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Śrī Praśānt Neti

Mūlavidyā può essere considerata un adhyāropa a fine d’insegnamento?

La realtà è triplice?

Dubbio:

Mithyāasatanṛtam: sono questi i termini ontologici utilizzati dagli advaitin e dal Bhāṣyakāra? Il Bhagavad Gītā Śaṃkara Bhāṣya (II.16) e il Taittirīya Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya (II.1) sostengono una tale conclusione?

Risposta:

Per il Bhāṣyakāramithyā, asat e anṛtam indicano qualcosa di ontologico?

La risposta è un secco no.

Si faccia riferimento allo stesso Gītā Bhāṣya II.16 e si noti cosa Bhagavatpāda dice chiaramente:

In tutti i casi, infatti, si ha l’esperienza di due consapevolezze: la consapevolezza della realtà e la consapevolezza della non realtà. Ciò in cui la consapevolezza non cambia è reale; ciò in cui cambia è non reale. Quindi, poiché la distinzione tra reale e non reale dipende dalla consapevolezza, in tutti i casi (di esperienze empiriche) si hanno due tipi di consapevolezza rispetto allo stesso substrato: (come ad esempio le esperienze) ‘il vaso è reale’, ‘la stoffa è reale’, ‘l’elefante è reale’; (queste esperienze) non sono come quella di ‘un loto blu’. È così che accade sempre. Di queste due consapevolezze, la consapevolezza del vaso ecc. è incostante; e così è stato mostrato sopra. Ma la consapevolezza della realtà non è (incostante). Pertanto, l’oggetto della consapevolezza del vaso ecc. è irreale a causa della sua incostanza; ma così non è l’oggetto della consapevolezza della realtà, a causa della sua costanza.

La spiegazione presentata nel passaggio del Bhāṣya è sufficiente per concludere che mithyāasat anṛtam non sono ontologici, e che la stessa differenziazione in sat e asat è solo epistemologica in quanto asat è disponibile solo “per così dire” e limitata a (cioè disponibile all’interno del) l’errore conoscitivo chiamato adhyāsa, ovvero l’avidyā. Come insegna il Vedānta Śāstra, esiste una differenziazione tra sad-buddhi e asad-buddhi sovrapposte (apparentemente) sulla stessa Realtà (vastu sattā), cioè sul Brahman, l’unico Esistente.

Il vastu che esiste è sempre e solo Brahman. Tutta l’esistenza è solo di Brahman. Solo Brahman esiste. Nient’altro ha esistenza, insegna lo Śāstra. Ecco perché il Bhagavān Bhāṣyakāra usa l’eva (solo o soltanto) śābda nel suo sotto citato Taittirīya Upaniṣad Bhāṣya (II.1):

Sat eva satyam! (Solo ciò che esiste è Reale); satyam eva sat! (La Realtà sola esiste).

Asat-anṛtam è solo una modificazione apparente(vikāra). Il Bhāṣyakāra dice vikāro’nṛtam. Perciò vikāra non è una “esistenza” temporanea, come dicono i commentatori successivi. È un errore conoscitivo, non un’esistenza di livello inferiore” e nemmeno una “forma di esistenza”. Certo, l’errore può durare per un po’ e quindi può essere definito temporaneo, ma dobbiamo ricordare che non c’è mai stato un oggetto che sia esistito (anche solo temporaneamente) corrispondente a quell’errore.

L’idea di un serpente invece d’una corda è ovviamente temporanea, ma non è mai esistito alcun serpente che corrispondesse alla falsa conoscenza (mithyā-jñāna) chiamata serpente sovrapposto a una corda; non c’è nessun mithyā-serpente! Se ci fosse un falso serpente esistito provvisoriamente per davvero, cioè che è stato proiettato per un certo tempo dalla cosiddetta potenza dell’ignoranza (avidyā śakti), come sostengono i mūlāvidyāvādin, allora, per favore, lasciatemi dire che in questo caso la “conoscenza chiamata serpente” non sarebbe una conoscenza errata: tale conoscenza, dopo tutto, essendo corrispondente al vastu, non potrebbe essere definita ‘conoscenza errata’. I mūlāvidyāvādin sostengono che, nell’esempio della corda e del serpente, il serpente proiettato non è un vero serpente, ma un falso serpente (mithyāsarpa) positivamente presente. Nemmeno questo caso è accettabile. Per favore, non dite che per avere una falsa conoscenza debba esistere un falso oggetto e che questo sarebbe ciò che accade nel caso dell’esempio del serpente sulla corda. Se qualcuno insegna in questo modo, sbaglia completamente; si tratterebbe di un grossolano abuso dell’esempio del serpente sulla corda.

Nel Vedānta, lo scopo dell’esempio del serpente sulla corda è quello di farci capire come si possa avere conoscenza di qualcosa anche senza un oggetto esistente corrispondente a quella stessa conoscenza. Solo questo è lo scopo. Utilizzando questa analogia, lo Śāstra vuole sottolineare che la nostra conoscenza del mondo è solo falsa conoscenza (mithyā-jñāna) perché quel mondo non ha alcuna esistenza, in quanto “quel mondo” è solo una modificazione mentale dovuta a nome e forma (nāma-rūpa vikāra), privo di esistenza. Solo Brahman è l’intera esistenza; Brahman è l’unica vera esistenza indivisa e nāma-rūpa che sono meri elementi di differenziazione e limitazione dell’unico vero Brahman, cioè dell’unico esistente.

Ciò che è sempre esistito anche quando lo si prendeva per un serpente era solo la corda. Allo stesso modo, ciò che esiste sempre, anche quando lo percepiamo come mondo, è solo Brahman. Esiste una sola Realtà (sattā). Solo Brahman è sattāVyavahāra [il mondo empirico delle relazioni, percepito e pensato] non è una sattā. È una vera disgrazia che i commentatori successivi e i prakaraṇa grantha abbiano proposto la teoria più anti-vedāntica possibile, sostenendo che l’esistenza è triplice (sattā trividham).

Sattā è uno senza un secondo ed è solo Brahman. Inoltre, nemmeno sattā trividham può essere utile come adhyāropa.

Non si può affatto dire che anche la mūlāvidyā sia in fondo solo un adhyāropa. Presentarla come adhyāropa è solo una pia illusione. Ma in realtà non è adatta a essere un adhyāropa.

Ecco perché: adhyāropa è ciò che lo Śāstra vedico crea in linea con un’idea sbagliata che l’uomo trova naturalmente in sé ed è fatta per aiutarlo a trascendere quella stessa nozione. Ad esempio, “Īśvara” è un adhyāropa vedico che lo Śāstra riprende in base all’idea dell’ignorante (cioè dovuta ad adhyāsa) che considera la causa [del mondo] qualcosa di diverso da esso. In ogni adhyāropa che lo Śāstra presenta, ci sono due obiettivi.

  1. Correggere un’idea sbagliata: aiuta a correggere la nozione ādhyāsika che l’ignorante trova nel modo più naturale dentro di sé, in una nozione “migliore”, che può essere più avanti ritrattata.
  2. Consentire l’insegnamento del Brahman: così facendo, diventa possibile “presentare” Brahman (che per sua natura non può essere messo in relazione con alcunché), permettendo di descrivere Brahman in forma d’insegnamento. Vale a dire che Brahman, che è al di là di tutti i vyavahāra è, per così dire, reso disponibile a una relazione(vyavahāra) chiamata istruzione o insegnamento che avviene all’interno del piano dell’ignoranza (avidyā bhūmi) nel vyavahāra.

Ciò significa che quando l’ignorante guarda naturalmente questo jagat e ne cerca la causa in qualcos’altro, il Veda approfitta di questa malintesa spontanea ricerca d’una origine, presentando Īśvara come unica causa primordiale. È un adhyāropa perché Brahman nella sua Realtà esiste come uno senza un secondo e, quindi, pāramārthataḥ Brahman non è causa di nulla. È un adhyāropa, tuttavia aiuta a spostare il punto di vista e a correggere l’errore che si ha spontaneamente fin dalla nascita. L’errore che viene corretto, in questo caso, è quello di considerare causa qualcosa di diverso da Brahman. Presentare Brahman come Īśvara, la causa primordiale, è comunque un adhyāropa, che corregge l’errore di considerare “qualcos’altro” come causa. Se, leggendo queste righe, si è compreso il significato di adhyāropa e ancora si considera la mūlāvidyā un adhyāropa, e che la stessa mūlāvidyā sia una realtà ontologica, come si potrebbe corregge un tale errore a questo cercatore?

Dopo tutto, la nostra posizione erronea è quella di ritenere che “gli oggetti esistano (in quanto oggetti)” e, poi, arriva il mūlāvidyāvādin con la sua teoria di un’entità ontologica chiamata mūlāvidyā, per confermare che l’oggetto esiste “temporaneamente”. A questo punto ci si chiede qual è il beneficio che si trae da questo insegnamento, cioè quale errore riusciamo a superare? Anche prima che ci venisse comunicato il concetto di mūlāvidyā, eravamo ancorati all’idea che l’oggetto esistesse; e ora, dopo che ci è stata annunciata anche la teoria della mūlāvidyā, gli oggetti continuano a esistere! (Ma, come propongono, ora potrebbero essere dei mithyā-oggetti). Qual è l’utilità di tutto ciò? Tutto ciò non ricade affatto sotto l’etichetta dell’adhyāropa.

Tra l’altro, nessuno ha bisogno della mūlāvidyā per affermare che l’oggetto esiste “temporaneamente”. Anche senza far ricorso alla mūlāvidyā, tutti sanno che gli oggetti esistono per un certo tempo! Pertanto, anche indicare la temporaneità dell’esistenza dell’oggetto non serve a nulla. Ciò che è veramente utile è l’insegnamento che nega completamente l’esistenza di un oggetto e, negandolo, indica il Brahman-Ātman come l’unica esistenza indivisa. Per una persona che si spaventa percependo un serpente su una corda, spiegare come il serpente sia “solo un’esistenza temporanea” non è di alcuna utilità. Ciò che costituisce un insegnamento utile è indicare l’unica esistenza della corda e negare il serpente in quanto mithyā-jñāna (falsa conoscenza).

Pertanto, presentare un altro livello di avidyā oltre l’adhyāsa/avidyā e attribuirgli uno status ontologico non è né corretto né necessario. In sostanza, si prende in giro il dettame upaniṣadico e del Bhāṣya secondo cui “vikāro’nṛtam”; vikāra non è una realtà di ordine inferiore né una “esistenza” temporanea. Lo scopo di etichettare qualcosa come vikāra è quello di negarne la realtà, cioè di negare l’esistenza individuale e limitata di un oggetto che diamo per scontato, e non quello di considerarlo come “esistenza temporanea” e al fine di sostenere l’idea sbagliata che gli oggetti esistono. Questo è molto importante. Una volta compresa questa implicazione, diventa facile capire perché Śrī Svāmī Satchidānandendra Sarasvatījī abbia affermato che la mūlāvidyā è una grave deviazione dalla sampradāyika prakriyā.

Se la mūlāvidyā fosse davvero un altro adhyāropa, non credo che Śrī Svāmī Satchidānandendra Sarasvatījī si sarebbe preso la briga di affrontare i problemi che scaturiscono da tale teoria. È inaccettabile dire che a un Vedāntin che ha passato la sua vita a scrivere centinaia di libri per indicarci il vero metodo upaniṣadico, quello adhyāropa-apavāda, possa essere sfuggito che la mūlāvidyā sia alla fin fine solo un adhyāropa. In fondo, quello che Svāmījī ha fatto non è stato un clamore inutile. Se la mūlāvidyā fosse tale da essere proposta come adhyāropa, cioè se potesse essere gestita agevolmente tramite il vicāra basato su śruti-yukti-anubhava, allora Svāmījī l’avrebbe sicuramente accettata come adhyāropa. Questa mūlāvidyā non è adatta a essere un adhyāropa, non è necessaria e, soprattutto, non è affatto utile. La mūlāvidyā, quale appare nei sottocommentari dei post śaṃkariani, non è in accordo né con la śruti né con la yukti né con l’anubhava, pertanto non le si può attribuire affatto lo status di vaidika adhyāropa. Quando si studia seriamente e senza pregiudizi l’opera di Śrī Svāmī Satchidānandendra Sarasvatījī, la questione diventa più chiara: i suoi libri spiegano come mūlāvidyā sia contraria alla śruti, alla yukti e all’intuizione universale (sārvatrika anubhava).

I sostenitori del “mokṣa di massa”, ossia i seguaci della ormai millenaria corrente post śaṃkariana chiamata “Vedānta basato sulla mūlāvidyā”, affermano che la mūlāvidyā è davvero utile o perfino necessaria per il mokṣa di massa. Credo che, se fosse davvero così, lo stesso Bhagavān Bhāṣyakāra non avrebbe mancato di menzionarla esplicitamente nel suo Prasthānatraya Bhāṣya. Non posso proprio immaginare che il Bhāṣyakāra abbia tralasciato di farlo. Śrī Svāmī Satchidānandendra Sarasvatījī ha dimostrato che tutti i passaggi a favore della mūlāvidyā che i mūlāvidyāvādin citano traendoli dai Commenti śaṃkariani (Bhāṣya vākya), non sostengono affatto la mūlāvidyā. Si prega di studiare i suoi libri. Senza mai deviare dal Bhāṣya, senza perdere tempo cercando di riscoprire l’acqua calda, e senza aggiungere nulla di suo, i libri di Svāmījī sono ricchi di manana, trasmettono il messaggio della śruti, puntano dritto all’anubhava e aiutano a comprendere il messaggio delle Upaniṣad sulla base unica dei Commenti di Bhagavatpāda.

Dubbio:

Per riassumere, ciò che è una modificazione, un effetto disponibile alla percezione sensoriale, che non è disponibile separatamente dalla sua causa, che ha inizio (cioè è non disponibile in precedenza) e fine (cioè non è disponibile dopo di essa), ciò che, dopo essere stato accertato in una forma, la muta, quello è mithyāasat e anṛtam”.

Risposta:

Sono d’accordo, perché questa è quasi una traduzione di ciò che viene detto nel Bhāṣya. Tuttavia, l’unico punto su cui attiro l’attenzione del lettore è che il “ciò” a cui si fa riferimento nel paragrafo precedente non dovrebbe essere presentato come un’entità ontologica di ordine inferiore della realtà. Al contrario, “ciò” è un errore di comprensione, proprio come il serpente è un mithyā-jñāna (falsa conoscenza, ovvero ignoranza e comprensione errata) sulla corda, la quale, sebbene io l’abbia considerata un serpente, esiste da sola senza alcuna traccia di serpente.

Dubbio:

Dunque, il mondo è mithyāasat e anṛtam e anche la sua causa avidyā è della stessa natura mithyāasat e anṛtam. Non può essere un’assenza di conoscenza (jñāna abhāva), totalmente non esistente. Quindi, il Vedānta Sāra ha ragione nell’identificare Māyāavidyā come qualcosa di reale ed esistente(kiṅcit bhāvarūpa) allo stesso modo del mondo mithyāasat. Ovviamente, non ha alcuna esistenza dal punto di vista della pāramārthika dṛṣṭi. L’avidyā come upādhi non crea forse la dualità (dvaita)? Śaṃkara aveva già risposto a questa domanda in BUBh III.5.1.

L’essenza della mia citazione da BUŚBh III.5.1 è: “Il falso mondo delle relazioni(mithyā vyavahāra) dovuto alla differenziazione è presente sia per gli ignoranti che accettano le cose come diverse da Brahman sia per coloro (jñāni) che non lo fanno.

Risposta:

Quando si dice “il mithyā vyavahāra dovuto alla differenziazione è lì [davanti a me] …”, cioè l’enfasi nel dire che è lì, è lì più e più volte, indica il vyavahāra come una entità positiva e costruisce definizioni su esso e, perciò, induce a rispondere rimanendo in linea con le definizioni di una cosa immaginata come reale (kapola kalpita); oppure, spiegare il Vedānta seguendo pedissequamente l’impostazione di quelle definizioni kapola kalpita con l’uso più macchinoso e inutile della logica, non porta alla conoscenza di Brahman, ma solo a un percorso razionale finalizzato a stabilire che il vyavahāra ha un’esistenza positiva; ciò fa sì che per l’apavāda sia impossibile rimuovere la mūlāvidyā. Per queste ragioni, [“il mithyā vyavahāra dovuto alla differenziazione è lì davanti a me …”] non è assolutamente adatto a essere un vaidika adhyāropa, in quanto non c’è alcuna apavāda adeguata a esso.

In uno scritto come questo non è mia intenzione entrare in tutti i dettagli al fine di confutare la mūlāvidyā. Voglio, però, soffermarmi su un ulteriore aspetto: la teoria della mūlāvidyā considera il sonno profondo come quello che ha il seme dell’ignoranza. I mūlāvidyāvādin non insegnano che il seme dell’ignoranza nel sonno profondo è in fondo uno śāstrīya adhyāropa per dimostrare che la nozione dello stato di veglia è un adhyāsa, aiutando così a trascenderlo; al contrario, cercano [in suṣupti] una “causa della veglia”. E nemmeno insegnano mai che il “sonno profondo nella sua vera natura” è “Brahman-Ātman nel suo aspetto reale” intuibile nella nostra stessa intuizione universale (sārvatrika anubhava. Essi considerano l’ignoranza semplicemente come un’entità ontologicamente reale, che si riscontra in tutte e tre le avasthā. Partendo da questa affermazione, finiscono per presentare l’identità con Brahman come una “esperienza nuova” ancora da raggiungere, oppure come la distruzione delle impressioni latenti della mente (vāsanā kṣaya) che si deve effettuare in un secondo tempo dopo l’emergere della conoscenza perché quel seme rimane! In questo modo, suggeriscono che dopo la “teoria”, si debba seguire una pratica!

Se avidyā esiste in tutte e tre le avasthā, allora mostratemi dov’è che l’Ātman è privo di relazioni (asaṅga)? Se il Vedānta non può indicare l’asaṅga Ātman nell’intuizione universale (sārvatrika anubhava), allora qual è la prova che dimostri che Ātman è libero da ogni relazione? Per favore, non producete citazioni upaniṣadiche (Upaniṣad vākya) come prova: perché si dovrebbe accettare come prova l’Upaniṣad vākya quando l’importanza di quel vākya non può essere corroborata dall’anubhava? Il metodo della tradizione non duale (advitīya sampradāya prakriyā) consiste nel fatto che, dopo aver citato l’Upaniṣad vākya (la śruti), il Guru e la prakriyā devono anche indicare il corrispondente sārvatrika anubhava, mentre si usa la yukti per rimuovere qualsiasi nozione che vada contro il dettame della śruti. Solo allora la prakriyā sarà una cerca basata su śruti-yukti-anubhava. Il mūlāvidyāvāda non si inserisce in questo contesto perché, affermando che “l’avidyā esiste positivamente” in tutte e tre le avasthā, non riesce a indicare l’assenza di relazioni (asaṅgatvam) dell’Ātman proprio nell’intuizione universale (sārvatrika anubhava).

Tornando al vyavahāra, di cui il pūrvapakṣin dice “esiste” (sia per gli ajñāni sia per i jñāni), la mia risposta è: non confermare il vyavahāra dicendo “esiste”. Lo śāstra insegna che il vyavahāra è “preso come se esistesse” dall’ajñāni, ma non insegna mai che “esiste” in quanto entità positivamente esistente; accettare che il vyavahāra “esista” è esso stesso parte integrante di quell’ajñāna che lo śāstra sta indicando. Questo è molto importante: insegnare l’ajñāna come “è lì” e indicarlo come “stai prendendo l’ajñāna come se fosse lì” sono due insegnamenti diversi. Il primo ci lega maggiormente alla nozione condivisa che “è lì”, mentre il secondo ce ne libera. Il primo è mūlāvidyā prakriyā e il secondo è śuddha Śaṃkara prakriyā.

Solo comprendendo la differenza di senso tra i due insegnamenti “esiste” e “preso come se esistesse”, si può capire come, secondo lo śāstra, dopo l’emergere del jñāna, non ci sia più questo (idam, cioè non c’è più il mondo), ma c’è solo Quello (Tat, cioè il Brahman).

Pertanto, dobbiamo prestare attenzione allo śāstra (e al Bhāṣya) quando ci dice che “il fatto stesso di considerare esistente” il vyavahāra, cioè l’identificarsi nella vyāvahārika dṛṣṭi quale limitato agente, fruitore e conoscitore, kartābhoktāpramātā, è conoscenza errata, cioè adhyāsaavidyā. L’adhyāsa stessa è avidyā, come la considerano i saggi! Ricordiamo il seguente Adhyāsa Bhāṣya vākya:

I saggi chiamano avidyā proprio questo adhyāsa.

Una volta trasceso l’adhyāsa, non c’è nient’altro che debba essere trasceso, perché la causa dell’adhyāsa (cioè la stessa struttura causale dell’argomentazione-pensiero) è anch’essa nel dominio dell’adhyāsa. Solo per colpa dell’adhyāsa, cerco una causa all’adhyāsa e, dopo essermi avvicinato allo śāstra, che è anch’esso parte integrante del dominio dell’adhyāsa, il superamento di quell’adhyāsa (cioè il per così dire superamento) è considerato mukti. Per fare un’analogia, lo śāstra è come una tigre di sogno che, pur essendo limitata al dominio del sogno, è abbastanza utile per svegliarci dal sogno. Anche lo śāstra sostiene questa visione, quando la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (IV.3.22) afferma: “yatra vedā avedā”: dal punto di vista assoluto, “il Veda non è più Veda”, cioè non è più un’autorità, nel senso che non c’è più bisogno di quell’autorità scritturale, una volta che il suo scopo è stato raggiunto. Ma, per favore, qualsiasi cosa si trovi in quel sogno non deve essere spiegata come se fosse esistente, ma deve essere intesa come “presa per esistente”: ovvero, non esiste come viene percepita, ma ciò che esiste è solo il Sé. Dopo tutto, anche se il sognatore per tutta la durata del sogno pensa che gli oggetti del sogno siano separati dal sognatore; la verità è che questi oggetti non sono mai stati separati dal sognatore. Cioè il sognatore, il sognare e il sognato, messi insieme, nella loro vera essenza, sono unicamente il Sé, in cui la divisione in sognatore e sognato è mithyā-jñāna. Questo è il siddhānta.

Dubbio:

Ora, secondo Svāmījī, se la conoscenza distrugge non solo il vyaktaadhyāsa e non solo l’ajñāna, allora come può spiegare affermazioni come queste? Come spiega la jīvanmukti?

Risposta:

Secondo Śrī Svāmī Satchidānandendra Sarasvatījī, poiché egli prende in considerazione la sola citazione del Bhāṣyakāra (senza accettare le deviazioni dei sottocommentatori), adhyāsa è avidyā e nient’altro. Ricordiamo ancora una volta quella citazione tratta dall’Adhyāsa Bhāṣya: “I saggi chiamano avidyā proprio questo adhyāsa”, citazione che sostiene pienamente la posizione di Śrī Svāmī Satchidānandendra Sarasvatījī. Pertanto, non c’è nessun’altra avidyā che debba essere rimossa separatamente dal superamento dell’adhyāsa. Inoltre, quando Śrī Svāmī Satchidānandendra Sarasvatījī dice che “la conoscenza può rimuovere l’adhyāsa da sola ma non l’avidyā”, l’avidyā a cui si riferisce è la mūlāvidyā proposta dai sottocommentatori che non può essere rimossa dalla conoscenza. La ragione di tale affermazione è semplice: poiché la mūlāvidyā è proposta in modo logicamente preciso come un’entità ontologica positivamente esistente, il jñāna non può rimuoverla. C’è un altro Bhāṣya vākya a sostegno di ciò. Bhagavān Bhāṣyakāra nel BUBh (I.4.10) dice:

Lo Śāstra si limita a ricordare, ma non crea o porta all’esistenza nulla di inesistente, com’è ben noto.

Per quanto riguarda la seconda domanda, ossia “come (Śrī Svāmī Satchidānandendra Sarasvatījī) spiega la jīvanmukti?”, si rimanda alla mia risposta alla parte precedente della domanda, in cui ho parlato del superamento dell’adhyāsa.

Lo stesso superamento della reciproca sovrapposizione di Ātman e anātman è la jīvanmukti. Quando i mūlāvidyāvādin, con la loro idea di mūlāvidyā, si sforzano per far sì che l’apavāda di questo cosiddetto adhyāropa si diriga verso la jīvanmukti, ammettono che forse l’apavāda è possibile nella videhamukti. Ma non è il caso del puro metodo śaṃkariano, dove solo la jīvanmukti è in senso primario, mentre la videhamukti c’è solo dal punto di vista di chi guarda. Inoltre, in generale, non dovremmo dimenticare che perfino la mukti è una figura retorica nell’insegnamento delle Upaniṣad, vale a dire per l’Advaita siddhānta. L’insegnamento non è che jīva esista davvero o che esista temporaneamente; l’insegnamento non è nemmeno che alla fine jīva diventa davvero Brahman. L’insegnamento è che jīva non è mai stato un jīva, ma sempre e solo Brahman! Il solo “riconoscimento” dell’identità di jīva e Brahman come verità, cioè l’assimilazione del vero significato (vākyārtha) di tattvam-asi1 e quindi il riconoscimento di aham-brahma asmi2, è figurativamente la mukti. Ciò significa che “proprio l’abbandono di jīvatva”, cioè l’abbandono di “quel jīvatva” che non è “un fatto esistenziale” ma “un errore”, cioè la caduta di “quel jīvatva che è solo per così dire”, è figurativamente chiamata mukti nell’Advaita siddhānta; l’Ātman nella sua vera natura non è mai stato in schiavitù”. Questo è il vero messaggio del Vedānta. La sua assimilazione è mukti. Ma non qualsiasi altra mukti, spiegata o compresa come un evento nel tempo.

Si ricordi sempre ciò che il Parama Guru Gauḍapādācārya insegna nella Kārikā II.32:

Non c’è dissoluzione, né nascita, né schiavitù, né aspirazione alla saggezza, né ricerca della liberazione, né liberazione. Questa è la Verità assoluta.

Ciò che non dobbiamo fare è “accantonare” questo insegnamento del Parama Guru dicendo che “è solo pāramārthataḥ; prima dobbiamo esaminare e rispondere alla domanda che cos’è il vyavahāra”, per poi presentare una teoria totalmente aśastrīya elaborata con una meccanica tutta vyāvahārika. Il Bhāṣyakāra non lo fa mai nel Prasthānatraya Bhāṣya perché è sbagliato e non è né “utile per il mokṣa delle masse” né “necessario per le masse”. Mentre i successivi sottocommentatori si sono purtroppo concentrati inutilmente sulla spiegazione e sulla ricerca di una collocazione per il vyavahāra, invece di aiutare a rimuovere la realtà che naturalmente attribuiamo al vyavahāra, e hanno finito per deviare dal vero sampradāya di Gauḍapādācārya, Bhagavatpāda e Sūreśvara.

Dubbio:

Come può una cosa inesistente essere uno strumento pedagogico?

Risposta:

Mi chiedo: perché no? A rigore, solo un pāramārthataḥ inesistente adhyāsa-avidyā può essere uno strumento pedagogico perché, come dicono le Upaniṣad e il siddhānta, solo Brahman esiste come uno senza un secondo. Pertanto adhyāsa-avidyā, che è uno strumento pedagogico, non esiste nella realtà! Non c’è niente di male in questo. Se l’insegnamento impartito attraverso lo strumento non è altro che la verità che Brahman esiste sempre e solo in quanto uno senza un secondo, allora vaidika e laukika vyavahāra devono essere, dopo tutto, inesistenti, per quanto ci sembrino esistenti. Lo strumento pedagogico deve quindi essere anch’esso inesistente, in quanto solo un inesistente strumento pedagogico chiamato adhyāsa-avidyā ha senso, ma non “qualsiasi altro tipo di avidyā” come fosse qualcosa di reale ed esistente(kiṅcit bhāvarūpa).

Questo kiṅcit bhāvarūpa è qualcosa di molto problematico; lo Śāstra dice che non esiste nulla all’infuori di Brahman e tanto meno una esistente “kiṅcit avidyā”. Non si può ignorare lo śāstra vākya che dice trattarsi di un “punto di vista” paramārtha. Invece, vi prego di comprendere che la divisione in paramārtha e vyāvahārika è proprio quell’ignoranza che lo śāstra vi chiede di trascendere. Una volta che si dice che qualcosa è “kiṅcit bhāvarūpa”, trascenderlo attraverso la conoscenza diventa impossibile.

Dubbio:

Ha senso dire che la mūla avidyā è reale quanto l’apparenza del mondo e usarla come strumento pedagogico (adhyāropa) piuttosto che proporne la totale inesistenza (abhāva). Come il mondo viene negato, anche mūla-avidyā viene distrutta e negata insieme ad esso in quanto mithyāanṛtam e asat.

Risposta:

“Come il mondo è negato…” è più facile a dirsi che a farsi, quando si segue l’insegnamento della mūlāvidyā, perché prima di tutto “quel mondo” è un’esistenza ontologica di realtà di ordine inferiore rispetto al Brahman e alla mūlāvidyā, quale sua causa, si attribuisce uno status ontologico quando si dice “è reale ed è lì come l’apparenza del mondo “; il mondo, in questo insegnamento basato sulla mūlāvidyā, sebbene sia definito un’apparenza, è un mondo mithyā “positivamente esistente”. Ripeto, una volta che lo si presenta come un mondo mithyā positivamente esistente, la sua negazione attraverso la conoscenza è solo un pio desiderio. Lo ripeto ancora, nessuna “quantità” di jñāna può cambiare o rimuovere questo mondo, questo mithyā vastu positivamente esistente chiamato mondo perché, come dice Bhagavān Bhāṣyakāra

Lo Śāstra si limita a ricordare, ma non crea o porta all’esistenza nulla di inesistente; questo è ben noto.

Non solamente non può creare o portare all’esistenza, ma non può nemmeno distruggere una “esistenza di livello inferiore”. Ripeto: L’apparenza non è un’esistenza. Se qualcuno la presenta come un tipo di esistenza kiṅcit dicendo che è una realtà di ordine inferiore, deve ben sapere che la conoscenza non può eliminarla.

Non esiste un’entità mithyā temporaneamente duratura e positivamente esistente chiamata mondo. L’insegnamento è che il “mondo” è (o “in quanto mondo” non è altro che) mithyā-jñāna di ciò che solo esiste, cioè Brahman.

Dubbio:

Il motivo per cui ajñāna non può essere assenza di conoscenza (jñānābhāva) è stato discusso nella Svārājya Siddhi e nel Saṃkṣepaśarīraka. Dovrei consultare quei libri per citare i versi esatti.

Risposta:

Si noti che Bhagavān Bhāṣyakāra accetta l’ajñāna del tipo jñāna abhāva e ci ha anche benedetto dicendo che tale ajñāna sarà effettivamente distrutto con il sorgere del jñāna. Non c’è bisogno di un altro libro che dica il contrario. Se seguiamo quell’altro libro che dice il contrario, allora non c’è nulla di sbagliato nel concludere che stiamo seguendo una deviazione! Il Bhāṣyakāra, in tutto il suo Prasthānatraya Bhāṣya e nel suo Upadeśa Sāhasrī non ha mai trattato di “quell’avidyā” nel modo in cui i mūlāvidyāvādin la descrivono (come kiṅcit bhāvarūpa, ecc.).

Ecco la frase del Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad Bhāṣya (III.3.1) in cui egli accetta l’ajñāna del tipo di “assenza di conoscenza” (jñāna-abhāva):

In qualsiasi modo si parli di ignoranza, che si tratti di assenza di conoscenza o di dubbio o di conoscenza errata, tutti questi aspetti sono eliminati dalla conoscenza.

Questo jñānābhāva, assenza di conoscenza, è in definitiva inesistente?

Sì. È sicuramente inesistente perché jīvajīvatva non sono affatto reali anche se ci si considera un jīva limitato, insegna l’Upaniṣad e questo può essere corroborato dall’anubhava del sonno profondo. La vera natura del Sé, che è l’essenza del mondo della veglia e di chi la vive, è esattamente la stessa natura del Sé nel sonno profondo e, per quanto possa sembrare diversamente a me (cioè al complesso corpo-mente) dal punto di vista della veglia, la vera natura del Sé rimane inalterata. Per quanto ci si senta limitati o vincolati a causa della sovrapposizione delle proprietà del corpo-mente sul proprio Sé, la vera natura del Sé rimane sempre illimitata e non è mai in schiavitù. Questo è simile alla corda che rimane inalterata come corda, indipendentemente dalla comprensione (sovrapposizione) di essa come serpente.

Si ricordi l’Adhyāsa Bhāṣya vākya:

In questo modo, ogni volta che si sovrappone una cosa a un’altra, il sostrato non è influenzato in alcun modo né dai meriti né dai demeriti della cosa sovrapposta.

E anche il Gītā Bhāṣya XIII.2:

L’ignoranza fa percepire in modo errato, o suscita il dubbio, o porta all’assenza di percezione. Infatti, scompare con il sorgere della discriminazione.

Pertanto, l’ignoranza che possiamo accettare a scopo di correzione (per così dire) è o jñānābhāva o saṃśayajñānam o mithyājñāna, ma mai qualsiasi altra “ignoranza materiale temporaneamente esistente positivamente, né reale né irreale e quindi indescrivibile”.

Concludo chiedendo a tutti i cercatori sinceri di comprendere che ciò che i mūlāvidyāvādin dicono essere l’avidyā non è solo un altro modo di spiegare l’ignoranza, ma è il modo più sbagliato di trattare lo strumento pedagogico chiamato avidyā. È sbagliato perché questo modo di presentare l’avidyā non è sostenuto né dalla śruti né dalla yukti né dall’anubhava. Non è né richiesto, né è necessario, né è utile alla maggioranza. Il metodo di istruzione attraverso la mūlāvidyā è sia una corruzione della dottrina (siddhānta hāni) sia privo di alcuna possibilità di realizzazione (anirmokṣa prasaṅga).

Finora ho presentato una controversia tra il Vedānta basato sull’interpretazione (vyākhyāna) che promuove l’idea di mūlāvidyā e il Vedānta basato sui Bhāṣya, in cui adhyāsa è avidyā. Ho cercato di spiegare, al meglio delle mie possibilità, cosa lo śāstra ci sta insegnando e come lo stia facendo. Mi limito a dire che i libri di Śrī Svāmī Satchidānandendra Sarasvatījī offrono ai cercatori più attenti il manana più dettagliato sullo śāstra. Riconosco che ci sono molte ripetizioni in ciò che ho scritto finora e chiedo ai lettori di perdonarmi; ho pensato che le indicazioni fornite fossero abbastanza degne di essere ripetute, dato che sono state scritte con l’intenzione primaria di servire gli scopi di manana, e non all’unico scopo di confutare semplicemente la controparte.

Oṃ Tat Sat

  1. Si presti attenzione a questo verbo asi, ‘tu sei’, e si comprenda come qui sia usato diversamente da bhaviṣyasi, ‘apparirai’.[]
  2. Qui, si presti attenzione al verbo asmi, ‘io sono’ e si comprenda come sia usato diversamente da bhaviṣyami, ‘apparirò’.[]