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La Bhāvana Upaniṣad

Testo e Commento

4. Vārāhī è la divinità padre e la propizia divinità Kurukullā è la madre.

L’esatto significato di questa affermazione rimane oscuro. Bhāskararāya semplicemente riporta in modo dettagliato il riferimento testuale nel Tantrarāja Tantra (35, 3). Manoramā, il commento al testo del Tantra, cerca di spiegare brevemente le implicazioni suggerite nelle espressioni ‘padre’ e ‘madre’; la prima esprimerebbe la potenza di protezione dell’aspirante dall’insuccesso, la seconda sarebbe quella che provvede al neo iniziato qualsiasi cosa gli possa essere utile. Con ciò s’intende che tali poteri riguardano ‘ciò che porta a smarrirsi’ (“unmārgapravartikāśaktayah”), ciò che è creato dai fraintendimenti individuali (“atasmiṃstadbuddhim janayitvā”). Più avanti il testo mette in relazione la figura materna con il dharma che sostiene il discepolo, e la figura paterna con l’adharma in quanto agisce per difenderlo dai coinvolgimenti mondani. Il commento non aggiunge molto per far comprendere perché queste due divinità in particolare siano state scelte con la funzione di produrre il corpo umano e lo Śrī Cakra, e perché Vārāhī e Kurukullā siano rilevanti nella meditazione sullo Śrī Cakra.

Si tratta di due divinità ben note a certi stregoni di villaggio, che le evocane soprattutto nel contesto di riti magici di tipo violento e malefico per espellere (uccāṭana) il nemico dal gruppo sociale, o provocargli la paralisi delle normali funzioni corporee (stambhana), e persino per ucciderlo (māraṇa). In ambiente iniziatico, in particolare della mano sinistra, queste due divinità figurano nei rituali tantrici di protezione del kula o del singolo sādhaka, soprattutto nelle regioni himalayane del Tibet e in Assam, associate ad altre Dee più importanti, come Tārā, Śabarī, Mahāmāyūrī, Marīcī, ecc. Ma queste ultime mai sono considerate tanto importanti da poter svolgere similmente la funzione di genitori primordiali.

Delle due, Vārāhī figura frequentemente come la quinta (pañcamī) tra le ‘sette divinità madri’ (sapta mātṛkā, mātā iva) che sono: Brahmāṇī o Brāhmī, sposa di Brahmā, principio di manifestazione; Māheśvarī o Īśānī, sposa di Īśvara, principio di assoluta signoria, Kaumarīo Kārttikeyī, anche conosciuta come Māyūrī, sposa di Kumāra, principio di eterna giovinezza; Vaiṣṇavī, consorte di Viṣṇu, principio di espansione; Vārāhī sposa di Varāha, principio di restaurazione; Indrāṇī o Aindrī, sposa di Indra, principio di potere e Yamī, sposa di Yama, principio di morte. Quest’ultima sostituisce di frequente Chāmuṇḍā, che è il principio di distruzione dei demoni. Il Varāha Purāṇa, nella sezione che descrive la successione delle Mātṛkā ne elenca, invece, otto (aṣṭamātṛkā) includendo Yamī e aggiungendo Māhendrī per intendere Cāmuṇḍā1. Kurukullā figura meno di frequente, ma è annoverata come una delle nove divinità protettrici dell’organizzazione iniziatica (kuladevī) di coloro che seguono il tantrismo. Queste sono: Nārasiṃhī, Chāmuṇḍā, Vāruṇī, Kalāpī, Kurukullā, Nārāyaṇī, Kaumārī, Parājitā e Aparājitā. È anche inserita tra le sedici nityā divine e il Nityā Tantra le dedica un’intera sezione (paṭala). Lo Śrī Vidyārṇava Tantra la comprende tra le sapta mātṛka, dandone una connotazione di una certa importanza.

Tantrarāja Tantra dedica la sua ventiduesima sezione a Kurukullā e la ventitreesima a Vārāhī. Si deve notare che il normale ordine seguito nei testi tantrici è quello di menzionare Vārāhī per prima e poi, in immediata successione, Kurukullā. Il Tantrarāja Tantra, nel capitolo VII, elenca Kurukullā e Vārāhī alla fine di una elaborata spiegazione delle sedici divine nityā che incominciano con Kāmeśvarī.

Kurukullā è descritta nel commento di Bhāskararāya come la divinità preposta a ricevere le offerte per le divine nityā. Il commentatore spiega, così, che ella è indifferenziata (apṛthagbhūta) da ognuna delle nityā. Invece Vārāhī è considerata come parte importante (aṅga bhūta) delle sedici divine nityā e come distribuita tra esse. Le sedici nityā rappresentano i sedici digiti della luna che culminano nel plenilunio e di cui lo Śrī Cakra è un simbolo. Kurukullā simboleggia la luna piena in quanto è colei che è beatamente satura di offerte ricevute. Invece Vārāhī rappresenta la luna nuova nel suo aspetto minaccioso: infatti vārāha significa divoratore. Questo è il motivo per cui Manoramā descrive Kurukullā come responsabile della distribuzione dei doni (abhimatapradā) e Vārāhī come ‘colei che paralizza’ (staṃbhanakarī). Infatti nei rituali tantrici Vārāhī è invocata per paralizzare il nemico (staṃbhana)2 e Kurukullā è invocata per ‘esaudire ogni desiderio’ (sarvābhīṣṭa samsiddhyaisulabho’yam)3.

Bhāskararāya ipotizza che Vārāhī rappresenti le ossa, ovvero le parti solide del corpo, che il figlio riceve dal padre, e Kurukullā rappresenti carne, midollo, grasso ecc., vale a dire le parti morbide ricevute dalla madre. In altri contesti, come per l’āyurveda, per esempio, si afferma, invece, che ossa, muscoli, sangue e grasso derivino dal principio femminile (Śakti), mentre il midollo, lo sperma, il respiro e la forza dal principio maschile (Śiva). Tuttavia il commentatore alludeva a un concetto tantrico della costituzione del corpo, diverso da quello della scienza medica tradizionale. In ogni caso egli identifica con chiarezza i principi di ‘padre’ e ‘madre’ con la costituzione corporea del devoto. Se ci si chiede per quale motivo ‘padre’ e ‘madre’ del corpo debbano essere due divinità femminili, la ragione va cercata nel fatto che l’aggregato grossolano ha una componente di potenza maggiore delle altre costituenti dell’aggregato individuale. Tuttavia il commentatore sottolinea in modo chiaro e significativo che la ‘figura paterna’, Vārāhī, è sì una divinità femminile, ma con muso da cinghiale maschio, essendo armato di zanne.

Effettivamente Vārāhī simbolizza prakāśa (illuminazione, irraggiamento) del principio maschile (Śiva) e Kurukullāil vimarśa (volontà), aspetto del principio femminile (Śakti). Il primo è rappresentato dal punto centrale (bindu) nello Śrī Cakra e il secondo dal triangolo (trikoṇa) che lo contiene. Bisogna ricordare che il triangolo è l’espansione o la volontà del punto centrale. Avendo assunto una forma concreta dotata di dimensioni (sakala), il triangolo è tale da poter ricevere l’attenzione dell’iniziato. Ci sono diversi riferimenti a Kurukullā considerata come volontà. Nel Lalitā Sahasranāma il nome Kurukullā è riferito come attributo diretto della Dea Madre suprema (I.144). Il commento di Bhāskararāya aggiunge che questa divinità risiede nel pozzo della volontà (vimarśā maya vāpyām), che si trova nella città sacra (Śrī Pura, cioè lo Śrī Cakra) cinta dai bastioni del senso dell’ego (ahaṃkāra) e della coscienza individuale (citta).

Fuori dal contesto della descrizione dello Śrī Cakra, è necessario ora fornire alcune informazioni su queste divinità. Vārāhī, chiamata anche Pañcamī e Vārtālī, è dunque elencata tra le sette madri divine (sapta mātṛkā) e rappresenta il potere del Varāha, avatāraṇa di Viṣṇu in forma di cinghiale. Vārāhī. È iconograficamente raffigurata come una dea con la testa di cinghiale (kolāsyā), con tre occhi e otto braccia che reggono un disco, una conchiglia, un loto, un cappio, una mazza, un aratro in sei mani; le altre due mani mostrano gesti di rassicurazione dalla paura (abhaya) e di generoso esaudimento di doni (varada). È assisa sull’aquila sacra a Viṣṇu, il Garuḍa o, alternativamente, su una tigre, un leone, un elefante o un cavallo. Nel Tripurā Siddhānta si afferma che è in questa forma che la Devī apparve al celebre iniziato tantrico Varāhānanda Nātha. Nei testi è descritta con un aspetto terrifico (mahāghorā mahābhīmā bhairavī), con terribili zanne, ma, al tempo stesso, sorridente in modo affascinante, invincibile, infondendo fiducia e vittoria al suo devoto. Nei riti tantrici apotropaici, la sua invocazione è prescritta per indurre paralisi, incoscienza, involontario stupore, distruzione, impedimento e attrazione.

Vārāhī, in Śrī Vidyā, è identificata con il comandante (daṇḍa nātha) delle armate della Dea Madre e anche come la sua consigliera principale (mantriṇī). Nei Tantra è anche rappresentata come la dea tutelare di colore fosco (Rājaśyāmalā). In qualità di comandante dell’esercito è dipinta sopra un carro tirato da cinghiali.

Vārāhī è anche una delle yoginī, ossia un’attendente della Devī, in forma di cinghiale perché è ben noto lo spericolato coraggio del cinghiale selvaggio, in particolare quello della madre quando deve difendere i suoi cinghialini. Nel mito tantrico è Vārāhī che sollevò la terra con le sue zanne portandola alla superficie dell’oceano primordiale per procurare a tutte le creature un luogo solido su cui vivere. A volte è descritta come la moglie (kāntā) di Viśvakṣena, capo degli eserciti di Viṣṇu. Ma è più usuale considerarla come la potenza (śakti) di Viṣṇu stesso in quanto Varāha avatāra. Il Mārkaṇḍeya Purāṇa narra che quando la Devī uscì per combattere i demoni malvagi, la accompagnarono le śakti emanate da tutti gli Dei. È in quell’occasione che le sette mātṛkā assunsero allora le loro forme. La potenza di Viṣṇu che accompagnò la Devī in quelle gesta fu proprio Vārāhī.

Kurukullā è rappresentata come una dea di una categoria inferiore rispetto a Vārāhī, avendo l’unico ruolo di ricevere le offerte dei devoti (balidevatā). Nell’iconografia è descritta con il corpo rosso, nuda, con capelli sciolti e scarmigliati, occhi arrossati per ubriachezza, esultante, e con quattro mani che portano un arco e una freccia, un tridente (triśula) e un cappio4. E’ invocata quale antidoto al veleno, in special modo contro morso del cobra. È decantata come madre dell’universo o più direttamente come la forma materiale stessa dell’universo (Virāṭ) composta dei tre guṇa (sattva, rajas e tamas). Quando è oggetto di adorazione, la si immagina circondata e protetta dalle sue śakti (āvaraṇa devatā), in particolare dai quattro spiriti del recinto, frementi di passione, eccitamento e gioia. La sua formula di invocazione completa è di venticinque lettere ed è conosciuta come trikhaṇḍā, composta di tre sezioni. Anche Kurukullā è una divinità sostanziata di essere, coscienza e beatitudine (saccidānanda vigrahā). È associata principalmente a Tārā, per cui si dice che con la sua barca traghetti il devoto oltre l’oceano delle trasmigrazioni.

Varahi Devi and Kurukullacirca 1830. Mandi, India.

Le due figure genitoriali, Vārāhī e Kurukullā, sono spesso meditate congiuntamente, e allora le si visualizza sedute sulla riva dell’oceano di succo di canna da zucchero (ikṣusāgara). Vārāhī siede tenendo di fronte a sé la Dea Madre Lalitā, che tiene corte nell’isola dei nove gioielli (navaratna dvīpa5) circondata dai quattro oceani di cui si parlerà di seguito. Invece Kurukullā dà loro le spalle, rivolta com’è al devoto.

5. I fini della vita sono gli oceani.

Bhāskararāya, nel prologo al suo commento a Nityā Ṣoḍaśikārṇava, scrive: “L’unico fine della vita umana qui, che tutti ugualmente desiderano, è certamente il piacere. Ma il piacere ha due aspetti: artificiale e naturale. Sono rispettivamente designati dalle espressioni amore per il piacere (kāma) e libertà dalla schiavitù fenomenica (mokṣa). Il mezzo per ottenere entrambi è una vita virtuosa (dharma), e il mezzo per avere una vita virtuosa è il benessere (artha). Quindi il benessere è desiderato da tutti. L’uno conduce all’altra. Gli obiettivi sono solo quattro e sono gerarchicamente sovrapposti. La libertà dalla schiavitù fenomenica (mokṣa), essendo beatitudine della propria natura, è il più alto e migliore dei fini; e questo non va contro l’affermazione nel Kalpasūtra: “La riflessione sul proprio Sé è il fine degli uomini”.

I fini della vita umana (puruṣārtha) sono tradizionalmente quattro: la vita in accordo con le ingiunzioni scritturali e le norme sociali (dharma); il benessere per soddisfare le normali attività e doveri (artha); la fruizione dei piaceri della vita (kāma); la Liberazione dalla prigionia della trasmigrazione (mokṣa). Gli esseri intelligenti li ritengono i valori della loro vita. Tutte le aspirazioni umane, gli impulsi e i comportamenti sono ordinatamente e adeguatamente compresi in queste quattro categorie. I fini sono qui denominati oceani poiché questo termine è un’espressione simbolica per il numero quattro (catussāgara); ma sono anche paragonati agli oceani per la loro inesauribile massa e imponderabile profondità (teṣām agādhāpāravistāratvāt). La parola sāgara (oceano) è anche usata per il conteggio più alto dei numeri: viṅda, kharva, nikharva, śaṃkha, padma e sāgara, ognuno di questi accresce di dieci volte la quantità precedente6.

I quattro fini delimitano l’esistenza e la condotta degli esseri umani, sia come individui sia riuniti a gruppi, come i quattro oceani segnano i limiti dell’estensione terrestre. Nell’immaginario mitico, i quattro oceani sono: l’oceano di succo di ‘canna da zucchero’ (ikṣu) situato a ovest; l’oceano di ‘vino’ (irā) a sud; l’oceano di ‘burro chiarificato’ (ghṛta, ghī) a est e quello di ‘latte’ (kṣīra) a nord, corrispondenti rispettivamente a dharma, artha, kāma e moksha.

Il corpo umano inteso come un’isola nel mezzo di queste acque è l’argomento del prossimo verso (vākya). Queste acque oceaniche rappresentano in jīva che risiede nel corpo, associato ai risultati ottenuti con la pratica iniziatica svolta per realizzare i quattro fini della vita. La relazione tra queste acque e le figure genitoriali primordiali descritte nel precedente vākya è che Vārāhī e Kurukullā sono considerate guardiane delle rive (tīrapālikā). Vārāhī, la figura paterna, siede sulla riva guardando in direzione della grande Devī che regna sull’isola e sulle acque, e Kurukullā di fronte all’iniziato. Vārāhī orienta i fini nella direzione della Devī, mentre Kurukullā coinvolge la stessa Devī nella realizzazione dei fini della vita. La prima guida verso la più alta meta, la liberazione (mokṣa); la seconda conduce verso la fruizione delle gioie dell’esistenza (bhoga).

È opportuno ricordare che i Tantra non disprezzano il valore dei piaceri della vita. Danno uguale importanza a tutti i quattro puruṣārtha perché è la stessa Dea Madre che ha voluto porre nell’essere umano non solo il corpo, l’isola, ma anche i fini della vita, gli oceani. Quindi le tendenze rappresentate da Vārāhī e Kurukullā sono tra loro inseparabili. Le rispettive funzioni sono complementari, sebbene le direzioni a cui conducono siano opposte. Per questa ragione queste due divinità sono invocate insieme.

  1. La scheletrica Cāmuṇḍā, sterminatrice di demoni, è considerata spesso una divinità pericolosa da evocare; per questa ragione è spesso sostituita da una Dea meno terrifica.[]
  2. L’azione protettiva per il dīkṣita e paralizzante per le influenze avverse avviene per mezzo della fascinazione. Il mantra usato per l’incantesimo è Oṃ vārāhyai namaḥ.[]
  3. Anche Kurukullā agisce per fascinazione. Il mantra che produce beatitudine, usato per l’incantesimo, è Oṃ Kurukulle Hrīḥ Svāhā.[]
  4. Nella sua forma più benevola il cappio è sostituito da un fiore di loto.[]
  5. Si tratta del cielo supremo che le Upaniṣad chiamano Brahmaloka, la tradizione vaiṣṇava Vaikuṇṭhae quella śaiva Kailāsa.[]
  6. La numerazione decimale usata nei Purāṇa è, infatti, la seguente: eka 1; daśa 10; śata 100; sahasra 1.000; ayuta 10 000; niyuta 100.000; prayuta 1.000.000; arbuda 10.000.000; nyarbuda 100.000.000; vṛnda 1.000.000.000; kharva 10.000.000.000; nikharva 100.000.000.000; śaṅkha 1.000 000.000.000; padma 10.000.000.000.000; sāgara 100.000.000.000.000. Queste grandezze sono state usate soprattutto per calcolare la durata dei cicli cosmici.[]