🇮🇹 John Grimes: Keywords of Vedānta in the light of the teachings of Sri Ramana Maharshi [Parole chiave del Vedānta alla luce degli insegnamenti di Sri Ramana Maharshi], Varanasi, Indica Books, 2023. Isbn 978-9381120316. Pp 208, Rs 475.
I libri scritti in passato dai devoti di Śrī Ramaṇa Maharṣi, in particolar modo quelli di estrazione occidentale, si distinguevano per la scarsa comprensione degli insegnamenti ricevuti e, spesso, per la conseguente banalità delle domande rivolte al Grande Saggio. John Grimes (1948-2022) si distingue per la sua preparazione vedāntica con cui commenta i profondi insegnamenti di Bhagavān che riporta in questo libro. È davvero una lettura piacevole e proficua, e un invito a manana per coloro che sono in grado di farlo. Il libro è altamente raccomandabile, anche perché dimostra la perfetta identità tra le parole di Śrī Ramaṇa e la dottrina advitīya di Gauḍapāda, Śaṃkara, Sūreśvara e degli ācārya e sādhaka contemporanei, i cui insegnamenti sono riportati su questo Sito Web. Tra tanta ricchezza di spunti di riflessione, è nostro dovere segnalare anche qualche piccolo neo. Per esempio il secondo capitolo, intitolato Anirvacanīya (L’Indescrivibile), si basa sull’affermazione di Bhagavān che segue: “Sebbene il Sé sia reale, dato che comprende ogni cosa, non dà adito a domande che riguardano la realtà o la non realtà della dualità. Perciò è detto differente dal reale e dal non reale” (p. 19). Da questa e da altre citazioni nel testo, appare evidente che è l’Ātman a essere indescrivibile, proprio perché è differente dal mondo che talvolta appare reale (sat) in veglia e in sogno e talaltra non appare (asat) in sonno profondo. Grimes, invece, nel suo commento attribuisce, il termine anirvacanīya al mondo duale stesso. Il mondo, essendo reale e, allo stesso tempo, irreale, sarebbe indescrivibile. Ma cosa intende Grimes con realtà e non realtà del mondo? Intende dire che il mondo è non reale se comparato all’assoluta Realtà del Brahman, ma che pur tuttavia ha una sua realtà minore, relativa o parziale. Infatti afferma: “Il mondo, però, non può essere trattato come non esistente o non reale; quello che è non reale, come la quadratura del cerchio, non può mai essere conosciuto. Il mondo, invece, è conosciuto e quindi non può essere respinto come non reale” (p. 22). L’idea che la percezione sia la prova della realtà positiva del mondo non è affatto advaita, l’Autore deve averla appresa studiando qualche testo neo-vedāntico. Paradossalmente, nello stesso capitolo si trova una frase di Bhagavān che sembra rivolta proprio a Grimes: “Tu vuoi in un modo o nell’altro sostenere che il mondo sia reale. Qual è il metro della realtà? È reale solo ciò che esiste di per sé, che rivela se stesso da se stesso ed è eterno e immutabile” (p. 20). Lo stesso errore ricompare qua e là anche in altri capitoli, in cui si arriva a definire anirvacanīya perfino l’ignoranza, esattamente come fanno i mūlāvidyāvādin. Infatti egli dichiara: “È interessante notare che nel pensiero advaita [!], l’ignoranza (avidyā-māyā) è dichiarata misteriosa, ineffabile, inesplicabile (anirvacanīya) e anche il Brahman-Ātman è detto misterioso, ineffabile, inesplicabile, sebbene per ragioni molto diverse. Ramaṇa disse che: ‘Il Sé è oltre l’espressione esistenza-non esistenza, ecc.’” (p. 21). Invece, come si può vedere, Bhagavān, nella stessa citazione che Grimes produce, non riferisce affatto anirvacanīya ad avidyā-māyā, ma al Sé.
Un altro punto che rimane ambiguo riguarda la collina di Aruṇācala: un intero capitolo intenso e poetico è dedicato alla permanente presenza spirituale di Śrī Ramaṇa presso il suo samādhi. È del tutto vero che il Maestro, in quanto Īśvara stesso, può iniziare un discepolo e istruirlo sotto la forma di un luogo, di un oggetto, di un simbolo, di un animale. Sarebbe stato, comunque, opportuno che l’Autore avesse precisato che questo riguarda solo casi particolarmente eccezionali, essendo la norma che l’aspirante vada alla ricerca di un Guru umano. La lettura del capitolo “Āśrama, dimora di pace” lascia perciò il dubbio che Grimes così volesse promuovere a quell’eccezionalità tutta la turba di occidentali ex-hippies privi di un vero Guru che infesta da qualche decennio l’area dell’āśrama di Aruṇācala e che si reputano discepoli del Grande Saggio.
Lascia perplessi anche l’affermazione secondo la quale, a differenza dell’Advaita, Śrī Ramaṇa non avrebbe affermato la realtà del pensiero dell’‘io’. Al contrario, il pensiero di Bhagavan coincide perfettamente con la dottrina śaṃkariana, poiché entrambi concepiscono l’ego come il principale adhyāropa da cui ci si deve liberare. Nemmeno si può dire che Bhagavan, essendosi risvegliato spontaneamente, trascurasse le vie del non-Supremo. Esattamente come i maestri della paramparā di Śaṃkara, egli indicava ai suoi discepoli un percorso preliminare basato sul rito, mantra e meditazione al fine di purificare la mente. Solo così potevano accedere alla via della conoscenza: “Chi nega che la buona condotta sia positiva o che alla fine vi condurrà alla meta? La buona condotta purifica il citta (mente) e dà una mente pura. La mente pura può raggiungere jñāna, che è ciò che si intende per liberazione” (p. 127).
Nonostante queste doverose riserve, l’interesse per il contenuto del libro è prevalente. In esso si dimostra come un realizzato che ha raggiunto il mokṣa senza aver ricevuto un insegnamento regolare da parte di un Maestro di Vedānta, arriva poi a esprimere una dottrina in nulla divergente da quella insegnata nelle paramparā śaṃkariane. A dimostrazione che la Verità è una e non duale. Per questa ragione, in questo Sito, menzioneremo nella sezione dedicata al Vedānta alcuni brevi passaggi, in italiano e in inglese, estratti da questo libro a beneficio dei nostri lettori.
Maitreyī
🇫🇷 John Grimes: Keywords of Vedānta in the light of the teachings of Sri Ramana Maharshi [Mots-clés du Vêdânta à la lumière des enseignements de Shri Ramana Maharshi], Varanasi, Indica Books, 2023. Isbn 978-9381120316. Pp 208.
Les livres écrits jadis par les dévots de Śrī Ramaṇa Maharṣi, en particulier ceux d’origine occidentale, se caractérisaient par leur manque de compréhension des enseignements reçus et, souvent, par la banalité conséquente des questions adressées au Grand Sage. John Grimes (1948-2022) se distingue par sa formation vedāntique qui lui permet de commenter les enseignements profonds de Bhagavān qu’il rapporte dans ce livre. Il s’agit en effet d’une lecture agréable et utile, et d’une invitation au manana pour ceux qui en sont capables. Ce livre est hautement recommandable, notamment parce qu’il démontre la parfaite identité entre les paroles de Śrī Ramaṇa et la doctrine advitīya de Gauḍapāda, Śaṃkara, Sūreśvara et des ācārya et sādhaka contemporains, dont les enseignements sont publiés sur ce Site Web. Au milieu d’une telle richesse de réflexion, il est de notre devoir de signaler aussi quelques petites négligences. Par exemple, le deuxième chapitre, intitulé « Anirvacanīya » (L’indescriptible), repose sur l’affirmation de Bhagavān qui suit : “Bien que le Soi soit réel, puisqu’il englobe tout, il ne donne pas lieu à des questions concernant la réalité ou la non-réalité de la dualité. C’est pourquoi on dit qu’il est différent du réel et du non-réel” (p. 19). D’après cette citation et d’autres dans le texte, il est clair que c’est l’Ātman qui est indescriptible, précisément parce qu’il est différent du monde qui parfois apparaît réel (sat) à l’état de veille et de rêve et parfois n’apparaît pas (asat) dans le sommeil profond. Grimes, quant à lui, attribue, dans son commentaire, le terme anirvacanīya au monde duel lui-même. Le monde, étant à la fois réel et irréel, serait indescriptible. Mais qu’entend Grimes par réalité et non-réalité du monde ? Il veut dire que le monde est non-réel par rapport à la Réalité absolue du Brahman, mais qu’il a néanmoins une réalité moindre, relative ou partielle, qui lui est propre. Il dit en effet : “Le monde, cependant, ne peut être traité comme inexistant ou non réel ; ce qui n’est pas réel, comme la quadrature du cercle, ne peut jamais être connu. Le monde, en revanche, est connu et ne peut donc pas être rejeté comme non réel” (p. 22). L’idée que la perception soit la preuve de la réalité positive du monde n’est nullement advaita ; l’auteur a dû l’apprendre en étudiant quelque texte néo-vedāntique. Paradoxalement, dans le même chapitre, une phrase du Bhagavān semble s’adresser précisément à Grimes : “Vous voulez soutenir d’une manière ou d’une autre que le monde est réel. Quelle est la norme de la réalité ? Seul ce qui existe en soi, qui se révèle à partir de soi et qui est éternel et immuable, est réel” (p. 20). La même erreur réapparaît ici et là dans d’autres chapitres, où même l’ignorance est définie comme anirvacanīya, tout comme le font les mūlāvidyāvādin. En effet il déclare : “Il est intéressant de noter que dans la pensée Advaita [!], l’ignorance (avidyā-māyā) est déclarée mystérieuse, ineffable, inexplicable (anirvacanīya) et que Brahman-Ātman est également dit mystérieux, ineffable, inexplicable, bien que pour des raisons très différentes”. Ramaṇa a dit que : ‘Le Soi est au-delà de l’expression existence-non-existence, etc.’” (p. 21). Comme on le voit, Bhagavān, dans la même citation que Grimes produit, ne réfère pas du tout anirvacanīya à avidyā–māyā, mais au Soi.
Un autre point qui reste ambigu concerne la colline d’Aruṇācala : tout un chapitre intense et poétique est consacré à la présence spirituelle permanente de Śrī Ramaṇa dans son samādhi. Il est bien vrai que le maître, en tant que Īśvara lui-même, peut initier un disciple et l’instruire sous la forme d’un lieu, d’un objet, d’un symbole, d’un animal. Il aurait cependant été opportun que l’auteur précise qu’il ne s’agit là que de cas particulièrement exceptionnels, la norme étant que l’aspirant cherche un Guru humain. La lecture du chapitre « Āśrama, demeure de paix » laisse donc planer un doute sur le fait que Grimes ait ainsi voulu promouvoir à cette exceptionnalité toute la foule d’ex-hippies occidentaux privés d’un véritable Guru qui depuis quelques décennies infestent la région de l’āśrama à Aruṇācala et qui se considèrent disciples du Grand Sage.
Par ailleurs l’affirmation selon laquelle, contrairement à l’Advaita, Śrī Ramaṇa n’aurait pas affirmé la réalité de la pensée de l’ « ego » laisse également perplexe. Au contraire, la pensée de Bhagavān coïncide parfaitement avec la doctrine śaṃkarienne, puisque toutes deux conçoivent l’ego comme le principal adhyāropa dont il faut se libérer. On ne peut pas non plus dire que Bhagavān, s’étant éveillé spontanément, ait négligé les voies du non-Suprême. Exactement comme les maîtres du Śaṃkara paramparā, il a indiqué à ses disciples une voie préliminaire basée sur le rituel, le mantra et la méditation afin de purifier le mental. Ce n’est qu’ensuite qu’ils pouvaient accéder à la voie de la connaissance : “Qui nie qu’une bonne conduite est bonne ou qu’elle finira par vous conduire au but ? La bonne conduite purifie le citta (le mental) et donne un mental pur. Le mental pur peut atteindre le jñāna, ce que l’on entend par libération” (p. 127).
Malgré ces réserves nécessaires, l’intérêt pour le contenu du livre prévaut. Il montre comment celui qui a atteint le mokṣa sans avoir reçu l’enseignement régulier d’un maître de Vedānta, vient ensuite à exprimer une doctrine qui ne diverge en rien de celle enseignée dans les paramparās śaṃkariennes. Ça prouve que la Vérité est une et non duelle. C’est pourquoi, sur ce Site, nous irons mentionner dans la section consacrée au Vedānta quelques courts passages, en italien et en anglais, extraits de ce livre, au bénéfice de nos lecteurs.
Maitreyī
🇪🇸 John Grimes: Keywords of Vedānta in the light of the teachings of Sri Ramana Maharshi [Palabras clave del Vedānta a la luz de las enseñanzas de Sri Ramana Maharshi], Varanasi, Indica Books, 2023. Isbn 978-9381120316. Pp 208.
Los libros escritos en el pasado por devotos de Śrī Ramaṇa Maharṣi, especialmente los de extracción occidental, se distinguían por su falta de comprensión de las enseñanzas recibidas y, a menudo, por la consiguiente trivialidad de las preguntas dirigidas al Gran Sabio. John Grimes (1948-2022) destaca por su formación vedāntica con la que comenta las profundas enseñanzas de Bhagavān que relata en este libro. Es, en efecto, una lectura agradable y interesante, y una invitación a manana para quienes puedan hacerlo. El libro es muy recomendable, entre otras cosas, porque demuestra la perfecta identidad entre las palabras de Śrī Ramaṇa y la doctrina advitīya de Gauḍapāda, Śaṃkara, Sūreśvara y de los ācāryas y sādhakas contemporáneos, cuyas enseñanzas se relatan en este Sitio web. En medio de tanta riqueza para la reflexión, es nuestro deber señalar algunos pequeños defectos. Por ejemplo, el segundo capítulo, titulado “Anirvacanīya” (Lo indescriptible), se basa en la siguiente afirmación de Bhagavān: “Aunque el Ser es real, puesto que lo abarca todo, no da lugar a cuestiones relativas a la realidad o no realidad de la dualidad. De ahí que se diga que es diferente de lo real y de lo irreal” (p. 19). De ésta y otras citas del texto se desprende que lo indescriptible es el Ātman, precisamente porque es diferente del mundo que a veces parece real (sat) en la vigilia y el sueño y a veces no aparece (asat) en el sueño profundo. Grimes, por su parte, atribuye, en su comentario, el término anirvacanīya al propio mundo dual. El mundo, al ser real y, al mismo tiempo, irreal, sería indescriptible. Pero, ¿qué entiende Grimes por realidad y no-realidad del mundo? Quiere decir que el mundo no es propiamente real en comparación con la Realidad absoluta de Brahman, pero que, sin embargo, tiene una realidad menor, relativa o parcial. Pues dice: “El mundo, sin embargo, no puede ser tratado como no existente o no real; lo que no es real, como la cuadratura del círculo, nunca puede ser conocido. El mundo, por el contrario, es conocido y, por tanto, no puede descartarse como no real” (p. 22). La idea de que la percepción sea prueba de la realidad positiva del mundo no es en absoluto advaita; el autor debe de haberla aprendido estudiando algún texto de neo-Vedānta. Paradójicamente, en el mismo capítulo hay una frase de Bhagavān que parece dirigida precisamente a Grimes: “Quieres argumentar de un modo u otro que el mundo es real. ¿Cuál es el estándar de la realidad? Sólo es real aquello que existe en sí mismo, que se revela desde sí mismo y es eterno e inmutable” (p. 20). El mismo error reaparece aquí y allá en otros capítulos, donde llega a definir anirvacanīya la ignorancia, tal como hacen los mūlāvidyāvādins. De hecho, afirma: “Curiosamente, en el pensamiento advaita [!], la ignorancia (avidyā-māyā) se declara misteriosa, inefable, inexplicable (anirvacanīya) y también se dice que Brahman-Ātman es misterioso, inefable, inexplicable, aunque por razones muy diferentes”. Ramaṇa dijo que: “El Ser está más allá de la expresión existencia-no existencia, etc.”” (p. 21). En cambio, como puede verse, Bhagavān, en la misma cita que produce Grimes, no refiere en absoluto anirvacanīya a avidyā-māyā, sino al Sí.
Otro punto que sigue siendo ambiguo se refiere a la colina de Aruṇācala: todo un capítulo intenso y poético está dedicado a la presencia espiritual permanente de Śrī Ramaṇa en su samādhi. Es muy cierto que el Maestro, como Īśvara mismo, puede iniciar a un discípulo e instruirle bajo forma de un lugar, un objeto, un símbolo, un animal. Sin embargo, habría sido conveniente que el autor aclarase que esto sólo se refiere a casos particularmente excepcionales, siendo lo normal que el aspirante busque un Guru humano. La lectura del capítulo “Āśrama, morada de paz” deja pues la duda de si Grimes pretendía así promover a esa excepcionalidad a toda la turba de ex hippies occidentales sin algún verdadero Guru viviente que infestan desde hace algunas décadas el lugar del āśrama de Aruṇācala y que se consideran discípulos del Gran Sabio por “vía sutil”.
También es desconcertante la afirmación de que, a diferencia de Advaita, Śrī Ramaṇa no afirmaba la realidad del pensamiento del “ego”. Por lo contrario, el pensamiento de Bhagavān coincide perfectamente con la doctrina śaṃkariana, pues ambos conciben el ego como el principal adhyāropa dṛṣṭi del que hay que liberarse. Tampoco puede decirse que Bhagavān, habiendo despertado espontáneamente, descuidara los caminos del no-Supremo. Exactamente igual que los maestros de la Śaṃkara paramparā, indicó a sus discípulos un camino preliminar basado en el ritual, en el mantra y en la meditación para purificar la mente. Sólo entonces podrían acceder al camino del conocimiento: “¿Quién niega que la buena conducta es buena o que acabará conduciéndote a la meta? La buena conducta purifica el citta (mente) y proporciona una mente pura. La mente pura puede alcanzar jñāna, que es lo que se entiende por liberación” (p. 127).
A pesar de estas necesarias reservas, prevalece el interés por el contenido del libro. En él se muestra cómo un realizado que ha alcanzado el mokṣa sin haber recibido enseñanza regular de un Maestro Vedānta, llega luego a expresar una doctrina en nada divergente de la enseñada en las Śaṃkara paramparās, demostrando que la Verdad es una y no dual. Por esta razón, en este Sitio, vamos a mencionar en la sección dedicada al Vedānta algunos breves pasajes, en italiano e inglés, extraídos de este libro para beneficio de nuestros lectores.
Maitreyī
🇬🇧 John Grimes: Keywords of Vedānta in the light of the teachings of Sri Ramana Maharshi, Varanasi, Indica Books, 2023. Isbn 978-9381120316. Pp 208.
In the past, books written by devotees of Śrī Ramaṇa Maharṣi, especially those of Western extraction, were distinguished by their lack of understanding of the teachings they received and, often, by the consequent banality of the questions addressed to the Great Sage. John Grimes (1948-2022) stands out for his Vedāntic understanding which allows him to comment on the profound teachings of Bhagavān that he reports in this book. It is indeed an enjoyable and worthwhile read, and an invitation to manana for those who are able to do so. The book is highly recommendable, not least because it demonstrates the perfect identity between the words of Śrī Ramaṇa and the advitīya doctrine of Gauḍapāda, Śaṃkara, Sūreśvara and the contemporary ācārya and sādhaka, whose teachings are reported on this website. Amidst such a richness of inspirations and thoughts, it is our duty to point out a few minor flaws. For instance, the second chapter, entitled “Anirvacanīya” (The Indescribable), is based on Bhagavān’s statement: “Although the Self is real, since it encompasses everything, it does not give rise to questions concerning the reality or non-reality of duality. Hence it is said to be different from the real and the non-real’ (p. 19). From this and other quotes, it is clear that it is Ātman that is indescribable, precisely because it is different from the world that sometimes appears real (sat) in waking and dreaming, and sometimes does not appear (asat) in deep sleep. In his commentary, on the other hand, Grimes attributes the term anirvacanīya to the very same dual world. For him, the world, by being real and not-real at the same time,would be indescribable. But what does Grimes mean by reality and non-reality of the world? He means that the world is non-real when compared to the absolute Reality of Brahman, but that it nevertheless has a lesser, relative or partial reality of its own. For he says: “The world, however, cannot be treated as non-existent or non-real; that which is non-real, like the squaring of the circle, can never be known. The world, on the other hand, is known and therefore cannot be rejected as not real” (p. 22). The idea that perception is proof of the positive reality of the world is by no means advaita; the author must have learnt it by studying some neo-Vedāntic text. Paradoxically, in the same chapter there is a sentence from Bhagavān that seems to be addressed precisely to Grimes: “You want to argue one way or another that the world is real. What is the standard of reality? Only that which exists in itself, which reveals itself from itself and is eternal and unchanging, is real” (p. 20). The same error reappears in various parts of other chapters, where he goes so far as to define anirvacanīya even as ignorance, just as the mūlāvidyāvādins do. In fact, he states: “Interestingly, in Advaita thought [!], ignorance (avidyā-māyā) is declared mysterious, ineffable, inexplicable (anirvacanīya) and Brahman-Ātman is also said to be mysterious, ineffable, inexplicable, though for very different reasons. Ramaṇa said that: ‘The Self is beyond the expression existence-non-existence, etc.’” (p. 21). Instead, as can be seen, Bhagavān, in the same quote that Grimes cites, does not refer anirvacanīya to avidyā-māyā at all, but to the Self.
Another point that remains ambiguous concerns the hill of Aruṇācala: an entire intense and poetic chapter is dedicated to Śrī Ramaṇa’s permanent spiritual presence at his samādhi. It is quite true that the Guru, as Īśvara himself, can initiate a disciple and teach him through any kind of form: a place, an object, a symbol, an animal. It would, however, have been appropriate for the author to explain that this concerns only particularly exceptional cases, because normally the aspirant is to seek out a human Guru. Therefore, while reading the chapter “Āśrama, abode of peace” one could question whether Grimes intended, in this way, to promote to such exceptional situation the whole crowd of Western ex-hippies without a true human Guru, who have been infesting the āśrama area of Aruṇācala for some decades and who consider themselves disciples of the Great Sage.
Also, puzzling is the claim that, unlike the Advaita, Śrī Ramaṇa did not affirm the reality of ‘Ego’ thought. In actuality, Bhagavan’s thought coincides perfectly with the Śaṃkara’s doctrine, since both conceive the ego as the main adhyāropa which one must be freed from. Nor can it be said that Bhagavān, having awakened spontaneously, neglected the ways of the non-Supreme. Exactly like the ārcāyas of the Śaṃkara paramparā, he indicated to his disciples a preliminary path based on ritual, mantra and meditation in order to purify the mind. Only then they could access the path of knowledge: “Who denies that good conduct is good or that it will eventually lead you to the goal? Good conduct purifies the citta (mind) and gives a pure mind. The pure mind can attain jñāna, which is what is meant by liberation” (p. 127).
Despite these necessary reservations, the interest in the thought-captivating content of the book is prevalent. The volume shows a liberated sage, who has attained mokṣa without having received regular teaching from a Vedānta Guru, is able to express a doctrine in no way divergent from the teachings of the Śaṃkara’s paramparās, thus, proving that the Truth is one and not dual. For this reason, on this Site, we will include in the section dedicated to the Vedānta, some short passages, in Italian and English, extracted from this book for the benefit of our readers.
Maitreyī