Gian Giuseppe Filippi
Il post mortem dei sādhaka secondo la dottrina di Śaṃkarācārya – II
2. Il pitṛyāṇa
La descrizione dei due destini postumi denominati pitṛyāṇa e devayāna ha come fonte primaria due brani della Bṛhadāraṇyaka e della Chāṅdogya Upaniṣad, dal contenuto pressocché identico1. Vi si narra come Śvetaketu, figlio di Āruṇi, si fosse recato all’assemblea dei Pañcāla e come ivi fosse stato interpellato dal saggio re Pravahaṇa nei termini seguenti:
“Sai come questi esseri, quando se ne vanno da qui, se ne partono ciascuno in direzioni diverse?” Egli rispose: “No.” “Sai come essi di nuovo ritornano a questo mondo?” Egli di nuovo rispose: “No.” “Sai perché quel mondo lassù, anche se molti ci vanno senza interruzione, non diventa mai saturo?” Egli di nuovo rispose: “No.” “Sai come dopo certi sacrifici le acque assumono voce umana, si alzano in piedi e parlano?” Egli di nuovo rispose: “No.” “Conosci come si accede alla via degli Dei e a quella degli antenati? E sai cosa si deve fare per intraprendere la via degli Dei e quella degli antenati?”2
In seguito il Re insegnò ad Āruṇi3 la scienza dei cinque fuochi (pañcagni vidyā) che illustra i destini postumi degli iniziati alle vie della conoscenza del non-Supremo. Śaṃkara nei suoi Bhāṣya ripetutamente afferma che i destini descritti in questa dottrina sono validi per tutte le vie di aparavidyā, comprese quelle che non menzionano in modo specifico i cinque sacrifici vedici al fuoco.
L’enigma che il re Pravahaṇa ha proposto a Śvetaketu è poi risolto in questi termini. L’acqua è la componente grossa preponderante nel corpo umano; quando la salma è deposta sul fuoco della pira funebre, l’acqua evapora salendo e lasciando indietro solo le ceneri (bhasman)4. L’evaporazione dell’acqua, dunque, simboleggia l’abbandono del corpo da parte del prāṇa che avvolgeil jīva, insieme a tutte le sue componenti sottili (comprese nel termine antaḥkaraṇa), i saṃskāra del karma compiuto5 e i vāsana delle conoscenze acquisite durante l’ultima vita. Il vapore acqueo o l’involucro prāṇico dell’anima del defunto che in vita non ha raggiunto la luminosa meditazione diretta (aparokṣa) del non-Supremo, gravato dalle oscurità del simbolo6, è costretto a salire pesantemente verso l’alto, associandosi al fumo della pira.
Dopo aver proceduto lungo il fumo, la notte, le due settimane della lunazione oscura, i sei mesi del viaggio meridionale del sole (dakṣināyaṇa7), dopo aver raggiunto la luce lunare8, lo Yogi ritorna.9
Il precedente passaggio della Gītā si ritrova, con qualche ulteriore precisazione, anche nella Bṛhadāraṇyaka e nella Chāṅdogya Upaniṣad:
Per quel che riguarda coloro che [vivono] nel villaggio, che meditano per mezzo di sacrifici, di azioni benefiche, dell’elemosina ecc., essi raggiungono il fumo, dal fumo [vanno] alla notte, dalla notte alla quindicina oscura, dalla quindicina oscura ai sei mesi in cui il sole viaggia verso sud. Essi non raggiungono l’anno.10
[…] coloro che raggiugono i loka per mezzo dei sacrifici, delle elemosine e delle austerità, raggiungono la divinità del fumo [della pira] e da là vanno alla divinità della notte, poi alla divinità della quindicina calante della luna, poi alle divinità dei sei mesi del viaggio del sole verso sud, alla divinità [Yama] del mondo degli antenati, e infine alla luna.11
I commenti di Śaṃkara alle Upaniṣad ci spiegano chi sono coloro che intraprendono questa via detta dakṣināyaṇa: gli yogi “ignoranti”12 sono coloro che hanno continuato a compiere azioni rituali per tutta la vita, meditando su di esse come simboli, senza giungere mai a meditare direttamente su ciò che esse simboleggiano, ovvero Īśvara. I simboli su cui essi meditano compiendo i rituali13 diventano raffigurazioni mentali (mānasa vṛtti), idee (vāsanā) corrispondenti ad attributi parziali o singoli nomi divini, che prendono le forme di divinità particolari.
Si deve meditare sul concetto [che è oggetto di meditazione] fino a momento della morte perché l’acquisizione di un risultato invisibile (aḍṛṣṭa phala) dipende dalla conclusione a cui si giunge con la sua meditazione [continuamente ripetuta, paryāvartaya upāsana]. Perché i frutti delle azioni passate destinati a produrre un risultato fruibile [bhogya phala] in una nascita successiva, al momento della morte danno origine a una forma di coscienza che è satura di pensieri a esso [al bhogya phala] conformi; e lo sappiamo dai testi upaniṣadici che seguono: “Allora il jīva ha coscienza dei risultati [della meditazione continuata] sotto forma di impressioni che dovrà sperimentare, e s’avvia [a prendere] un nuovo corpo che è il risultato corrispondente a quella coscienza” (BU IV.4.2). “Insieme al desiderio di [raggiungere] quel certo mondo, che aveva in mente [al momento della morte], egli entra nel prāṇa. Il prāṇa in combinazione con udāna14 e con il jīva conduce quest’ultimo al mondo da lui desiderato.” (Praśna Upaniṣad (PU) III.10) Questo vale anche per l’esempio della foglia e del bruco15. Queste idee quale altro tipo di coscienza possono formare al momento della morte se non quello prodotto dalla loro ripetizione? Quindi quelle idee devono essere rimuginate nella mente fino alla morte, perché altro non sono che la continua contemplazione del risultato che vuole essere raggiunto.16
Naturalmente ci sono molte categorie di simboli: alcuni sono più grossolani e altri più sottili e trasparenti.
A proposito delle meditazioni basate su un simbolo, come per esempio su un nome o altro, le Upaniṣad affermano che i risultati successivi sono più elevati di quelli precedenti. Per esempio: “Chi medita su un nome come fosse Brahman ottiene un raggio d’azione coestensivo con quel nome.” (ChU VII.1.5); “La facoltà della parola è certamente più ampia del nome” (ChUVII.2.1); “Egli ottiene un raggio d’azione coestensivo con la parola.” (ChU VII.2.2); “Il manas è certamente più ampio della parola.” (ChUVII.3.1); e così via. Questa gradazione è possibile per le meditazioni che si appoggiano sui simboli. Ma se fossero basate sul Brahman17, non potrebbe esserci alcuna gradazione tra i risultati, essendo Brahman privo di ogni differenza. Perciò le meditazioni basate sui simboli non possono avere i medesimi risultati della meditazione su Brahman.18
Per questa ragione, come si vedrà tra poco, i cieli della luna sono molteplici e qualitativamente tra loro differenziati.
In una citazione precedente, la Chāṅdogya Upaniṣad ci aveva informato che la via degli antenati è intrapresa da
coloro che [vivono] nel villaggio, che meditano per mezzo di sacrifici, di azioni benefiche, dell’elemosina ecc.19
Con questa formula si designano i gṛhastha che conducono una esistenza sociale durante il secondo stadio della vita dell’hindū di casta. I gṛhastha sono i protagonisti dei sacrifici vedici descritti nella sezione rituale della śruti (karma kāṇḍa). Questa condizione li vincola a compiere il loro svadharma sotto la forma visibile dell’azione corporea (kāyaka kriyā rūpa). Essi però possono rappresentare anche il modello tipico di coloro che usano il rito come simbolo iniziatico per una via di karma20. Ciò non toglie che anche un gṛhastha, in virtù di sue qualifiche più avanzate, possa essere iniziato a un metodo superiore a quello della pañcāgnividyā vedica e compiere una meditazione (upāsanā) sul simbolo o persino una meditazione diretta21. Ma per la tradizione del karmakāṇḍa vedico, il passaggio ai riti interiorizzati è possibile formalmente solo nello stadio di vita successivo, quello di vānaprastha. Si tratta di coloro che, dopo aver concluso i propri obblighi familiari e sociali, si ritirano nella selva (vāna) interiorizzando i rituali precedentemente compiuti esteriormente, secondo le indicazioni dei testi della śruti chiamati, appunto, “libri della selva” (āraṇyaka). In questa fase l’hindū di tradizione puramente vedica si dedica a una categoria più elevata di meditazione verbale (vācika kriyā rūpa) o mentale (mānasa kriyā rūpa) sul simbolo, fino a raggiungere la meditazione diretta sul Signore Īśvara senza l’ausilio di supporti simbolici. Tuttavia, il modello vedico, come s’è detto, non è esclusivo e rappresenta anche tutte le vie iniziatiche di coloro che compiono riti con il corpo, con la parola e con la mente (kāyaka, vācika e mānasa kriyā) seguendo le tradizioni smārta e tāntra. Costoro, in definitiva, sono enormemente più numerosi di chi segue una tradizione puramente śrauta22. Perciò questi gṛhastha yogi possono interiorizzare il metodo e persino superare il simbolo senza ritirarsi nella foresta23.
Coloro che dipendono dal simbolo per le loro attività rituali (kalpya prakriyā), lasciato il corpo, sono deposti sulla pira per essere cremati. Il loro jīva, guidato attraverso l’atmosfera dalle divinità che presiedono al fumo della cremazione, è poi preso sotto la protezione degli Dei che reggono le fasi oscure (tāmasa) del tempo: gli Dei della notte, delle due settimane di luna calante, dei sei mesi del viaggio del sole verso meridione. Queste devatā non soltanto indicano loro la via del pitṛyāṇa, ma scandiscono anche la durata temporale delle sue tappe.
- Per quanto in forma più sintetica, la Bhagavad Gītā mette in bocca a Kṛṣṇa il medesimo insegnamento rivolto ad Arjuna (BhG VIII.23-26).[↩]
- BU VI.2.2. Il testo della Chāṅdogya Upaniṣad riporta: “Sai gli esseri da qui dove vanno?” Egli rispose “No, venerato Signore.” “Conosci i due diversi sentieri degli Dei e degli antenati?” Egli rispose “No, venerato Signore.” “Sai com’è che il mondo di lassù non si riempie mai?” Egli rispose “No, venerato Signore.” “Sai come alla quinta offerta sacrificale l’acqua parla con voce umana?” Egli rispose “No, venerato Signore.” (ChU V.3.2-3).[↩]
- Śvetaketu, come brāhmaṇa, si sentì umiliato dalla conoscenza dimostrata da uno kṣatriya. Mandò dunque suo padre Āruṇi da quel Re per chiedere spiegazioni di tanta sapienza. Āruṇi, invece, con umiltà si presentò davanti a Pravahaṇa chiedendo di diventare suo śiṣya. Dopo averlo accettato come discepolo, il Re si scusò per l’innaturale relazione tra un guru kṣatriya e un discepolo brāhmaṇa: “… questa scienza non è stata fino a oggi mai trasmessa ai brāhmaṇa.” (BU VI.2.8; ChU V.3.7). Ciò significa che fino a quel momento i brāhmaṇa erano i depositari della sola conoscenza del Supremo, mentre gli kṣatriya lo erano di tutte le conoscenze del non-Supremo. A causa della decadenza ciclica durante il kaliyuga, epoca in cui avvenne quanto raccontato nelle due Upaniṣad citate, i meno qualificati brāhmaṇa dovettero far ricorso anche alle vie dell’Aparavidyā. Naturalmente dopo la trasmissione qui narrata, fu ristabilita la normale funzione magistrale e da allora i guru furono sempre e solo brāhmaṇa anche in queste conoscenze non supreme.[↩]
- Sull’argomento dei resti solidi (ucchiṣṭa) della cremazione e il loro significato abbiamo dedicato lo studio: “Conservazione delle ceneri umane nell’India tradizionale. La dottrina del resto”, in Francesco Remotti (a cura di), Morte e trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamorfosi, Milano, Paravia Bruno Mondatori ed., 2006, pp. 311-327.[↩]
- Tali saṃskāra costituiscono ciò che è definito āgāmi karma, le azioni compiute che daranno i loro frutti in vite successive.[↩]
- Il simbolo, anche se è un mezzo per conoscere, deve pur sempre essere considerato uno schermo che vela e ri-vela. Coloro che rimangono prigionieri del simbolo, la cui capacità di comprensione è coperta dal simbolo stesso, sono appunto gli yogi ignoranti di cui parla la Bhagavad Gītā.[↩]
- Sinonimo di pitṛyāṇa, la via degli antenati. Ciò indica che la via degli antenati segue il declino del sole verso sud (dakṣinā) durante i sei mesi che precedono il solstizio d’inverno; dakṣināyaṇa è perciò la misura di tempo che corrisponde ai sei mesi in cui le tenebre della notte s’allungano a discapito della luce diurna. Ma è anche l’indicazione di una direzione spaziale. Per questa ragione anche la dimora dei defunti o regno di Yama, penultima tappa sulla via che conduce al cielo della luna, è situata nell’emisfero atmosferico australe.[↩]
- Poiché luna risplende di luce riflessa, essa appare come un lume smorto in paragone al sole. Perciò essa ben rappresenta il terminale di questa via tenebrosa.[↩]
- BhG VIII.25.[↩]
- ChU V. 10.3.[↩]
- BU VI.2.16.[↩]
- “Ignoranti”, in quanto non hanno raggiunta la conoscenza del non-Supremo. La Bhagavad Gītā li definisce: “coloro che, avendo la mente distratta, falliscono sulla via dello yoga…” (BhG VI.37).[↩]
- Le azioni rituali (karma) possono essere lo stesso svadharma, ossia i riti obbligatori di casta usati metodicamente dopo previa iniziazione (dīkṣā); oppure sono rituali, diversi dal svadharma, impartiti come metodo (prakriyā) da un guru delle tante organizzazioni iniziatiche (sampradāya).[↩]
- Il quarto dei cinque prāṇa o vāyu, con cui si emette il soffio vitale; con l’udāna si esala anche l’ultimo respiro.[↩]
- L’anima che trasmigra da un mondo all’altro è paragonata a un bruco che, raccogliendo i segmenti del suo corpo sul bordo di una foglia, si protende poi per passare a un’altra foglia (BU IV.4.3).[↩]
- BSŚBh IV.1.12. Cfr. “La via della Conoscenza e le altre vie” III, www.vedavyasamandala.com.[↩]
- Poiché qui si tratta di meditazione (upāsana), è evidente che questo Brahman deve essere inteso come il non-Supremo (Aparabrahman).[↩]
- BSŚBh IV.3.16.[↩]
- ChU V.10.3.[↩]
- In realtà questi ritualisti vedici rappresentano una piccolissima minoranza rispetto ai praticanti delle numerosissime altre sādhanā del Sanātana Dharma. Ciò nonostante, in virtù del grande prestigio di una via così primordiale come quella puramente vedica, essi sono sempre presi a esempio per tutti i sādhaka. Solamente per queste vie iniziatiche basate sul svadharma è richiesta l’appartenenza a una delle tre caste superiori di dvijā (due volte nati). Alcuni occidentali che si reputano “tradizionali”, ma che sono del tutto ignoranti d’Induismo, sostengono erroneamente una tale necessità per ottenere una dīkṣā del Sanātana Dharma. Gli stessi sostengono anche l’esistenza dei cosiddetti “fuori-casta”. Probabilmente confondono questa categoria dell’immaginario occidentale, con quella reale degli intoccabili; costoro, al contrario, appartengono pienamente alla casta degli śūdra. Sono intoccabili perché, per svadharma, svolgono un mestiere che li costringe a toccare sangue e cadaveri, com’è il caso di becchini, conciatori di pelli, chirurghi ecc. Persino nei sacrifici tantrici di animali, i sacrificatori devono essere obbligatoriamente intoccabili, a dimostrazione della loro piena appartenenza al caturvarṇa dharma e della loro indiscussa utilità sociale.[↩]
- In questo caso il linguaggio iniziatico distingue la prima fase d’uso “meccanico” dei rituali metodici, dalla seconda e terza fase di meditazione, quella mediata dal simbolo e quella diretta, che conduce alla fine l’iniziato a passare dallo stadio di sādhaka a quello di upāsaka.[↩]
- Nel kali yuga,questi ultimi, appartenenti a famiglie brāhmaṇiche (brāhma kula) di clan (gotra) particolarmente elevati, sono poche migliaia, sparsi in Andhra, Kerala e Nepal. Essi garantiscono al Sanātana Dharma il compimento dei sacrifici solenni e la trasmissione familiare dei rituali vedici.[↩]
- Perciò i gṛhastha che conoscono [tramite la scienza dei cinque fuochi] d’essere nati dal fuoco, d’essere figli del fuoco, d’essere stati prodotti dal preciso numero di [cinque] fuochi secondo la loro ordinata sequenza, e di essere nient’altro che forme di Agni [Vaiśvānara, l’uomo universale], se ne vanno alla divinità rappresentata dal fuoco [della pira] assieme a coloro che nella foresta meditano con ferma intenzione [śraddhā] e con costanza sul Satya Brahman-Hiraṇyagarbha, vale a dire vānaprastha e saṃnyāsin (BUŚBh VI.2.15). I saṃnyāsin di cui si tratta in questa circostanza sono coloro che partecipano al quarto stadio della vita (āśrama); non sono perciò i veri ativarṇāśrami che hanno trasceso le caste e le fasi della vita.[↩]