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Il post mortem dei sādhaka secondo la dottrina di Śaṃkarācārya – VII

15. Bādarāyaṇa dice che la persona non umana conduce al Brahman solo quelli che non usano i simboli [per la loro meditazione1] dato che questa duplice divisione non comporta alcuna contraddizione e si diventa ciò che si desidera essere.

Il maestro Bādarāyaṇa pensa che, escludendo coloro che meditano con l’aiuto di simboli, l’essere sovrumano conduca tutti gli altri, che meditano sul Brahman condizionato, allo stesso Brahmaloka. Non c’è alcuna contraddizione nell’ammettere questa duplice divisione, dato che le argomentazioni prive di questa restrizione2 vogliono semplicemente includere tutte le meditazioni purché non siano basate sui simboli. Una ragione, che conferma questa duplice divisione, si trova nella determinazione a raggiungerlo; perché è del tutto ragionevole che colui che è determinato di raggiungere Brahmā ottenga le Sue divine glorie, com’è stabilito nel testo “Uno diventa proprio Lui come Lo ha meditato”. Ma non si può credere di essere uno con Brahmā quando si medita con l’aiuto dei simboli, dato che in tale meditazione il simbolo predomina.

Oppositore: L’Upaniṣad afferma che anche senza uno specifico desiderio per Brahmā, Lo si può raggiungere, come è stabilito nel testo: “Egli conduce a Brahmā coloro che si trovano lì” (ChU IV.15.5), connesso con la meditazione sui cinque fuochi [e non direttamente su Brahmā].

Vedāntin: Può essere così laddove si trovi una chiara dichiarazione scritturale [che sancisca un’eccezione]. Ma il sūtrakāra [Bādarāyaṇa] dichiara che, secondo la logica per cui si diventa ciò che si desidera essere, la regola generale è che, in assenza di una chiara dichiarazione d’eccezionalità3, raggiungono Brahman solo quei meditanti che hanno il desiderio del Brahman.

16. E l’Upaniṣad rivela una particolarità sui risultati [delle meditazioni con simboli].

A proposito delle meditazioni basate su simboli, come il nome4 ecc., l’Upaniṣad dimostra che i [simboli] più avanzati danno un risultato migliore di quelli iniziali, come si rileva dai seguenti passaggi: “[colui che medita su un nome che simboleggia Brahman] ottiene libertà di movimento in tutto il raggio d’azione di quel nome” (ChU VII.1.5), “La facoltà della parola è sicuramente più grande del nome” (ChU VII.2.1), “Egli ottiene la libertà fin dove arriva il raggio d’azione della parola” (ChU VII.2.2), “La mente è sicuramente più grande della parola” (ChU VII.3.1), e così via. Questa distinzione sui risultati è possibile per quelle meditazioni, dato che dipendono dai simboli. Ma se sono basate sul Brahman, come ci potrebbe essere una graduatoria sui risultati, dato che il Brahman è privo di tali differenze? Di conseguenza le meditazioni basate sui simboli non possono avere lo stesso risultato di quelle basate sul Brahman non-Supremo.

   * * *

Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya

IV Adhyāya – 4 Pāda

Domanda: Nell’Upaniṣad si trova quanto segue: “Così invero, dopo essere uscito da questo corpo e avendo raggiunto la più alta luce, questo [jīva] pacifico5 si stabilisce nella sua reale natura del Sé, che è la persona suprema (Puruṣottama)6” (ChU VIII.12.3). A questo proposito sorge un dubbio: questo jīva si manifesta con qualche distinzione aggiunta, come accade in alcuni bhogaloka come i mondi degli Dei (devaloka), o si stabilisce solo come Sé? Qual è la conclusione corretta?

Oppositore: Quella manifestazione deve essere in una qualche nuova forma come in altri mondi, perché anche la Liberazione ben si sa, è un risultato, e la formula “si stabilisce” è come dire “è nato”. Se questo fosse un semplice stabilirsi nella sua propria forma o natura, allora, visto che la propria natura non è eliminata nemmeno nelle tappe precedenti [avendo assunto altre forme], quella “reale natura” dovrebbe manifestare se stessa [in qualche forma] anche lì. Quindi quell’essere si manifesta come qualcosa di distinto.

Vedāntin: Se questa è la tua posizione, noi diciamo:

1. “Avendo raggiunto la luce più alta” il jīva si manifesta nella sua reale natura a causa dell’uso del termine “nella sua propria”.

Il jīva manifesta se stesso com’è realmente, ma non come se avesse qualche altra qualità. Come può essere così? Perché la parola “propria” si trova in “Si stabilisce nella sua propria forma reale”. Altrimenti questa specificazione della parola “propria” (sva) non sarebbe appropriata.

Oppositore: La parola “propria” potrebbe essere interpretata per significare “una forma propria dell’Ātman”.

Vedāntin: No, perché non è quello che qui si vuole intendere. Se fosse così, allora qualsiasi forma quell’essere avesse assunto per manifestarsi sarebbe stata certamente sua, cosicché l’uso della parola “propria” sarebbe stato superfluo. Ma se si accetta che significhi “nella sua propria reale natura”, ciò implicherà che il jīva si manifesta solo nella sua propria forma e non in una qualche forma transitoria.

Oppositore: Ma che differenza c’è fra gli stati precedenti e questo stato finale del jīvātman, quando in entrambi i casi la vera forma è sempre la stessa?

Vedāntin: Ecco la nostra risposta:

2. [Il jīva] allora ottiene la liberazione come dichiara l’Upaniṣad.

Il jīvātman di cui si parla qui, che diventa manifesto nel suo Sé, si libera dai legami passati e continua come puro Sé, anche se nello stato precedente esso “sembrava essere diventato cieco” (ChU VIII.9.1), “sembrava piangere” (ChU VIII.10.2), “sembrava sottostare a distruzione” (ChU VIII.11.1) e questo perché era contaminato dai tre stati (avasthā traya). Questa è la differenza.

Oppositore: Ma come si sa che il jīvātman diventa libero?

Vedāntin: Il sūtrakāra risponde dicendo “come dichiara l’Upaniṣad”. E anche nel testo: “ti spiegherò questo di nuovo” (ChU VIII.9.3) il maestro [Prajāpati] si ripromette di spiegare [a Indra] il Sé libero dai difetti dei tre stati. Poi, affermando che “il jīva, che si è veramente distaccato dal corpo, non è toccato da piaceri e sofferenze” (ChU VIII.12.1), conclude che “esso si stabilisce nella reale natura del Sé, che è l’Essere supremo” (ChU VIII.12.3).   Così anche all’inizio della narrazione [degli insegnamenti dati da Prajāpati a Indra], il testo “il Sé che è oltre pāpa ecc.” (ChU VIII.7.1) tratta solo del jīva liberato. La sua liberazione è considerata come risultato solo in quanto cancellazione della schiavitù e non per il raggiungimento di una nuova eccellente condizione. Sebbene la formula “diventa manifesto” sia omologa di “è nato”, qui è usata per sottolineare il contrasto con lo stato precedente, come si dice che un uomo si ristabilisce in salute quando finisce la malattia. Quindi non c’è alcun difetto.

3. [La luce è] il Sé, come si deduce dal contesto.

Oppositore: Come si può dire che il jīvātman sia liberato, dato che il testo “avendo raggiunto la suprema luce” (ChU VIII.12.3) lo descrive come all’interno del manifestato? Infatti, nell’uso, la parola luce denota la luce fisica. Chi non si è distaccato dalle cose manifestate non può liberarsi, dato che tutte le cose create ben si sa, sono fonte di sofferenza.

Vedāntin: Questo non pone alcuna difficoltà, dato che dal contesto è ovvio che lo stesso Sé è qui presentato dalla parola “luce”. Poiché l’argomento del Sé supremo è il punto di partenza nella frase “il Sé che è oltre il pāpa, libero da ogni macchia e libero dalla morte” (ChU VIII.7.1), non è possibile passare inopinatamente alla luce fisica. Ciò sarebbe come eliminare l’argomento in discussione introducendovi qualcosa di estraneo. La parola “luce” è usata per il Sé come nel passaggio “Gli Dei meditano su quella immortale Luce di tutte le luci” (BU IV.4.16). Questo è già stato spiegato nel sūtraLa luce è Brahman” (BS I.3.40).

4. [Nella liberazione il jīvātman] esiste in uno stato di non separazione dal supremo Sé perché così è affermato nell’Upaniṣad.

Domanda: Il jīvātman, che si stabilisce nel proprio Sé dopo aver raggiunto la luce suprema, rimane separato dal Sé supremo o continua in uno stato di identificazione?

Oppositore: A questa domanda si potrebbe rispondere che il jīva esiste separatamente, perché nel testo “avendo raggiunto la più alta luce” (ChU VIII.12.3) si parla di qualcosa in cui si stabilisce qualcos’altro e di un qualcos’altro che si stabilisce in quel qualcosa; e nello stesso testo sono menzionati separatamente un soggetto agente e un oggetto dell’azione.

Vedāntin: il sūtrakāra spiega a chi ha questo dubbio che il jīvātman liberato rimane identificato con il supremo Sé. Così, infatti, s’afferma nelle Upaniṣad con “tu sei Quello” (ChU VI.8.7), “Io sono Brahman” (BU I.4.10), “Dove non si vede nessun’altra cosa” (ChU VII.24.1), “Ma lì non c’è una seconda cosa separata da esso che possa essere vista” (BU IV.3.23) ecc., che rivelano come il supremo Sé sia non separato dal jīvātman. E, in conformità con la logica per cui si diventa quello che si desidera essere, la liberazione risultante dovrebbe accordarsi con la propria conoscenza. Il testo “O Gotama, come acqua pura versata in acqua pura diventa veramente la stessa, così anche diventa il Sé dell’uomo di conoscenza che fa il vicāra sul supremo Sé” (KU II.1.15) e altri testi sulla natura del jīva liberato (mukta jīva), come anche gli esempi del fiume e del mare (MuU III.2.8) affermano questa non differenza. A proposito delle affermazioni che implicano differenza, esse sono possibili in senso secondario anche in un contesto di non differenza, come si vede nei passaggi dei testi: “«O venerabile, su che cosa è stabilito quell’Infinito?» «Sulla sua propria gloria»” (ChU VII.24.1), “Godendo del suo proprio Sé, godendo del proprio Sé” (ChU VII.25.2).

5. Jaimini dice che da riferimenti [upaniṣadici è evidente che il jīvātman liberato] si stabilisce negli attributi di Brahman.

È chiaramente stabilito ora che con “nella sua reale natura del Sé” (ChU VIII.12.3) s’intende che si stabilisce in se stesso come Sé e non in un forma estranea e transitoria. Ma quando si vuole comprendere meglio [cosa s’intende con jīva liberato,] si dice che ‘nella sua propria forma’ significa nella forma di Brahman, la sua forma reale, dotata delle caratteristiche che iniziano da“libero da colpa (pāpa)” e che finiscono con “retta intenzione7, come pure dell’onniscienza e della signoria su tutto. Si stabilisce in quella forma che è sua propria. Questo è ciò che pensa il maestro Jaimini. Come lo sappiamo? Perché lo si sa per i suoi riferimenti alle Upaniṣad e per altri ragionamenti. È così perché per mezzo del riferimento contenuto nel testo che inizia con“questo Sé che è libero da colpa” ecc., e che finisce con“avendo retto desiderio (satyakāma) e una retta intenzione (satyasaṃkalpa)”8, l’Upaniṣad ci fa capire che il jīvātman è lo stesso supremo Sé quando possiede questi attributi. Similmente, i testi“Lì egli vaga, mangiando, giocando e facendo festa” (ChU VIII.12.3), e “ha libertà di movimento in tutti i mondi” (ChU VII.25.2), presentano le sue forme di divina gloria. Da questo punto di vista le affermazioni come “Egli è onnisciente ed è il regolatore di tutto” ecc. diventano del tutto logiche.

6. Audolomi afferma che il jīvātman liberato si stabilisce nella coscienza proprio come coscienza, essendo quella la sua vera natura.

Sebbene gli attributi come la libertà dalla colpa (pāpa) siano enumerati come fossero diversi uno dall’altro, essi si basano ancora sui falsi concetti che sorgono dalla dipendenza da mere parole; perché tutto ciò che [tale libertà] fa capire è solo la negazione del pāpa ecc. La reale natura del jīvātman, tuttavia, è solo coscienza, cosicché è giusto dire che il jīva liberato si stabilisce solo in quella natura. In questo modo i testi upaniṣadici come “Anche così, mio caro, è il Sé senza interno ed esterno, pienezza e pura coscienza” (BU IV.5.13) sono dovutamente rispettati. Se si pensa che l’affermazione “Avendo veri desideri (satyakāma) ecc., significhi che sono reali attributi appartenenti a una qualche entità “che possiede retti desideri”, tali qualità dipendono dall’associazione con attribuzioni limitanti, cosicché non possono costituire la vera natura di quell’essere in quanto coscienza. Perché il sūtra nega che il Sé abbia molte forme come nega ogni diversità di forma per il Brahman: “Nemmeno quando è considerato in uno stato si può attribuire a Brahman dualità” (BS III.2.11). Quindi anche la dichiarazione “… mangiando” ecc. (ChU VIII.12.3) è fatta solo al fine di lodarlo, intendendo con ciò solo la fine della sofferenza, come nelle frasi: “godendo del suo proprio Sé” (ChU VII.25.2) ecc. Infatti un po’ di godimento, di gioco, di festeggiamento non può mai essere attribuito al Sé in senso primario, dato che tutto questo presuppone la presenza di una seconda entità. Quindi il maestro Audolomi pensa che il jīva liberato manifesti se stesso come il Sé senza alcuna traccia di esistenza fenomenica, che è Coscienza, pacifico e beato e che sfida qualsiasi descrizione verbale.

7. Bādarāyaṇa afferma che anche così, non c’è alcuna contraddizione, dato che la natura precedente esiste in accordo con le Upaniṣad.

Anche così”, cioè anche ammettendo che il jīvātman in assoluto abbia solo questo attributo di pura Coscienza, non si nega che esso conservi ancora il suo precedente attributo di Signoria (aiśvarya), come si conosce dalle Scritture. Questo è ciò che pensa il maestro Bādarāyaṇa.

Dubbio: Riguardo alla meditazione basata sul cuore, si sa dall’Upaniṣad che “Essendo desideroso del mondo dei suoi antenati, gli antenati vengono a lui con il suo solo desiderio” (ChU VIII.2.1). Il dubbio qui è se il solo desiderio sia la causa dell’apparizione degli antenati o se è una causa associata a qualche altro fattore.

Oppositore: A questo proposito, sebbene l’Upaniṣad dichiari “con il suo solo desiderio”, tuttavia è giusto che in consonanza con le condizioni del mondo, ci sia una dipendenza da qualche altro fattore. Proprio come nel mondo incontriamo i nostri padri o altri, come risultato del nostro desiderio e di altre cause come l’avvicinamento ecc., così si deve ritenere anche nel caso del jīvātman liberato. Infatti, non deve essere immaginato nulla che sia contrario alla comune esperienza. Si dice “con il suo solo desiderio”, per intendere che c’è anche la disponibilità di altri fattori che facilitano l’esaudimento del desiderio, com’è nel caso d’un Re9. Inoltre, gli antenati o altro, essendo i risultati del suo desiderio, saranno transitori come le altre cose immaginate dalla mente, cosicché non saranno in grado di offrire un godimento soddisfacente.

Vedāntin: Essendo questa la tua posizione noi diciamo:

8. [Gli antenati e gli altri vengono] solo come risultato della volontà, perché così afferma l’Upaniṣad.

Il contatto con gli antenati e con altri è dovuto solo alla volontà, “perché così afferma l’Upaniṣad”. Infatti, testi upaniṣadici come “essendo desideroso del mondo dei suoi antenati, gli antenati vengono a lui con il suo solo desiderio” (ChU VIII.2.1), sarebbero compromessi se dovessero dipendere da altre cause. Per quanto riguarda gli altri fattori, essi possono ben esserci se sono in accordo con la sua volontà; ma non si possono ammettere come un mezzo che richieda uno sforzo addizionale, dato che in quel caso il desiderio rimarrebbe infruttuoso fino al momento in cui l’altro fattore non entrasse in gioco. Per di più, non è possibile applicare alcun argomento generale basato sull’esperienza empirica a una questione che è conosciuta dalle Upaniṣad. La volontà di una persona, che ha raggiunto la liberazione10, è diversa per natura dalla volontà delle persone nel mondo ordinario, in quanto, per mezzo della forza della loro volizione, questi (antenati e altri) rimangono stabili fintanto che l’occasione lo richiede. Questo avviene solo per loro volontà.

9. E proprio per questa ragione non ha altro signore [che comandi su di lui].

Proprio per questa ragione”: poiché la sua volontà non può essere infruttuosa, l’uomo di conoscenza non ha alcun signore, cioè nessun altro può comandare su di lui. Infatti anche un uomo ordinario, che desidera qualcosa, non vuole essere dominato da qualcun altro fintanto che lo può evitare. Il testo upaniṣadico anche lo rivela in: “D’altra parte, coloro che abbandonano questo mondo dopo aver realizzato il Sé e questi veri desideri, ottengono libertà di movimento in tutti i mondi” (ChU VIII.1.6).

10. Bādari afferma l’assenza del corpo e dei sensi [per chi raggiunge il Brahmaloka] perché l’Upaniṣad così afferma.

Nel testo “Essendo desideroso del mondo dei suoi antenati, gli antenati vengono a lui con il suo solo desiderio” (ChU VIII.2.1) si dimostra che la mente esiste almeno come strumento di desiderio [anche dopo aver realizzato il Brahman qualificato]. Ora esaminiamo se, anche per l’uomo che ha ottenuto qualità divine, il corpo e i sensi esistono o non esistono11. A questo proposito, il maestro Bādari pensa che il corpo e i sensi non esistano per l’uomo di conoscenza giunto a tanta elevatezza. Come può essere ciò? Perché il passaggio scritturale dice così: “Egli è deliziato nel vedere mentalmente [attraverso i divini occhi mentali] le cose desiderabili che esistono nel Brahmaloka” (ChU VIII.12.5). Se fosse il caso che vagasse non solo con la sua mente, ma anche con il corpo e i sensi, allora la specifica menzione di “mentalmente” non sarebbe stata fatta. Quindi, dopo quella liberazione, corpo e sensi sono assenti.

11. Jaimini afferma l’esistenza del corpo e dei sensi [per chi raggiunge il Brahmaloka] perché l’Upaniṣad così parla di opzione.

Il maestro Jaimini pensa che, come la mente, anche il corpo e i sensi esistano per il liberato, perché nel testo: “Egli rimane uno, egli diventa triplice, quintuplice” ecc. (ChU VII.26.2) l’Upaniṣad menziona che egli ha l’opzione di cambiare il suo stato in vari modi. Questa opzione di diventare molteplice, benché sia un’aiśvarya appartenente al Brahman qualificato, è menzionata nella Bhūmā vidyā(conoscenza del Signore) come riferita al Brahman nirguṇa all’unico scopo di magnificarla. Deve essere intesa perciò come frutto della vidyā del Brahman qualificato. Questo risultato, dunque, in verità matura in connessione con la meditazione sul Brahman qualificato.

12. Quindi Bādarāyaṇa considera i jīva liberati di due tipi [con o senza corpi e sensi] proprio com’è il caso del sacrificio dvādaśāha [dei dodici giorni].

Vedāntin: “Quindi”, poiché entrambe queste caratteristiche sono menzionate nelle Upaniṣad, il maestro Bādarāyaṇapensa che siano valide tutte e due. Quando un’anima liberata vuole avere un corpo, ne ottiene uno; e quando desidera rimanerne senza non ne ha nessuno, perché il suo desiderio è retto e la volontà diversificata. Questo è come il caso del sacrificio dvādaśāha compiuto per dodici giorni, che può essere sia un sattra sia un ahīna12; così, anche qui sia l’una sia l’altra interpretazione sono valide giacché i Veda le segnalano entrambe.

13. In assenza di un corpo è ragionevole sostenere che [l’esaudimento del desiderio] avviene come in sogno.

Si può spiegare in questo modo: nel caso in cui corpo [grosso] e sensi non esistano, i jīva liberati possono esaudire i loro desideri [di fruire della visione] degli antenati e di altri soltanto assistendo alla loro presenza [con le loro menti], proprio come accade in sogno [dove neppure ci sono corpo e sensi].

14. Quando esiste il corpo, l’esaudimento dei desideri è proprio come nello stato di veglia.

Quando, invece, si considera che il corpo esiste, i jīva liberatipossono ragionevolmente esaudire i loro desideri [d’incontrarsi] con il proprio padre e con altri, proprio alla loro presenza oggettiva, esattamente come nello stato di veglia.

Dubbio: Nel sūtraJaimini afferma l’esistenza del corpo e dei sensi [per chi raggiunge il Brahmaloka] perché l’Upaniṣad così parla di opzione” (BS IV.4.11), si stabilisce che il jīva liberato possiede un corpo. Ora, quando diventando triplice e così via (ChU VII.26.2), sono creati molti corpi, si vorrebbe sapere se questi corpi sono creati senza vita come marionette di legno o se sono animati.

Oppositore: A questo dubbio si può rispondere che, dato che la mente e il jīvātman non possono essere separati e rimangono associati a un singolo corpo, gli altri corpi devono essere senza vita.

Vedāntin: Tu dici così, ma il sūtrakāra afferma che:

15. Il jīva liberato può possedere (aveśa) diversi corpi come una lampada, perché così affermano le scritture.

Proprio come un lume può apparire molteplice per il suo potere di trasformazione [accendendo altre lampade], così anche chi ha raggiunto questa conoscenza, sebbene unico, può, attraverso il suo potere divino, diventare molteplice e penetrare in tutti quei corpi. Questo può essere perché la scrittura stabilisce che uno può diventare molti: “Egli rimane uno, diventa triplice e quintuplice” ecc. (ChU VII.26.2). Questo non sarebbe possibile se si accettasse l’esempio delle marionette di legno né sarebbe possibile se si pensassero animate da altri jīva. E i corpi senza jīva non hanno alcun movimento. Nemmeno crea alcuna difficoltà l’argomentazione secondo la quale, poiché la mente e il jīva non possono essere separati, non ci sarebbe alcuna possibilità per il jīva di essere associato con molti corpi, perché, dato che possiede una volontà incontrastabile, creerà corpi forniti di mente che agiranno in accordo con ogni singola mente. Quando questi sono creati, lo stesso jīvātman può anche apparire come se fosse diversi reggitori separati, in accordo con le differenze tra le loro caratteristiche limitanti. I testi dello Yoga descrivono le tecniche che gli yogi impiegano per l’assunzione di molti corpi.

Oppositore: Ma come si può ammettere che il jīva liberato possa avere tali divini poteri come quello d’entrare in molti corpi se l’esistenza di una conoscenza particolareggiata gli è negata in molti testi, tra cui: “Allora che cosa si dovrebbe conoscere e per mezzo che cosa? Chi conosce tutto per mezzo di cosa dovrebbe conoscere?” (BU IV.5.15), “Ma non c’è alcuna seconda cosa separata da esso che possa conoscere” (BU IV.3.30), “Esso diventa trasparente come l’acqua, il Testimone e senza secondo” (BU IV.3.32)?

Vedāntin: Quindi questa è la risposta del sūtrakāra:

16. [La dichiarazione di assenza di conoscenza distintiva è fatta] da due punti di vista, cioè quello dell’immersione (svāpyaya)[nel sonno profondo] e quello della realizzazione (sampatti) dell’unità non duale (apyaya); perché questo è chiaro dall’Upaniṣad.

Svāpyaya [lett. immergersi in se stesso] significa sonno profondo, come è detto nel testo upaniṣadico “Egli s’immerge nel suo Sé e per questo dicono di lui: ‘egli è profondamente addormentato’” (ChU VI.8.1). E sampatti significa Liberazione, com’è mostrato nel testo upaniṣadico “essendo solo Brahman, è immerso in Brahman” (BU IV.4.6). In tutti e due questi stati si afferma che c’è assenza di conoscenza distintiva, certe volte in relazione con lo stato di sonno profondo e certe altre con la Liberazione assoluta. Come si sa ciò? Perché è chiaro dalle Upaniṣad quando si riferiscono a questo argomento, come: “(Il Sé) esce come (un’entità separata) da questi elementi [bhūta,che formano il corpo] e la separazione è distrutta assieme a loro [ossia dopo aver raggiunto l’unità con l’Ātman, il jīva non ha più una coscienza particolare]” (BU II.4.12), “Ma quando, per il conoscitore del Brahman ogni cosa è diventato il Sé” (BU II.4.14), “Quando addormentandosi non brama alcun desiderio e non vede alcun sogno” (BU IV.3.19; MU V). Ma la condizione in cui si ottengono i divini poteri dell’aiśvarya, è uno stato differente, come quello dei cieli che vengono come risultato della meditazione avanzata sul Brahman qualificato. Quindi non c’è alcun errore.

Dubbio: Coloro che raggiungono l’unione con il Signore, poiché hanno ancora la mente, come risultato della meditazione sul Brahman qualificato possono acquisire poteri limitati o illimitati? Quale sarà la risposta?

Oppositore: I loro poteri divini dovrebbero essere senza alcuna limitazione, come si deduce dai testi upaniṣadici: “Egli stesso acquista una signoria indipendente” (TU I.6.2), “Tutti gli Dei gli offrono doni” (TU I.5.3), “questi veri desideri, ottiene libertà di movimento in tutti i mondi” (ChU VIII.1.6; VII.25.2).

Vedāntin: A questo, il sūtra risponde:

17. Il jīva liberato ottiene tutti i divini poteri eccetto quello di reggere l’Universo [con la sua manifestazione, mantenimento e distruzione], come si sa dal contesto [che tratta di Īśvara] e dalla non prossimità [del jīvātman].

È appropriato dire che eccetto il potere di manifestazione [mantenimento e distruzione] dell’Universo, i jīva liberati devono avere tutti gli altri divini poteri dell’aiśvarya, come quello di diventare minuscoli ecc. Infatti il potere della manifestazione ecc. dell’Universo, ragionevolmente, appartiene solo al Signore che esiste eternamente. Questo perché Īśvara forma il soggetto principale di quell’argomento, gli altri non essendo neanche presi in considerazione. Solo il Signore ha competenza sulle attività che concernono la manifestazione [mantenimento e dissoluzione] dell’Universo, in quanto la manifestazione e il resto sono insegnate solo in connessione con Lui e la parola “eterno” è attribuita solo a Lui. L’Upaniṣad dice che gli altri ottengono i poteri divini di diventare minuscoli ecc. come risultato della ricerca e del desiderio di conoscerlo, perciò essi sono ben lungi dall’[avere le] attività della manifestazione ecc. dell’Universo. Inoltre, proprio per il fatto che i jīva liberati sono dotati di mente, possono non avere [tra loro] alcuna “identità d’intenti”, cosicché qualcuno talvolta potrebbe volere la continuità dell’Universo, e altri la sua distruzione. Così essi in certi momenti potrebbero opporsi gli uni agli altri13. Se si dovesse cercare una conciliazione facendo in modo che la volontà di uno non sia in contrasto con quella di un altro dipendendo solo da un’unica volontà, allora forzatamente si arriverebbe alla conclusione che tutte le singole volontà dipendono solo dalla volontà di Īśvara.

18. Se si sostenesse [che i poteri del jīva liberato sono illimitati] in base alla diretta dichiarazione scritturale, allora [diremmo] no, [perché le scritture dichiarano che i jīvātman raggiungono] Colui che li stabilisce come signori delle sfere (maṇḍala) del sole ecc. e che risiede in quegli stessi mondi.

  1. Ovviamente coloro che usano i simboli ritualmente senza farne oggetto di meditazione, non fanno parte di questa categoria, in quanto sono già stati dirottati verso il pitṛyāṇa, di cui ci siamo occupati in precedenza.[]
  2. “[Il cammino dei jīva lungo il devayāna] non è ristretto a una qualche meditazione particolare, ma si applica a tutte le meditazioni sul non-Supremo. Questo non comporta alcuna contraddizione come si sa dallo śabda pramāṇa [la śruti] e per deduzione” (BS III.3.31).[]
  3. La conoscenza dei cinque fuochi (pañcāgni vidyā) non comprende di fatto alcuna dottrina specifica sulla natura e le qualità di Brahmā, ma semplicemente indica il Brahmaloka come meta. Tuttavia, questa vidyā, dopo essere stata inserita nelle Upaniṣad, fa parte integrante della śruti, che è proprio l’insegnamento della conoscenza di Brahman. Le vidyā non appartenenti alle Upaniṣad devono perciò essere dotate di una completa dottrina del non-Supremo illustrata in una specifica smṛti, per poter validamente condurre al Brahmaloka, come è il caso, per esempio, degli Yoga Sūtra di Patañjali.[]
  4. L’invocazione di un nome divino usato come mantra.[]
  5. Samprasāda, lo stato di pace e beatitudine sperimentato nel sonno profondo.[]
  6. Il testo upaniṣadico prosegue con: “Lì egli vaga, mangiando, giocando e facendo festa con donne, carri e parenti…” (ibid.). Di quel samprasāda jīva è anche detto che “ha libertà di movimento in tutti i mondi” (ChU 7.25.2). Il jīva liberato, di cui si tratta in questa ultima parte dei Brahma Sūtra, non è chi ha raggiunto la Liberazione finale (mukhya mukti), come potrebbe apparire da una lettura superficiale dei prossimi aforismi, ma la liberazione relativa (āpekṣika mukti, in precedenza definita immortalità relativa, āpekṣika amartyatā), come sarà evidente più avanti. Essendosi unito a Īśvara grazie alla perfetta conoscenza del non-Supremo, egli fruisce dei poteri dell’aiśvarya. Perciò può vagare tra i mondi manifestati fruendo dei privilegi della propria signoria.[]
  7. Una volta Prajāpati disse: «Il Sé che è libero da pāpa, decadenza, morte, sofferenza, fame, sete, che ha retto desiderio e retta intenzione, quello deve essere conosciuto, quello deve essere indagato per la realizzazione. Chi, dopo aver conosciuto quel sé, lo realizza, ottiene tutti i mondi e tutti i desideri»” (ChU VIII.7.1).[]
  8. Libero da pāpa” e “avendo retto desiderio e retta intenzione” mette in luce che il jīva ha superato l’azione tāmasa, pur essendo ancora legato all’azione sāttvika. Vale a dire, non ha ancora superato del tutto il dominio del karma.[]
  9. I desideri del Re sono esauditi grazie a una serie di concause rappresentate da una piramide amministrativa che ne permette la realizzazione.[]
  10. Scriviamo liberazione con la minuscola iniziale, perché questo jīva identificato a Hiraṇyagarbha, mantiene una sua mente, una sua volontà e una sua capacità di fruizione (bhoktṛtva), non avendo ancora superato l’individualità. Non trattandosi della Liberazione immediata (sadyomukti),esso si trova dunque a fruire della beatitudine a livello di ānandamaya koṣa (Taittirīya Upaniṣad, II.8.1).[]
  11. Ovviamente, trattandosi qui di stati postumi, con “corpo” si può intendere l’involucro sottile (sūkṣma śarīra) e con “sensi” gli indriya riavvolti nel prāṇa. Ciò non esclude che, come afferma Jaimini, il jīva liberato possa rinascere, assumendo, per suo desiderio, un corpo grosso al fine di agire e fruire nel mondo degli uomini.[]
  12. Il sacrificio vedico del soma della lunghezza di dodici giorni può essere celebrato in due forme distinte: il rito ahīna prevede che oltre ai brāhmaṇa celebranti ci sia un sacrificante o donatore che può appartenere a una qualsiasi delle tre caste superiori. Invece nel rito sattra i donatori, tutti di casta brāhmaṇica, sono gli stessi celebranti. Tuttavia, alcuni testi parlano del dvādaśāha come ahīna, mentre altri come fosse solo sattra. Analogamente alcune Upaniṣad descrivono i jīva liberati come privi di corpo, mentre altre invece attribuiscono loro corpo e sensi. Perciò tali affermazioni scritturali non possono essere ritenute incompatibili, ma valide tutte e due.[]
  13. Cosa che avviene nell’esperienza del mondo della veglia nel caso di coloro che vi ritornano per svolgere una qualche missione, dove i darśana insegnati dai diversi ṛṣi o le rivelazioni predicate dai vari profeti spesso sono in opposizione tra loro.[]