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Il post mortem dei sādhaka secondo la dottrina di Śaṃkarācārya – VIII

L’affermazione precedente (BSŚBh IV.4.16) pretende che, secondo il diretto insegnamento scritturale “Egli stesso ottiene signoria indipendente” (TU I.6.2), sia ragionevole desumere che i jīva liberati ottengano poteri divini illimitati. Questo deve essere respinto. Questa citazione non pregiudica nulla, in quanto è il Signore “che li stabilisce come signori delle sfere (maṇḍala) del Sole ecc. e che risiede in quegli stessi mondi”. Si dichiara che questa attribuzione d’una signoria indipendente è privilegio del Signore che risiede in quei mondi quale la sfera del sole ecc., come anche quello di nominare gli altri[i jīva liberati]reggitori di sfere particolari. È per questa ragione che, un po’ più avanti, la stessa Upaniṣad dice: “Egli raggiunge il signore della mente” (TU I.6.2), che significa che raggiunge Īśvara che è il Signore di tutte le menti e che è sempre presente lì come una realtà preesistente1. Ciò è in linea con quanto l’Upaniṣad afferma più avanti: “Egli diventa il reggitore della parola, degli occhi, degli orecchi, il reggitore della conoscenza” (Ibid.). Così anche in altri passaggi si deve considerare, per quanto possibile, che i loro divini poteri siano ottenuti solo per volontà del Signore che esiste eternamente.

19. C’è un’altra ‘forma’2 del supremo Signore che non dimora nell’effetto3 perché così dichiara l’Upaniṣad.

E non è che il supremo Signore risieda soltanto nella sfera del sole ecc., nel novero degli effetti [cioè delle cose mutevoli]; Egli ha anche un’altra ‘forma’ completamente libera con cui trascende tutti i cambiamenti. Per questo la scrittura parla della Sua esistenza in due ‘forme’ in “La Sua gloria divina si estende così lontano; l’intero Universo di tutti questi esseri è solo un quarto di Lui. Ma Puruṣa è più grande anche di quello, i suoi tre quarti immortali essendo stabiliti nella sua propria luce” (ChU III.12.6), e in altri passaggi. Non si può affermare che questo Immutabile sia raggiunto da coloro che si fissano nell’altra forma[presente nel mondo del cambiamento], perché essi non ne hanno il desiderio. Quindi bisogna intendere che, considerando che il supremo Signore possiede due ‘forme’4, i jīva, che non hanno raggiunto il non qualificato (nirguṇa), possono restare nella forma qualificata (saguṇa) con poteri divini limitati poiché non hanno acquisito poteri illimitati5.

Non si può affermare che questo Immutabile sia raggiunto da coloro che si fissano nell’altra ‘forma’ [presente nel mondo del cambiamento], perché essi non ne hanno il desiderio6. Quindi bisogna intendere che, se si considera che il supremo Signore possiede due ‘forme’, i jīva,che non hanno raggiunto la ‘forma’ non qualificata (nirguṇa), possono restare nella forma qualificata(saguṇa) con poteri divini limitati, dato che non hanno acquisito poteri illimitati.

20. Entrambi i testi delle Upaniṣad e della smṛti dicono così [che la suprema luce è oltre tutte le cose mutevoli].

Nei passaggi che seguono, i testi upaniṣadici e le smṛti dimostrano che la suprema luce trascende tutti i cambiamenti: “Lì il sole non brilla e neppure la luna e le stelle né brillano i lampi. Come può farlo questo fuoco? Egli sfolgorando illumina tutto; attraverso la sua luce, tutte queste cose sono variamente illuminate” (KU II.2.11; ŚU VI. 14; MuU II.2.10), “Il sole non lo illumina, né la luna né il fuoco” (BhG XV.6). Così, è ben noto che la luce suprema è oltre tutte le cose mutevoli. Questa è l’idea.

21. Anche dai segni che nelle Upaniṣad indicano solo l’eguaglianza dell’esperienza [si sa che i jīva liberati non hanno poteri illimitati].

Qui c’è un’altra ragione che dimostra perché quei jīva che raggiungono il Brahman-effetto (Kārya Brahman) non hanno poteri illimitati. Secondo quanto è stabilito dalle scritture, tutto quello che essi hanno in comune con il Signore eternamente esistente, è solo questa stessa fruizione (bhoga), come dai segnali indicatori che dichiarano: “Egli [Hiraṇyagarbha, allorché il meditanteha raggiunto il Suo mondo] gli dice «Io fruisco solo del nettare e, ora, anche tu ne fruisci»” (KauU I.7), “Come è quel Dio [Hiraṇyagarbha] così egli diventa. Come tutti gli esseri adorano questa divinità, così lo adora chi conosce questo” (BU I.5.20), “Per mezzo di questa [conoscenza] egli s’identifica (sāyujya) alla Divinità e si colloca (sālokya) in Lui” (BU I.5.23).

Oppositore: Da questo punto di vista i poteri avrebbero gradi, cosicché sarebbero soggetti ad avere fine. Quindi questi jīva liberati ritornerebbero a questo mondo.

Vedāntin: Ecco la risposta del venerato maestro Bādarāyaṇa:

22. Non c’è ritorno per i jīva liberati sulla base della dichiarazione upaniṣadica: non c’è ritorno per i jīva liberati sulla base della dichiarazione upaniṣadica.

   Coloro che procedono lungo il devayāna salendo, per mezzo delle nāḍī e dei raggi del sole, alle diverse tappe della luce ecc., raggiungono il mondo di Brahman, com’è descritto nelle scritture: “nel Brahmaloka, nel terzo piano del cielo7, partendo da questa terra, esistono due mari chiamati Ara e Nya, dove si trova un lago pieno di cibo delizioso, dove c’è un banyan che trasuda ambrosia, dove si vede la cittadella di Brahman chiamata Aparājitā (l’inespugnabile) e dove si trova un palazzo d’oro fatto dallo stesso Signore” (ChU VIII.5.3). Di quel mondo si parla in vari modi nei mantra8e nelle parti eulogistiche [arthavāda] del Veda. Dopo averlo raggiunto, essi non ritornano come fanno gli altri che piovono sulla terra dal mondo della luna quando hanno esaurito la loro fruizione. Si sa questo dai passaggi upaniṣadici come: “Uscendo attraverso quella nāḍī si ottiene l’immortalità” (KU II.3.16; ChU VIII.6.6), “Essi non tornano più a questo mondo” (BU VI.2.15), “Chi procede lungo questa via degli dei non ritorna a questo ciclo umano (mānavamāvartaṃ o manvantara) di nascite e morti” (ChU IV.15.5), “Egli raggiunge il Brahmaloka e non ritorna qui” (ChU VIII.15.1). E, anche se i loro poteri arrivano a una fine nel tempo, si dimostra che non ritornano nel sūtra: “Nella dissoluzione finale del mondo del Brahman condizionato essi raggiungono col Signore di quel mondo [Hiraṇyagarbha] quello che è superiore al Brahman condizionato” (BS IV.3.10.).9

Ma il reale non ritorno si compie solo per coloro dai quali l’oscurità dell’ignoranza è stata completamente rimossa come risultato della loro piena illuminazione e che, perciò, raggiungono quella Liberazione come la loro più alta meta (parama puruṣārtha) che esiste eternamente come auto stabilita10. Il non ritorno di quelli che prendono rifugio nel Brahman qualificato diventa un fatto solo per coloro che hanno quello come loro ultima dimora. La ripetizione della frase “non c’è ritorno in base alla dichiarazione upaniṣadica” indica la fine dello Śāstra.

* * *

Qui s’esauriscono anche la nostra traduzione e le glosse aggiunte in favore dei lettori non avvezzi al Vedānta vicāra. Sia dunque esaltato colui che, seguendo un vero maestro adepto, evita tutti i destini postumi desiderando la sola Liberazione in vita!

Oṃ Tat Sat

  1. Le sfere o mondi sono infatti delle costruzioni mentali (manasarga) e Īśvara è proprio lì che è presente come Testimone (Sākṣin). Non si deve però dimenticare che Īśvara è, in realtà, il Supremo, esattamente come il jīvātman non è l’individualità apparente, ma è lo stesso Ātman.[]
  2. ‘Forma’ (rūpa) non nel senso che ha nel binomio nāma-rūpa, ma in quello di ‘sua propria natura’ (svarūpa).[]
  3. Kārya Brahman. Si deve tener sempre presente che il Brahman non-Supremo è effetto (kārya) della māyā proiettata dall’ignoranza della mente dell’individuo. Infatti è espressamente dichiarato che il Supremo Brahman non può essere mai concepito come causa (kāraṇa) di alcunché. Perciò l’eventuale idea d’un Kāraṇa Brahman è un errore (mithyā) della mente.[]
  4. Naturalmente la parola rūpa può essere usata per il Brahman saguṇa, il quale, in realtà, è una immaginazione del pensiero umano per poter speculare o meditare sul Supremo che altrimenti gli sarebbe inconcepibile nella sua natura reale. Il non-Supremo, essendo una proiezione illusoria della māyā prodotta dall’ignoranza della mente (antaḥkaraṇa), è parte integrante del dominio del nome e della forma, ed è perciò pensato nei termini di nāma-rūpa. Non così per quello che riguarda il Supremo Brahman nirguṇa; l’Assoluto è del tutto libero da forma. È solamente possibile usare per esso il termine svarūpa con il senso di ‘sua propria natura’, escludendo in questo caso ogni possibile limitazione formale.[]
  5. L’ottenimento di tutti i poteri divini, a eccezione di quelli di creazione (sṛṣṭi), mantenimento (sthiti) e dissoluzione (pratisarga) dell’universo, costituisce propriamente un aiśvarya limitato, ovvero la identificazione a Īśvara con il mantenimento di tale ‘distinzione’(viśeṣa). In tutta evidenza, le anime liberate (mukta jīva) possono esercitare la loro signoria all’interno del mondo manifestato, ma si trovano privi dei poteri esclusivi di Īśvara perché esse stesse sono ancora sottoposte a manifestazione, conservazione e pralaya. Per quanto la condizione in cui sono collocate sia universale, sono ancora determinati da nome e forma, e perciò non libere dall’individualità (jīvatva). La loro identificazione ‘con distinzione’ (viśiṣṭādvaita) al saguṇa Brahman è una chiara dichiarazione che anche quest’ultimo si trova nella sua forma sottile universale di Hiraṇyagarbha. Da ciò risulta definitivamente inconfutabile la distinzione tra le anime liberate e i liberati totali (mukhya mukta).[]
  6. Questa affermazione rispetta l’insegnamento della śruti, sull’autorità della quale si raggiunge ciò che si desidera. Il desiderio (kāma) induce all’azione e l’azione produce i frutti desiderati di cui si fruisce in questa vita o nell’aldilà. Tuttavia la mumukṣā non è desiderio di altro da Sé, ma del proprio stesso Ātman: perciò il desiderio di Liberazione non può essere considerato kāma. Coloro che desiderano conoscere il non-Supremo sono, dunque, spinti da kāma e perciò producono un karma (tramite il metodobasato su yantra, mantra, e tantra) per ottenerlo come oggetto di fruizione e di contemplazione. Essi, perciò, in nessun senso possono essere considerati desiderosi di mokṣa (mumukṣu).[]
  7. Il cielo (svar) è, nell’ordine, il terzo piano del trimundio (tribhuvana).[]
  8. In questo caso mantra sta per saṃhitā, ciò che impropriamente è tradotto nelle lingue occidentali con “Inni vedici”.[]
  9. Essi non ritorneranno qui in questo mondo, in questo ciclo umano. Ritorneranno, però, in un prossimo mondo (Brahmāṇḍa) in cui si rimanifesterà Hiraṇyagarbha, in un prossimo kalpa.[]
  10. La conoscenza, che è l’unico mezzo per ottenere il mokṣa, non può essere ostacolata né agevolata da mezzi empirici. Perciò il mokṣa, non dipendendo da alcuna condizione spazio-temporale o da altre relazioni contingenti, può ‘emergere’ in qualsiasi luogo o tempo. Le anime individuali che hanno completato il devayāna,hanno ivi raggiunto la condizione di ‘uomo universale’ e godono della beatitudine nel Brahmaloka con il loro ānandamāyā kośa. Perciò anche queste sono soggette a godimento (bhoktṛtva). Alcune di esse, più intellettualmente qualificate, cioè con la mente più purificata, invece di accontentarsi degli illimitati piaceri del Brahmaloka e dei poteri dell’aiśvarya sopra descritti, possono intuire che quel massimo mondo di godimento (parama bhoga loka) è pur sempre limitato. Non è il mokṣa reale (satya, pāramārtika). E se ne possono accorgere più facilmente quanto più si approssima il pralaya. Chi nel Brahmaloka sa riflettere (e, anche in questo caso così elevato, si tratta sempre d’una esigua minoranza di individui dotati di maggiori qualifiche intellettuali, uttamādhikārin), si può rendere conto che quel mondo non è eterno, non è non-duale, non è la Liberazione totale e immediata (mukhya e sadyo mukti). Costoro, perciò, hanno la possibilità di capire, ottenere la conoscenza suprema e liberarsi davvero. Non è il pralaya che li fa liberare: il pralaya è pur sempre uno stato contingente, non ha il potere di liberare. Chi entra nel pralaya, infatti, poi ne esce; come chi dorme, entra nel sonno profondo per poi risvegliarsi. È il neti neti vedāntico che permette al jīva che staziona nel Brahmaloka di capire che “io non sono né questo jīva aggregato a Hiraṇyagarbha(come sat), né quel jīva che sarà immerso nel pralaya (come asat)”. Perciò la Liberazione non dipende né dai lunghissimi tempi del Brahmaloka, né dal non-tempo del pralaya. La Liberazione è eterna. Perciò, in questo caso, con krama s’intende il raggiungimento a tappe del Brahmaloka; e con mukti la Liberazione ottenuta lì; oppure in qualsiasi altro tempo e spazio che, come tale, non dipende dall’aver attraversato stazioni contingenti, ma solo dall’emersione della conoscenza. Questa è la ragione per la quale, in questo breve trattato sul post mortem dei sādhaka, ci siamo astenuti dal trattare della Liberazione finale. Il mokṣa, infatti,non ha nulla a che fare con i tempi della vita nel corpo né con quelli dei suoi prolungamenti postumi. Il mokṣa è Realtà, Conoscenza, Infinito.[]