is found in other contributions throughout the publication. It is therefore necessary to add further clarifications. Plotinian emanationism is in some ways comparable to the sāṃkhya doctrine of satkāryavāda (as its opposite, the Semitic ex nihilo creationism, bears some resemblance to the Nyāya’s asatkāryavāda). The satkārya theory holds that the effect is pre-existent into the cause in the form of possibility: the twenty-three tattvas produced by the Prakṛti are nothing but extrinsications or modifications from the same material cause. The doctrine of asatkārya causality of the naiyāyikas, on the other hand, holds that the effect is produced ex novo and was previously non-existent. The Advaita Vedānta does not acknowledge as valid neither of these doctrines. Its position is vivartavāda, the doctrine of unreality being the effect unreal appearance superimposed on the cause. And, since without effect the cause is no cause, there is no cause and no effect. Thus, the non-duality of Brahmātman is confirmed. Therefore, the Non-dual, is not assimilable to the idea of the Neo-Platonic One, closer to the non-Supreme sciences (aparabrahma vidyā).

Ratha-kalpanā (Introduction – Extrait et commentaire). The guest of honour who opens the series of contributions is Swami Yogananda Sarasvati, a Frenchman who teaches in France, disciple of the controversial Yoga Guru Swami Satchidananda, founder of the Integral Yoga Institute in San Francisco, in turn disciple of Svāmī Śivānanda, founder of the Ṛṣikeśa’s yogic schoolof Divine Life Society. In the introduction one can already find the typical misunderstandings of those who interpret advaitavāda in the light of pātañjala yoga, such as: “[The Brahman] ayant projecté le monde, il y entre pour l’animer en se reflétant sur l’intellect, prenant ainsi la forme du jīvātman, le soi individual vivant” (p. 11). The fact that Brahman projects the world and that the jīvātman is a form other than That is certainly not an advitīya doctrine. Further on (pp. 14-15), the author attributes to knowledge the anubandha catuṣṭaya (subject, purpose, method of teaching and qualified person) which are, instead, the reasons for oral teaching. (śābda upadeśa). Then follows the translation of nine ślokas (I.3.3-11) from the Kaṭha Upaniṣad, commented by Swami Yogananda, where we come across another error of interpretation. The Upaniṣad, in the preceding lines, describes the process of purification of the mind by comparing the different components of the antaḥkaraṇa to a battle chariot: “The man, however, who has as his charioteer a discriminating intellect, and who has under control the reins of his mind, attains the end of the path, and that Supreme Abode of the all-pervasive Viṣṇu.” (KU I.3.9). The author, in his commentary, says: “This is the state of the supreme Self, being the non-supreme or inferior state that of the individual self, subject to transmutation through lack of discernment. The fruit of Self-knowledge is therefore liberation, the end of the great cosmic dream, the spiritual awakening. It is the attainment of the final goal, the Supreme Abode of Viṣṇu” (p. 21). Now, since mokṣa is not attained at the end of any path nor can be regarded as a final goal or abode, it is evident that the Supreme Abode of Viṣṇu is none other than the Brahmaloka when it merges in the pralaya, as it is well expounded in Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya (IV.3.10). The purification of the mind is preparatory to jñāna mārga, but not sufficient to secure mokṣa. At most it can lead to the Brahmaloka and to the Abode of Viṣṇu, but always and only at the conclusion of the posthumous path of Devayāna. It is also stated in the 11th śloka: “Superior to the unmanifested [the Pradhāna] is the Puruṣa. Nothing is superior to the Puruṣa. That is the culmination. It is the supreme goal” (p. 23).

Le moi, le monde et Dieu: perspectives dualistes et non-dualistes du Vedānta. M.me Martine Chifflot presents an article which reveals a great love for the doctrines of Hinduism, even though she has decided to remain within Christianity. By revisiting, whenever possible, the Gospel teachings in light of her Vedāntic studies, she expresses her feeling of satisfaction and peace. Nothing reprehensible, indeed, if this does not mean forcing one’s own sacred texts and twisting their interpretations in search of alleged traces of non-duality. This article is based on the following conviction: “Comme l’a bien vu René Guénon, ce serait une erreur de souligner les differences [among the different schools of Vedāntaau point d’y voir des contradictions” (pp. 54-55). Unfortunately, this is not the case. Except for the Advaita, all other schools of Vedānta contradict non-duality to varying degrees, while calling themselves Viśiṣṭa AdvaitaDvaita AdvaitaŚuddha Advaita and so on. Either way they irreducibly separate the reality of Brahman from those of jagat and jīva. The advaitavāda, on the contrary, declares the Brahman as the sole Reality. A fortiori, the vivekin has to identify and correct the error of mūlāvidyāvāda that pollutes some schools of Advaita Vedānta. It is clear that the author of the article is not very familiar with advaitavāda. In fact, in her brief notes on the doctrine of the Māṇḍūkya Upaniṣad, she states that the repetition of the Oṃkāra enables the vivekin to know the Brahman-Ātman (p. 45); but advaitins do not follow the japa method used in kāṇḍa karma ways. Further on, M.me Chifflot quotes and comments some salient passages of Prakāśānanda, without realizing that this late author (16th century) had pointed out that the mūlāvidyā of the post-Śaṃkara Vedāntins had created an artificial dualism through co-eternity of Brahman and ignorance. However, attempting to remedy this error, Prakāśānanda complicated the subject even more. In fact, he argued that the dream state is composed by non-existent objects of the dream world, projected by the dreamer’s mind. On awakening, one obtains the certainty that both the dreamer and the objects of the dream world were asat. Thus, the waking world, its objects, and the waking person himself are a dream of the Brahman that disappear on Its waking (But when does Brahman ever sleep or wake up?). The author herself points out that this leads to a solipsistic perspective, without explaining why. In fact, to really demonstrate the non-existence of ajñāna one must refer not only to wake and dream state, but especially to the vicāra on deep sleep.

Vedānta traditionnel et néoVedāntaM. Ira Schepetin uses the term new Vedānta in a broader sense than usual. In fact, new Vedānta means Hindū modernism, strongly contaminated by scientism, Protestant moralism and social egalitarianism. The author also includes among the new Vedāntins the so-called ‘post Śaṃkara Vedāntins’. This extension of this term meaning is to be welcome. He continues with a brief but meaningful critique of the deviated doctrine of mūlāvidyā in thirteen points, attentively following the teachings of the great Advaitin GuruSvāmī Jñānandendra Sarasvatī Mahārāja. It is an article highly recommended for reflection.

Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī ou la critique de la raison vedāntique. M. Renaud Fabbri has dedicated a conspicuous paper to describe the restoration of the pure doctrine of Śaṃkara Bhagavatpāda as a refutation of the alterations of Advaita of the ‘post-Śaṃkara Vedāntins’. Such work of recovery earned Svāmījī the reputation of being an Abhinava Śaṃkara, a new Śaṃkara. The article, truly excellent, gives an accurate picture of the doctrine of the three avasthās and, above all, of its methodical use, a topic entirely unknown in the West until the Vedāntic publications of Veda Vyāsa Maṇḍala. It is an important contribution and recommendable to all those who are sincerely interested in Vedānta vicāra. The only discordant note is that M. Renaud Fabbri has insisted on puting a wedge between Svāmījī and K.A. Krishnaswamy Iyer, one of his most important Gurus, as well as his close friend. It is true that Iyer often quoted Western philosophers and writers, admittedly in unflattering terms, but Svāmījī too occasionally mentioned and criticised Western authors. The two Gurus had a solid culture that allowed them to criticize with great confidence and authority. Actually, the same author in this contribution did not refrain from quoting two surprisingly interesting thoughts of Descartes and Schopenhauer.

La notion de ahaṃkāra. The author of these pages, M.me Armandine Girard, ventures into the subject of ahaṃkāra trusting what the Indologists say about it. In fact, that term designates the buddhi that, by reflecting the Consciousness of Ātman, produces (kāra) the illusory sense of the individual self (aham). Moreover, the statement that “Producing the ‘I’” would originally mean “to shout ‘I’”, is completely a nonsense. The author, now following Michel Hulin, argues that this term also indicates egoism, which instead corresponds to the Sanskrit asmitā. Later, trusting G.J. Larson, she interprets the upaniṣadic ahaṃkāra on the bases of the Sāṃkhya-Yoga of the Bhagavad Gītā, that she considers as a proto-Sāṃkhya darśana. This is a serious mistake because the combination Sāṃkhya-Yoga has nothing to do with the homonymous darśana. Instead in the context of Gītā it designates the doctrine and the method of Advaita Vedānta. This is a common misunderstanding due to the coincidence of the terms. Āhaṃkāra in Sāṃkhya, in tantrism and in bhakti, is a tattva, a real object. In advaitavāda, on the contrary, it is pure appearance without reality. Furthermore M.me Girard puts on a par Śrī Ramaṇa Maharṣi, who well knew that the only Reality (tattva) is the non-dual Ātman, and Śrī Anirvāṇa who explains in light of the Sāṃkhya darśana the realization as the return of the ahaṃkāra to its ‘starting point’.

Émerveillement incandescent: le raisonement analogique dans la Viśiṣṭādvaita. “Ananda Coomaraswamy faisait une fois remarquer que penser sous forme d’images et de symbols était le langage «adéquat» de la métaphysique”. Thus begins the article of M.me Vasanthi Srinivasan. Although this is a widespread thought in traditionalist circles, it is not so. Images and the symbols are tools used by initiatic paths as a support for meditation. However, although they are still within the karma kāṇḍa, the meditations of highest degree are aliṅga upāsanās, avoiding the use of the external symbols as well as the internalised images (antardṛṣṭi). On the contrary, the advaitavāda proceeds by removing all forms through ‘neti neti’ discrimination. The rest of the article offers several interesting insights, which, however, do not concern the Advaita Vedānta subject of the publication.

Advaita Vedānta et Shivaisme du Cachemire: unité ou dualité? A contribution on the so-called Kashmir Shivaism could not be missing. This is a real obsession for Westerners and, due to their hammering, it is infecting also the Indian academic circles. M. David Dubois compares once again the aforementioned Trika to the Śaṃkara Vedānta, obviously to the advantage of the former. According to this author the advaitavāda is ‘exclusive’ because it affirms the unreality of the manifested world. On the contrary, that tantric Trika is ‘inclusive’ because it includes the duality in the Absolute. This means that, at its level, duality also enjoys its own reality within the Absolute. Furthermore, on the base of Trika Tantras, M. Dubois states that in that initiatic path there is no incompatibility between Liberation (mokṣa) and fruition (bhoga). Actually, the fruition of the karmic results takes place in the saṃsāra, while mokṣa is precisely Liberation from the saṃsāra, namely, from becoming, from action, from every relation of enjoyer-enjoyed (bhoktṛ-bhogya). Thus, also in the case of the Trika we face an improper use of the concept of non-duality. Finally, since the initiatic transmission of the Trika is definitely extinct, the author claims that it is still alive in Southern India under the name of Śrī Vidyā. Besides the fact that Śrī Vidyā is thriving also in Northern India, it is false that this śākta tradition is a derivation of “Kashmiri Shivaism”, as it has its own paramparā, a doctrine and tantric texts. Moreover, unlike the TrikaŚrī Vidyā has never taken polemical and divergent doctrinal positions against the Advaita Vedānta; indeed, it has always flourished and still flourishes among the Śaṃkara Pīṭhas and Maṭhas and their Jagadguru are Gurus of both initiatic paths. In any case, Śrī Vidyā is considered by the advaitins as a powerful intellectual start towards the path of knowledge (jñāna mārga).

Svāmī Karpātrī, L’unité des religions [Dharmon kī ektā]. M. Felix Herkert presents his Hindī translation of Svāmī Karpātrī Mahārāja’s article “Unity of Religions” (Dharmon kī ektā). There is a description of the traditional personality and the high function of Svāmījī, also known everywhere by the titles of Abhinava Śaṃkara (new Śaṃkara) and also Dharma Samrāṭ (emperor of dharma). Despite the great respect and admiration that he demonstrates towards the great ācārya of Vedānta (and Śrī Vidyā), M. Herkert insinuates that Svāmījī reformulated the concept of sanātana dharma as a “auto-désignation de l’unité de la tradition védique principalement en distinction des autres religions”. This view is in line with a malicious rumour that has been spread in the last decades in the Academia with the aim of denying the immemorial origin of Hinduism. In this way Hinduism would become a juxtaposition of different religions of the most disparate origins recently artificially unified for nationalistic purposes under the name of sanātana dharma. It is not coincidental that M. Herkert quotes Wilhelm Halbfass, according to whom “[Svāmī Karpātrī] a élaboré comme une difference par rapport a l’hindouisme pré-moderne et traditionnel: à savoir, que le sanātana dharma est devenu de plus en plus important dans les auto-identifications hindoues qui ont émergé, en particulier depuis le XIXème siècle au cours de la rencontre de l’Inde avec l’Occident” (p. 124). Halbfass belonged in fact to that current of Indologists who detest India and propagate such theories to demolish the eternal tradition. It is true that Svāmī Karpātrī played a social function, even inspiring the foundation of a traditional Hindū party with the (vain) attempt to oppose the anti-caste, socialist and pro-Islamic Gandhian drift for India after Independence. This was the Rām Rājya Pariṣad, which proclaimed the ideal kingdom of Rāma as its state model. M. Herkert attributes to Svāmījī also the foundation the nationalistic movement Dharma Saṃgha, following the tendentious information of Alain Daniélou (already refuted by the books of Dr. J.L. Gabin). Actually, the Svāmī founded the Dharma Saṃgha Śikṣā Maṇḍala in Benares, an institution for traditional teaching in Sanskrit for children. The article Dharmon kī ektā, far from propagating any ‘transcendent unity of religions’ or ‘fundamental unity of traditions’, affirms as their only common ground the values of ahiṃsā (the behaviour of not producing suffering to conscious beings, here translated as Gandhian ‘non-violence’) and of truth according to their views. On the contrary, Karpātrījī did not consider all traditional forms as ‘complete’ and ‘equivalent’. He distinguished sharply between the eternal tradition (sanātana dharma) and the traditions and religions arisen in the course of human history and founded by a well-defined person (curiously, Svāmījī did not mention Moses among the historical founders of religions). The article is interesting, although it does not represent the best of Karpātrī’s production. However, although Svāmī Karpātrī Mahārāja was a Guru of Vedānta, it is not in line with the subject of this journal’s issue.

Śāktādvaita-Sādhanā-SāraL’Essence de la practique spirituelle du Śaktisme non-duel. The same reservations that we have expressed in reviewing some of the previous articles can be made about M. Pierre Bonnasse’s contribution. It is an introduction to the translation of a śākta hymn of yoga mantras. The ‘non-dual Śāktism’ mentioned in the title is not enough to place it within the scope of the Śaṃkara Vedānta, as it refers exclusively to rites, festivals, vows, meditations, invocations, to what is relevant to karma kāṇḍa and not to jñāna kāṇḍa. We will never stop repeating that coming across the word advaita does not allowed to identify it to the Vedānta of Śaṃkara. We have already stressed that the terms sāṃkhyayoga, and thousands of other Sanskrit words have different applications and meanings according to the context.

Despite the due reservations on some of the journal contents, in our opinion there are some pages very useful to those who have already developed a stable understanding of the non-dual doctrine. In particular, we highly recommend the articles that hit the target proposed, bringing new light to issues not easy to understand. It is our hope that the Editors will continue in this direction, further refining the overall quality and expanding the range of doctrinal information.