Paṇḍita Śrī Vidyā Nivāsa Miśra

Bhakti

Traduzione e note a cura di Saumyā Devī1

Dopo aver conseguito la conoscenza (jñāna) si procede nella via per raggiungere la devozione (paramabhakti)2. La bhakti suprema si ottiene dopo aver riunito in sé il jñāna e la bhakti. La bhakti è accessibile facilmente e spontaneamente3, oppure è del tutto inaccessibile. Accessibile in quanto anche l’uomo comune può entrare nella bhakti, purché a essa affidi tutto il suo cuore4. Inaccessibile, in quanto anche colui che compie l’ascesi più severa può essere incapace di ottenerla; persino chi è dotato di pura conoscenza, il jñānī, alla fine può stancarsi e desistere; persino chi è in grado d’ottenere risultati positivi con l’azione rituale (karmakuśala) può non riuscire ad afferrare il senso intimo della bhakti. Yaśodā5 poté ottenere mentre dormiva ciò che asceti e yogī (jatī jogī) non riescono a ottenere pur rimanendo svegli una vita dopo l’altra, concentrati giorno e notte nella meditazione (dhyānayoga). La bhakti è dunque una attività singolare. La bhakti all’inizio si propone come il miglior strumento offerto dalla sādhana per condurre al jñāna.

“Tra gli strumenti per realizzare il jñāna, la bhakti è invero il più importante” (jñāna sādhana sāmagryām bhaktireva garīyasī), ma ben presto lo strumento per ottenere la realizzazione (sādhana sāmagrī) diventa lo stesso oggetto realizzato (sādhya). Analogamente, la bhakti al principio appare come il miglior supporto sia per avere successo nel rituale (karma), sia per mantenere il distacco dai suoi frutti; progressivamente, compiendo il karma con [totale] abbandono [alla Divinità] (samarpaṇa), l’adesione dell’intelletto (buddhi) [alla bhakti], si trasforma nell’Unione suprema6. Percorrere questa via di bhakti comporta certamente grandi difficoltà, ma una volta intrapresa, la bhakti diventa una attitudine irreprimibile. Diventa una tale dedizione che le mandriane (gopī) fin dall’inizio devono dire: “Per te è facile dire: «Tralasciate Kṛṣṇa, contemplate [al di là di Lui] l’Indiviso privo di forma, (niṣkala nirākāra)»; noi stesse desidereremmo avere un po’ di sollievo da questa devozione rovinosa. Siamo così impotenti che non Lo [possiamo] dimenticare nemmeno per un attimo; Egli non è un mero ricordo, Egli è costantemente presente in realtà dinanzi a noi.”7 Il flusso di questa attività devota non si interrompe mai, tanto che non solo questa attività, ma anche [tutte] le altre diventano esclusivamente attività della bhakti. Madhusūdhana Sarasvatī, il celebre sapiente (vidvān) di Advaita Vedānta, scrisse dapprima l’opera intitolata Advaita Siddhi, ma raggiunse la perfetta felicità della cerca conoscitiva con il suo poema Ānandamandākinī e la dolce pienezza della bhakti in Bhaktirasāyana Śāstra. In un verso famoso, egli affermò anche: “Desidero meditare sulla Luce Suprema (param jyoti), sull’Indiviso (niṣkala) privo di forma (nirākāra) ma una tremula Luce blu giunge correndo, e con Essa viene la Yamunā del suo stesso colore. Un albero di kādamba8 sulla sua riva e da quell’albero la nota del flauto che scuote l’universo…

Di una tale bhakti è così permeato il flusso dei nostri pensieri che essa è diventata un tratto distintivo del nostro carattere nazionale. Non solamente ciò: essa è diventata la pietra di paragone con la nostra concezione di Totalità (sarvabhāva):

Brucia tutti gli atti rituali (dharma karma) ciò che non diventa devozione (bhāva) ai piedi di Rāma.

Per analogia sarà bruciato anche quel jñāna che ostacola l’accesso alla bhakti. A cosa serve quell’ascesi (tapas) che non si trasforma in combustibile9 per la bhakti? Come il sorriso pare fiorire sull’intero corpo del bambino, allo stesso modo la bhakti trabocca da ogni parte del corpo, da ogni respiro del devoto (bhakta). La condotta stessa del bhakta, la sua pazienza, il suo servizio, la sua spontanea benevolenza rivelano che la bhakti è raggiunta. Il pellegrinaggio (yātrā) di questa bhakti non è solamente come il viaggio del pellegrino dalla Kāverī alla Yamunā, alla Sarayū o alla Gangā; non è solamente il viaggio del pellegrino da Kānyākumārī al Kaśmīr, da Dvārkā a Purī. Questo sacro itinerario parte dalle Upaniṣad (la parola bhakti appare per la prima volta nella Śvetāśvatara)10 per arrivare ai Bhaktisūtra di Nārada e di Śāṇḍilya11 o allo Śrīmad Bhāgavatam [Purāṇa]; questo percorso non s’arresta alle parole dei celebri sant Āḷvāra12. Questo peregrinare interrompe il corso del tempo attraversando i secoli, da sud a nord, da est a ovest, per giungere fino a Rāmakṛṣṇa Paramahaṃsa13 e, mescolatasi alla campagna per l’indipendenza del paese, s’è diffuso tutt’intorno riecheggiando nei bhajan di Narsi Mehtā14:

È un vero bhakta solamente chi conosce il dolore degli altri.

Come si può anche solo tentare di comprendere una simile bhakti? La parola bhakti stessa è, invero, molto particolare. Se avesse un solo significato, allora non si potrebbe afferrare. Un significato è quello di compartire, essere distribuito, condividere15. Bhakti ha il senso di essere diviso in molte parti (khaṇḍa) per comprendere il Tutto (akhaṇḍa); condividere ogni parte (khaṇḍa) con il Tutto e compartire la Totalità (akhaṇḍatā) del Tutto, la quale non può essere sostenuta dal Tutto da solo. Diventare piccolo davanti all’Infinito, virāṭa vipula, condividere con il Tutto quella piccolezza, con umiltà, e quindi, diventato uno con il Tutto reclamare una condivisione nella Totalità (vipultā) dell’Infinito. Bhakti vuol dire raggiungere il limite dell’umiltà, riconoscere la propria nullità (akiñcantā) e lanciare da lì una sfida alla Signoria Suprema (parama aiśvarya): “Dopo essere diventato anche tu un nulla privo di qualsiasi cosa (akiñcana), gusta quale sapore vi è nel diventare un nulla. Bagnati e trema anche tu con me sotto la fitta pioggia, e, tremando, prova anche tu il tormento della fame e della sete; sebbene tu sia Nārāyaṇa, afferra la mano dell’uomo (nara) e fagli trascorrere la notte in tua compagnia. Quando il misero Sudāmā16 giunge con due pugni di riso per te in dono, in cambio rinuncia alla Signoria (aiśvarya) sul trimundio! Che cos’è questa eccelsa Signoria (parama aiśvarya), paragonata all’offerta di condivisione d’amore da parte d’una persona cara? La bhakti inizia sotto le forme dell’impotenza, della povertà, della supplica per poi rendere impotente l’Adorato (ārādhya), e far danzare il supremo Brahman.” Un poeta sanscrito disse:

Ascolta, amica, uno spettacolo meraviglioso, un intrattenimento piacevole si sta svolgendo nel cortile della casa di Nanda. La dottrina del Vedānta sta danzando, ricoperta di polvere.

Semplici fanciulle di villaggio hanno tentato il Brahman con del latte cagliato e lo stanno facendo danzare a loro piacimento.

La bhakti è così indifesa davanti al Signore supremo (Parameśvara) e dispiega tanto la propria debolezza che Parameśvara stesso cade nella sua rete; Egli stesso diventa arrendevole di fronte al bhakta e la loro compartecipazione diventa agevole. Coloro che considerarono questa resa come servitù, che la considerarono un decadimento dell’uomo, non conobbero il segreto delle potenzialità dell’uomo. Essi non riuscirono a capire che l’assunzione della povertà e della sottomissione è la preparazione per trovare la propria vera natura (sahaja). Finché la forma apparente (rūpa), la ricchezza (dhana), la sapienza (vidyā), la condizione sociale (pada) e quant’altro esisteranno in quanto superbia, in quanto senso dell’‘io’, fino a quel momento non sarà possibile assumere l’identità di Virāṭ17, la Signoria di Virāṭ, l’esperienza conoscitiva di Virāṭ, e nemmeno il riflesso (ābhāsa) dello Stato supremo (paramocya pada). Ogni orgoglio si svuoterà e l’uomo sarà semplicemente uomo solamente quando l’uomo che è dentro l’uomo, vale a dire l’amico della mente (manera mati), il reggitore interno (antaryāmī), si identificherà al reggitore esterno (bahiryāmī), riflettendosi nell’intero macrocosmo. Si deve decidere: o si rimane con la propria identità individuale, o ci si identifica con la Sua identità, si identifica la propria identità con la Sua. Se ci dev’essere un motivo d’orgoglio, allora sia almeno quello della propria identificazione con Lui.

“Tu sei il mio Signore e io il tuo servo; la mia sola identità reale è quella d’essere servo di un Padrone come Te. Qualsiasi cosa, sia essa buona o cattiva, avvenga per mezzo del mio Signore. La bhakti è una condivisione speciale: come si distribuisce l’acqua che nel mortaio è mescolata al sandalo di Prabhu, così possa la fragranza di Prabhu diffondersi molto lontano per mio mezzo. Come lampada la bhakti deve illuminare ardendo insieme allo stoppino, e deve trasformare i più piccoli sforzi in luce.”

Un significato ulteriore di bhakti è diventare secondario (gauṇa), non essere principale, primario (mukhya). Uno dei significati principali della parola è pane (roṭī); è chiamato roṭī un qualcosa di rotondo, una sostanza commestibile cotta sul fuoco. Poiché questo significato è inconsistente, si deve dedurne un significato traslato. Nell’affermazione “Tu sei il mio roṭī”, il roṭī non è la sostanza commestibile. Il roṭī a cui si allude non è nemmeno il sostentamento della vita, bensì esso è ciò che dà significato (artha), al sostentamento alla vita. Questo, pur non essendo il senso primario, è un [possibile] significato del termine. In questo modo la bhakti, pur non essendo l’attività primaria della vita, [in realtà] ne è il fine (lakṣya), senza il quale anche il significato primario (mukhya artha) appare irrilevante e insipido18. “Rāma esiste e quindi anche le relazioni e le connessioni esistono”; nell’attimo in cui Egli non è più davanti [a loro], allora tutto è vuoto. In assenza di Rāma, amici e parenti sembrano ombre di spiriti famelici (bhūta-preta); persino la sua città appare terrificante come il regno della Morte, lo Yamaloka. Allorché Kṛṣṇa è vicino, gli alberi si mostrano in fiore, i fiumi appaiono gonfi d’acqua, tutti i peli sui corpi degli umani sono ritti [per l’eccitazione], e gli occhi sono pieni di gioia; se Egli è lontano dalla vista per un attimo tutto appare solitario e deserto19. La bhakti ha inizio quando ci si identifica con questa desolazione; essa sorge dal presentimento del vuoto, e raggiunge la pienezza quando la cosa significata (artha) diventa il senso (sārthaktā) della vita.

Ogni testo dei nostri darśana, dal Nyāya Śāstra ai testi più complessi di jyotiśa e āyurveda, non inizia senza almeno un verso propiziatorio riguardante la bhakti. Lo scopo di questo verso propiziatorio è mostrare che solo apparentemente il significato primario (mukhya artha) è nyāya, è jyotiśa, è āyurveda, mentre in realtà il significato secondario e trasposto, lakṣyartha [e quindi il fine ultimo] è proprio Colui che appare sotto le apparenze di un volubile sconsiderato, che appare sotto forma di un Gaṇeśa impaziente, che appare sotto le spoglie di un perdigiorno del Vraj20, che appare come qualcuno che girovaghi per le foreste: Egli, che è proprio il Fine Supremo (param artha). Sembra che Egli non sia qualcosa che valga la pena di conoscere, che sia solo un oggetto di curiosità, non un oggetto di conoscenza, che Egli sia una cosa alla portata di mano, ma che non si può afferrare con mano:

Lo specchio è nella mano, ma la bellezza che risplende nello specchio non appare allo stesso modo nella mano.

Nient’altro che un puro oggetto di conoscenza. Che cosa c’è oltre il bhāva visibile nella bhakti? La ricerca stessa; non vi è soddisfazione a compiere la ricerca attraverso quello che è visibile. La bhakti è una ricerca, anzi, la Cerca per eccellenza.

Il terzo significato di bhakti è quello di rendere servizio (sevā), cantare inni devozionali, adorare. Questo significato è il più noto. Ma il canto di inni devozionali e il servizio non sono semplici azioni del corpo, della parola e della mente. Congiungere le mani, prosternare interamente il corpo a terra per rendere omaggio, assumere una postura (āsana), pestare [e polverizzare] il [legno di] sandalo, preparare la ghirlanda di fiori, preparare il cibo (naivedya), per l’offerta sacrificale, preparare il pañcamṛta21 per l’abluzione rituale, pregare, recitare inni sacri (stotra) e versi devozionali (kīrtan): tutto questo da solo non è bhakti. Anche lo sforzo di fissare la mente per qualche tempo sull’Oggetto di adorazione (ārādhya), non è tutta la bhakti. Bhakti consiste nel trasformarsi in Essere (bhāva). Non è fare bhajan; è diventare bhajan. Il significato del diventare bhajan è quello di stabilire una relazione di intimità estrema con l’Oggetto di adorazione. Quando ciò accade allora si può anche ridere e scherzare con Lui, si può persino arrivare a rimproverarlo.

Un amico aveva raccolto molte śālagrāma22; giorno dopo giorno si sedeva a lavarle, ad applicarvi polvere di sandalo, e continuava a rimbrottarle [mormorando]: «Impiego un’intera giara d’acqua per lavare queste cose nere e due etti e mezzo di sandalo in polvere è tutto per loro. Sono affamate fin dal primo mattino. Come sono arrivate a occuparmi la mente e a comandarmi in tutto e per tutto?» La pūjā continua, il mormorio prosegue come la recitazione incessante di un inno, e pian piano il flusso delle lacrime inizia a scorrere, con intensa compartecipazione (āveśa). La loro fonte rituale (karmakaṇḍa) è così piena di fervore (rasa), che la mente diventa pura e sacra alla sua sola vista. L’identificazione con Ciò che è sostanziato di bhajan è molto più profonda nella semplicità, nella fermezza, nella partecipazione al dolore degli altri. Saziare l’asino che stava morendo di sete per strada con l’acqua destinata a lavare l’immagine di Bhagavān, significa saziare Bhagavān stesso23. L’identificazione nel cuore del bhakta è condizione indispensabile per la fusione (druti); non tollerare il dolore di chicchessia e rimuoverlo è considerato sinonimo di bhajan. Prendere i colpi degli altri su di sé, non considerare i colpi ricevuti, sopportare ogni cosa perché ciò che sta provocando sofferenza non è estraneo [alla propria persona], ma è connaturato; quando si è separati da se stessi, dov’è mai il dolore che da se stessi proviene? In questo modo la bhakti consiste nel trovare il significato della propria identità con il Sé (ātmīyatā), è la presa di coscienza che qualsiasi sostanza Lo tocchi non può rimanere inanimata, né può rimanere una semplice sostanza. Lo yogurt spalmato sulle mani di Kṛṣṇa non è più yogurt, è Gopāla stesso, e la gopī perciò esce a vendere lo yogurt e grida: «Qualcuno vuole comprare Gopāla? Qualcuno vuole comprare Gopāla?» Al tocco di Kṛṣṇa ogni singola particella del Vraj vibra di coscienza (caitanya). Pur avendo lasciato il Vraj, Śrī Kṛṣṇa non se n’è andato; egli è unito a ogni singola particella di quell’area e, rimuovendo la lunga interruzione di spazio e tempo, anche oggi il bhakta vi può intuire (anubhava) la Sua Presenza (upasthiti). Questa è l’influenza della Kālindī24 del kāvya25 cantata da poeti che erano anche bhakta, quali Haridāsa26, Hita Harivaṃśa27 e Sūra Dāsa28. Attraverso il bhāva di siffatti bhajan, la bhakti è contagiosa. La sola presenza di simili bhakta è stupefacente. Alla fine della sua vita, Brahmalina Svāmī Karpātrījī non riusciva a leggere i testi da solo; ascoltava il Rāmacaritamānasa29, oppure, quando sopraggiungeva qualche buon conoscitore del sanscrito, ascoltava lo Śrīmad Bhāgavatam e le lacrime iniziavano a scorrere copiose. Una volta, in un’occasione come quella descritta, un curioso chiese: «Mahārājaśrī, voi siete una dimora dell’advaita (advaita vihāri), un realizzato nella conoscenza (jñāna sādhaka), un uomo che ha raggiunta la perfezione (siddha mahāpuruṣa) il kuṇḍalinī yoga, perché siete dunque così commosso?» Pūjya Svāmījī contenne il suo turbamento e per un po’ non disse nulla; poi disse: «Non ho una risposta.» E iniziò a recitare un verso di Govinda Dāmodāra Mādhāveti con voce rotta. Allora quel curioso realizzò quanto futile fosse stata la sua domanda. La bhakti, in realtà, non è un’acquisizione, è una profonda adesione, è l’adesione per eccellenza: quella con Īśvara30 in cui tutte le passioni (rāga), tutti gli attaccamenti (āsakti) sono riassorbiti. Quando rimane solo quel desiderio, quel desiderio irrealizzato, quel desiderio diventato intimo desiderio, solo allora la bhakti riceve l’appellativo di bhakti.

Bhakti non è fare bhajan, è essere bhajan; non è fare sevā, è essere sevā. Caitanya Mahāprabhu31 ha enunciato tre caratteristiche del bhakta: colui che rende se stesso più piccolo di una pagliuzza, che si prostra completamente ai piedi del Tutto (tṛṇādapi sunīceva); colui che rende se stesso più tollerante e, al tempo stesso, più generoso dell’albero che produce frutti anche per chi lo colpisce con la zolla di terra e offre la sua ombra anche a chi viene a tagliarlo (tarorapi sahiṣṇunā); egli non abbandona la sua natura propria (sahaj svabhāva). Colui che considera una necessità rendere rispetto agli altri e non nutrire propensione alcuna verso se stesso, non tenere se stesso in considerazione alcuna (amāninā mānadena). Quando vi sono queste tre qualità, allora è provata la bhakti32.

Non vogliamo entrare qui nella controversia tra il Qualificato (saguṇa) e il Non Qualificato, (nirguṇa). Chi pratica la bhakti e in che modo la pratica non è sempre il solo argomento [possibile] di discussione; che cosa fa la bhakti, questo ci preme mostrare. La bhakti ha influenzato costantemente e in modo così esteso il sacro itinerario dei nostri pensieri che, attraverso il sahaj bhāva, ha reso insignificante la differenza tra ciò che sta in alto e ciò che sta in basso, ha dato fondamento al rifiuto della supremazia della politica, ha fornito l’indicazione esatta per la corretta identificazione delle pulsioni interiori dell’uomo. Ha colmato la mente dell’indigente e dell’uomo comune con la fede di non essere in alcun modo indigente o comune.

Guarda dentro di te, di fianco a te, la divina grandiosità (alaulik vaibhava) dell’universo è una bellezza senza precedenti (apūrva saundarya); essa è tua, è tua da sempre perché tu non hai niente da dire di tuo, tu non possiedi nulla. Essa ha creato una dolce premessa per rendere umano l’ordine sociale; nell’illusione di un rinascimento l’abbiamo giudicata schiavitù mentale e l’abbiamo lasciata prosciugarsi. Ciò nonostante, internamente, in qualche punto, le nostre arti creative (in particolar modo la musica e la letteratura) ne hanno preservato il sapore. Ha dato credibilità al principio dell’amministrazione pubblica. Ha risvegliato la consapevolezza della profonda relazione tra tutti gli oggetti inanimati e tutte le creature viventi della manifestazione percettibile. Come suggerì l’ācārya Rāmacandra Śukla, anche le spine sui sentieri che portano a Citrakūṭa appaiono care perché discendono da quelle spine che punsero i piedi di Sītā e che Rāma tolse con le sue stesse mani.

Senza la comprensione del pieno significato di questa bhakti non è possibile capire la forma dinamica della corrente del pensiero indiano. Hanno cominciato a sorgere richieste di istanza di bhakti su nuovi fronti; questo è un segno positivo. Dopo aver udito dell’influenza dei racconti del Rāmacaritamānasa e del Bhāgavatam in più luoghi dell’Inghilterra, dell’America e del Canada e del ritorno a una condizione di compartecipazione a quei racconti, mi pare che il vuoto della prosperità economica, l’artificiosità delle relazioni umane e l’angoscia di una solitudine immotivata si stiano facendo sentire. Quale sforzo estremo (tapa)33 stai esaminando, Ghanśyāma34? Dove stai dormendo? Negli occhi, s’è prosciugata finanche l’acqua delle lacrime, i sentimenti sono morti: vieni dunque, ricolma il firmamento, ricolma la mente, scendi in pioggia copiosa, riempi fino all’orlo le pozze essiccatesi; il fuoco della terra sta soffocando nel fumo.

Quando verrai?

Oṃ śānti śānti śāntiḥ

  1. Saggio pubblicato in Vidyā Nivāsa Miśra, Bhāratīya Cintanadhārā, Delhi, Prabhāta Prakāśana, pp. 94-100 [N.d.C.].[]
  2. Ma per la bhakti indivisa, diretta a me solo, o Arjuna, posso essere conosciuto, veduto secondo realtà e penetrato, o distruttore dei nemici; poiché tale è la mia natura”, Śrīmad Bhagavad Gītā (BhG), XI, 54. “Per mezzo della bhakti; di che tipo? Indivisa, cioè diretta solamente a Bhagavān, costantemente. Quando, tramite tutti gli strumenti di conoscenza, si realizza [che] nient’altro che Vāsudeva [esiste], allora sorge una bhakti indivisa […]”, BhG Śaṃkara Bhāṣya XI.54.1 [N.d.C.].[]
  3. Il termine sahaj significa innato, spontaneo, innato, originale, naturale; oppure che è sempre lo stesso fin dall’inizio. Nel suo significato più elevato sahaj è ciò che è intimamente connaturato all’ātman [N.d.C.].[]
  4. Letteralmente “purché egli abbia śraddhā”. Secondo il paṇḍita Miśra il significato etimologico di śraddhā è ‘porre il cuore’, dhā hṛd [N.d.C.].[]
  5. Yaśodā è la madre adottiva di Kṛṣṇa [N.d.C.].[]
  6. Letteralmente “diventa l’Adesione suprema (mahāsakti)”. Il termine āsakti indica l’atto di aderire o unirsi fermamente a qualche cosa [N.d.C.].[]
  7. Kṛṣṇa è la diretta e costante intuizione, conoscenza della Realtà [N.d.C.].[]
  8. Nauclea cadamba [N.d.C.].[]
  9. Drava, il combustibile, è il prodotto del calore ascetico [N.d.C.].[]
  10. Chi possiede la suprema devozione (bhakti) nel dio (deva) e come nel dio così anche nel maestro (guru)”, Śvetāśvatara Upaniṣad, VI.23. Il verso si conclude come segue: “Per costui splendono le verità qui esposte, per costui il cui spirito è eccelso, mahātman. Oṃ! Tat sat. Oṃ!” [N.d.C.].[]
  11. I Bhakti Sūtra dei ṛṣi Nārada e Śāṇḍilya sono due brevi testi che insieme alla Bhagavad Gītā, sono considerati tra i testi fondamentali delle correnti bhakta. I principi della bhakti sono enunciati nei seguenti versi del bhaktisūtra di Nārada: “ [La bhakti] è superiore persino al rituale (karma), alla conoscenza (jñāna) e allo yoga”, 25; “Quindi, la bhakti solamente dev’essere perseguita da coloro che desiderano la liberazione”, 33; “Śāṇḍilya [dichiara che bhakti è ciò che] non è opposto all’adesione (rati dalla √ram, stare, dilettare, rimanere immobile) all’ātman” (18) [N.d.C.].[]
  12. Un gruppo di dodici rinuncianti vaiṣṇava vissuti in area tamiḷ tra l’VIII e il IX sec. d.C. È loro attribuita la raccolta di versi Divya prabandha ispirata alle Upaniṣad, ai Purāṇa, al Rāmāyaṇa e al Mahābhārata. Secondo gli Āḷvāra, bhakti è la resa totale (prapatti) al dio Viṣṇu e alla sua consorte Śrī Devī, per mezzo della bhakti, conduce all’ottenimento della liberazione [N.d.C.].[]
  13. Celebre bhakta di origine bengalese (1836-1886) al quale, in giovane età, la Divinità si manifestò nelle forme di Kālī, Sītā, Rāma e Kṛṣṇa [N.d.C.].[]
  14. Narsi Mehtā è un celebre poeta e cantante gujarati del XV sec. d.C. [N.d.C.].[]
  15. La radice verbale √bhaj significa dividere, condividere, conferire, ecc. [N.d.C.].[]
  16. Condiscepolo di brahmacārya di Kṛṣṇā presso il guru Sandīpana. Quando Kṛṣṇā era già Re di Dvārikā, Sudāmā lo venne a trovare offrendogli tutti i suoi averi: due manciate di riso [N.d.C.].[]
  17. “Immenso Sovrano”; con questo attributo qui si allude all’ātman quando è considerato il reggente del microcosmo umano [N.d.C.].[]
  18. I termini mukhya artha e lakṣya artha sono propri della retorica e indicano il significato primario, diretto e quello secondario, derivato di una parola. La grammatica e la retorica sanscrite riconoscono tre funzioni (śakti) del significato della parola (artha): letterale, abhidhā; indiretta, lakṣaṇā; che suggerisce un significato non palese, vyañjanā. Qui il paṇḍita Miśra, attraverso termini propri della retorica, esprime verità di ordine ontologico [N.d.C.].[]
  19. Cfr. Bhāgavata Purāṇa, X, 21 [N.d.C.].[]
  20. Regione attorno alla città di Mathurā, teatro delle gesta giovanili di Kṛṣṇa mandriano (gopāla) [N.d.C.].[]
  21. Quintuplice ambrosia: latte, latte cagliato, yogurt, burro chiarificato, miele [N.d.C.].[]
  22. Ammoniti fossili che sono oggetto di culto vaiṣṇava in quanto simbolo del cakra, uno degli attributi Dio [N.d.C.].[]
  23. Si tratta dell’allusione a un aneddoto su Ekanātha, un sant medievale del Maharastra [N.d.C.].[]
  24. Figura mitica femminile che rappresenta un particolare tipo di poesia amorosa.[]
  25. La poesia lirica classica [N.d.C.].[]
  26. Poeta, musico e rinunciante del XV sec., appartenente alla tradizione della madhura bhakti in onore di Kṛṣṇa. Fu maestro di Miyan Tansen e fu tra i discepoli di Caitanya Mahāprabhu [N.d.C.].[]
  27. Fondatore (1502-1552) del tempio di Rādhā Vallabha a Vrindavan e del culto devozionale a Rādhārānī; le sue opere in hindī e sanscrito rivelano l’influenza dei nimbarka e dei madhva [N.d.C.].[]
  28. Celebre poeta cieco (1483-1561), discepolo di Vallabhācārya. Diede ampia espressione letteraria alla bhakti rivolta a Kṛṣṇa. Compose in ottantamila versi il Sursagar, una versione in braj di alcuni episodi del Bhāgavata Purāṇa [N.d.C.].[]
  29. Capolavoro del poeta bhakta Tulasī Dāsa (1532-1623), versione del Rāmāyaṇa in lingua avadhī [N.d.C.].[]
  30. Essa [la bhakti] è l’adesione suprema, quella con Īśvara”. Śāṇḍilya, Bhakti Sūtra, I. 2 [N.d.C.].[]
  31. Ardente devoto del dio Kṛṣṇa (1486-1534), di cui era considerato una manifestazione, e fondatore del gaudiya sampradāya [N.d.C.].[]
  32. Tṛṇādapi sunīceva, tarorapi sahiṣṇunā, amāninā mānadena, [kīrtanīyaḥ sadā hari]”, Śikṣāṣṭakam, 3. Questo inno fu composto da Caitanya Mahāprabhu [N.d.C.].[]
  33. Letteralmente tapas è il calore generato e accumulato attraverso le pratiche ascetiche [N.d.C.].[]
  34. ‘Intensamente tenebroso’, appellativo di Kṛṣṇa [N.d.C.].[]