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March 14, 2021

1. La Luce della Realtà

    Śrī Śrī Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī Mahārāja

    La Luce della Realtà
    Il metodo delle tre avasthā

    Traduzione, prefazione e note a cura di
    Maitreyī e Devadatta Kīrtideva Aśvamitra

    Prefazione

    Con tutto il mio essere mi prosterno ai sacri piedi,
    che dissipano la paura per le continue nascite e morti,
    del mio grande guru che, con la luce della sua conoscenza,
    ha dissolto le tenebre dell’illusione che coprivano la mia mente.
    (Māṇḍūkya Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya, IV.100)

    Nel 1941 Śrī Śrī Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Mahārāja raccolse una serie di suoi insegnamenti rivolti ai discepoli di jñāna yoga, che pubblicò in lingua kannaḍa con il titolo di Paramārtha Cintāmaṇi (La gemma metafisica che realizza tutti i desideri)1. Il tono dell’insegnamento orale diretto ad personam mutò nello stile della trattatistica vedāntica (siddhānta), con citazioni delle fonti e con riferimenti rigorosi2. Si tratta di una delle opere di maggior rilevanza del grande maestro advaitin, radicata principalmente sui commenti di Śaṃkarācārya alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda. L’argomento del testo riguarda il metodo dei tre stati (avasthātraya mīmāṃsā), l’unico strumento conoscitivo capace di dissolvere l’ignoranza al fine di riconoscere la propria eterna natura di Assoluto, di Brahmātman. Con argomentazioni inconfutabili fondate sulla sua esperienza intuitiva, con l’ausilio subordinato di una logica serrata e in pieno accordo con le tre fonti (prasthāna traya) della metafisica vedāntica, Upaniṣad, Brahma Sūtra e Bhagavad Gītā, Pūjya Satcidānandendra Mahārājajī ha composto un incomparabile manuale per i cercatori della conoscenza suprema (jijñāsu).

    Undici anni dopo che Svāmījī aveva lasciato il corpo, Devidas Bhavanishanker Gangolli3 intraprese la traduzione del Paramārtha Cintāmaṇi in inglese, al fine di rendere accessibile un’opera così fondamentale anche ai non conoscitori della lingua kannaḍa. Nel 1986 apparve dunque il libro The Magic Jewel of Intuition4. Prudentemente, Gangolli pubblicò il libro a suo nome, come se ne fosse stato l’autore. Egli aggiunse al titolo, non molto felice in quanto evoca la magia che è del tutto fuori luogo in contesto vedāntico, il seguente lungo sottotitolo: “This is a free transaltion of Kannada book “Paramartha Chinthamani” written by Sri Sri Sachidanandendra Saraswathi Swamiji, of Adhyatma Prakasha Karyalaya5. Lo sforzo compiuto da Gangolli con questa traduzione è stato notevole e gliene deve essere riconosciuto il merito. Tuttavia la sua incompleta preparazione dottrinale e il suo inglese zoppicante ne rendono difficoltosa la lettura, ragion per cui, in taluni punti, alcuni concetti rimangono oscuri.

    Al fine di por riparo a questa manchevolezza, Śrī Śrī Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī Mahārāja6 s’è impegnato alla ritraduzione inglese dell’importante trattato del suo predecessore. All’inizio della sua opera di traduzione, Śrī Prakāśānandendra Svāmījī si apprestò ad aggiungere alcune spiegazioni ulteriori, a sopprimere certe ripetizioni, e, soprattutto, a semplificare il linguaggio del testo originale. Prese così l’iniziativa di abbandonare lo stile trattatistico, caratteristico del siddhānta classico, riproponendo il contenuto nella forma dell’upadeśa7; in questo modo, in luogo di una trattazione unicamente dottrinale, il testo è ritornato a essere un insegnamento principalmente metodico, la trasposizione della śruti nella parola quale mezzo di conoscenza (śābda pramāṇa) al fine di indurre i discepoli all’esperienza di śravaṇa8. Avendo così deciso, Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī Mahārāja, pur avendone mantenuta intatta l’architettura di base, ha riscritto da capo a fondo il testo primitivo, producendo così un’opera del tutto originale. Le concezioni più complesse e le difficili dimostrazioni logiche si sono così sciolte in un linguaggio piano, accessibile, di una chiarezza talvolta sconcertante. A tal fine l’Autore ha persino evitato l’uso del linguaggio tecnico in sanscrito, se non nei casi in cui fosse stato strettamente indispensabile. È stata una scelta dei curatori mantenere le ripetizioni e la divisione in brevi paragrafi, importanti per il fine didattico (upadeśaka artha) caratteristico di questo manuale.

    Siamo consapevoli che, in ogni caso, l’elevatezza della materia non potrà essere colta da tutti: la conoscenza, infatti, è comprensibile soltanto alle persone qualificate e mature. Ma anche lo sforzo intellettuale di coloro che, durante la lettura, si trovassero in difficoltà, non resterà senza frutto e potrà essere usato per la purificazione della mente9.

    La Luce della Realtà è sempre rimasto un manoscritto. La vita errabonda di Gurujī è stata d’ostacolo alla sua pubblicazione. È motivo di onore e di privilegio che appaia per la prima volta a stampa in questa edizione in italiano.10

    Maitreyī e Devadatta Kīrtideva Aśvamitra

    Introduzione dell’Autore

    Oṃ Śrī Gurubhyo Namaḥ

    Cos’è l’akarma? “Io sono akartā”, aveva detto Kṛṣṇa (BhG IV.17-18). Finché la mente è in relazione con il mondo esterno si è un individuo. Invece il jñāni è come uno specchio che riflette le cose. Quando il volto che si riflette se ne va, lo specchio non ne trattiene la forma. È come il Testimone (Sākṣin) che, libero dal karma, anche quando compie azione è solo uno specchio, essendo l’azione solo un’apparenza su di lui. Quindi le cose appaiono solo dal punto di vista del mondo. Sembra avere un corpo e agire come tutti. In sé, invece, è come uno specchio e non ha alcuna relazione con il karma. Il karma è l’individualità; in altre parole, è la persona nello stato di veglia o di sogno. Akarma non significa rimanere ozioso senza compiere azione, come volgarmente si crede. Quello è ancora karma11. Se si vede l’illuminato agire, in realtà, lì non c’è karmakarma phala. Il jīva stesso è il karma, è lo stato che comprende tutte le relazioni. Chi capisce che il karma per lui non esiste, nonostante lo stato, l’individualità, l’agire e le relazioni con il mondo, costui trascende l’intero stato, si risveglia dallo stato che per lui non esiste più: questo è akarma. Per l’illuminato, akarma significa lasciare l’individualità, tutto lo stato, scoprendosi Testimone dello stato. Capendo così, la persona che intuisce la sua natura di Testimone (Sākṣibhāva) è il vero akartā. In questo modo è libero dalla volontà: capisce che essa è della mente, mentre il Sākṣin sa di non essere la mente. Il jñāni lascia la mente ed è naturale e spontanea esistenza. Quindi vede scorrere le cose come quando si è sulla riva di un fiume e si guarda l’acqua fluire. È neutrale e spontaneo, non ha nessun coinvolgimento nel movimento: il movimento solo gli appare. È conscio di esso, ma non ne è parte. Così le cose del mondo si muovono e avvengono attorno a lui. Questa non identificazione del Sākṣin è già in noi, non si deve fare nulla per diventarlo. Bisogna solo fare attenzione (nididhyāsana), guardare se stessi, essere in uno stato in cui non si agisce né in positivo né in negativo, che sono soltanto stati della mente. Questa è l’esistenza naturale. Quindi non c’è alcuno sforzo per essere Sākṣin. Non ‘si diventa’ il Sākṣin né facendo né non facendo, perché la Coscienza non ha il senso dell’ego (ahaṃkāra) che è solo un pensiero della mente. Il Sākṣin non ha il senso dell’ego; è come nel sonno profondo, in cui si esiste senza il pensiero dell’ego. Cioè solo “Io” (Ātman) esisto12. La volontà non serve per trascenderlo. Che cos’è allora l’akarma, se fare azione o il non fare azione è caratteristica della volontà? È una scoperta di conoscenza, non un karma. Per tale ragione Śaṃkara afferma che non con il karma, ma soltanto con il jñāna si raggiunge mokṣa. Usare la volontà è un legame, mentre la libertà è uno stato naturale. Rivolgendosi verso l’interno di Sé c’è un nocciolo che è libero dalla volontà, perché la volontà è un cambiamento nella mente e il cambiamento appartiene alla mente, non al Sākṣin. Il Sākṣin è spontaneo ed è la coscienza dell’intero lo stato di veglia preso come un tutt’uno. La parola coscienza ha due aspetti. Una è la coscienza del mondo e dei suoi oggetti; quando si è consci delle cose una a una, quello è uno stato della mente. Ma la coscienza di tutti gli oggetti, compresa la mente, presi come un tutt’uno, quella è la coscienza dell’intero stato. La coscienza dello stato non subisce modificazioni, è lì naturalmente: invece, la mente subisce cambiamenti. Quando si guarda il libro, si ha il pensiero del libro; quando si vede l’albero, si ha il pensiero dell’albero. Il pensiero è mutevole, mentre la coscienza della veglia non cambia. Perciò la buona azione e quella cattiva, fare e non fare, sono tutti all’interno della veglia; sono all’interno dello stato quando gli organi di senso e la mente sono in funzione. Tutti questi, indriya, mente, intelletto, senso dell’‘io’, sono nella coscienza di veglia. La coscienza di veglia non viene né va né rimane inerte. È lì spontaneamente di per se stessa. Noi in generale sovrapponiamo la mente alla coscienza e consideriamo la coscienza come fosse solo la mente. Questa è la mutua sovrapposizione (anyonya adhyāsa). Osservando, si è in grado si vedere. Questa osservazione è l’indagine sul Sé. Lo śāstra indica di osservare attentamente. Per scoprirlo si deve solo prestare attenzione. Soggetto-oggetto, spazio-tempo, conoscitore-conosciuto, sono tutti nella coscienza. Quindi l’intero mondo di veglia, l’intera mente, l’intero stato di veglia appaiono, scompaiono e si dissolvono nella coscienza. E, ancora, la coscienza rimane nel sogno. Poi l’intero mondo del sogno si dissolve e rimani te stesso nel sonno profondo. Il sonno profondo è solo la coscienza di veglia quando il mondo e l’‘io’ è dissolto. Quindi le idee dell’uomo comune sul sonno profondo sono: che è un passato, che è nulla, che è solo oscurità. Questi sono solo errori, sovrapposizioni create dalla mente dal punto di vista della veglia. Il sonno profondo non è un passato, perché è senza tempo. Libero dal tempo significa che è sempre esistente: se è sempre esistente, non può essere passato13. Non è nemmeno un vuoto, perché per definirlo così si richiede una mente che lo immagini in questo modo. La mente del vegliante lo definisce vuoto od oscuro, perché paragona il sonno profondo alla veglia. Quindi lo dichiara diverso dalla veglia. Questa mente non è capace di afferrarlo, perché il sonno profondo è libero dalla mente. La mente non può immaginare la non-mente, il pensiero non può immaginare il non-pensiero, perciò lo definisce vuoto, nero, passato, nulla. Ma la reale esperienza di suṣupti è la scomparsa della mente. Quando la mente della veglia è dissolta nella Coscienza, tutta la coscienza di veglia è inghiottita ed è solo Coscienza, sei tu stesso. Il pramātā della veglia pensa di andare in sonno profondo e da lì ritornare. Questo è un errore, perché né si va né si viene. La persona della veglia rimane nella veglia. Se non c’è stato di veglia, che senso ha dire andare? Infatti la persona della veglia è parte dello stato di veglia. Quando s’inghiotte lo stato di veglia che senso ha chiedersi dov’è il pramātā della veglia? Anch’egli è dissolto assieme alla veglia. È la persona della veglia che pensa di andare in sonno, di dormire per un certo tempo e poi di tornare indietro. Ma come può la persona della veglia lasciare la veglia per andare da una qualche altra parte? Può uscire dalla veglia? È come dire che la persona che sta sperimentando il sogno, lasci il sogno e ne esca. Non è possibile, perché quando il sogno non c’è, anch’essa scompare. La persona del sogno non può esistere al di fuori del suo stato di sogno. Rimane solo come Sākṣin del sogno. Come lo schermo quando finisce la proiezione. È la coscienza di sogno, che è il testimone del sogno, a essere sempre cosciente dell’intero sogno. Ma quando mai la persona del sogno si risveglia? La persona del sogno rimane lì, nel sogno. La coscienza dell’intero stato di sogno rimane incontaminata dall’individuo del sogno. Inghiotte l’individuo del sogno assieme al mondo del sogno e allo stato del sogno. Stato, mondo e individuo, tutti tre sono inghiottiti e rimane solo la coscienza del sogno. Essa rimane come è. «Io mi sveglio». Ma chi si sveglia? La persona del sogno va via, scompare con il sogno. Svegliarsi vuol dire che tutta la coscienza del sogno rimane non toccata dalla persona del sogno e che tutto è inghiottito, il mondo, la persona e lo stato del sogno: rimane solo la coscienza del sogno, che ‘è’, che esiste. È Quello, che si sveglia. L’individuo che pensa di essersi svegliato, non è mai stato dentro al sogno. L’intera coscienza della veglia pervade l’intero stato. Questa intera coscienza non è una parte, non è collocata in un certo luogo della veglia. La coscienza della veglia esiste nello stato della veglia? Questa è una buona domanda. Questa intera coscienza è localizzata in un certo punto? Se noi dicessimo così, sarebbe legata, limitata da tempo, spazio, corpo ecc. La coscienza di veglia non è legata in questo modo. È il soggetto (pramātā) della veglia che è parte della veglia, che è in relazione con un oggetto alla volta e che vede gli oggetti al suo stesso livello. Così fa anche la persona del sogno quando vede gli oggetti del sogno. Ma quando ci si sveglia e si ricorda il sogno, la coscienza di veglia che “ricorda” non pensa che il sogno sia al suo stesso livello, poiché allora la coscienza (che in realtà non “ricorda”), essendone uscita, è consapevole che l’intero stato di sogno era irreale. Quando c’è la relazione tra bhoktā-bhogya (fruitore-fruito), kartā-kārya (agente-agito), jñātā-jñeya (conoscitore-conosciuto), allora si è allo stesso livello. Ma, mentre si è in veglia si pensa di essere a un livello completamente diverso da quello del sogno. Finché la persona della veglia pensa di andare a dormire, è sempre in veglia, ma quando dorme davvero, non c’è più veglia. Nel sonno profondo non c’è affatto veglia, perché tutto lo stato di veglia è stato inghiottito assieme alla persona della veglia. Perciò lì non c’è più la divisione tra mondo della veglia e persona della veglia, non c’è più la linea divisoria tra oggetto e soggetto. Tutto il mondo sei Tu. Tutto il mondo può essere ridotto a un pensiero. Quando si è svegli si sperimenta tutto come ‘questo’ (idam); tutto il mondo è sperimentato come ‘questo’. È un pensiero generale dell’intero mondo. In esso c’è l’ego e il resto degli oggetti mondani. Quindi tutto il mondo è ridotto a due. C’è solo un pensiero di ‘io’ e il resto. C’è dunque solo questa esperienza di dualità di soggetto-oggetto. Quando si toglie questa linea divisoria tra soggetto e oggetto, si dorme. Il sonno è un’esperienza di coscienza in cui non ci sono soggetto e oggetto. Nella veglia c’è il pensiero di io e di questo (idam), l’oggetto che vedo. L’‘io vedo questo’ è una relazione tra io e ‘questo’. Questa relazione è il vedere. Ma nel sonno profondo non c’è l’ego, non c’è il pensiero dell’io né di ‘questo’, perché entrambi si immergono in ‘uno’. C’è semplicemente Coscienza. Quindi, nel sonno profondo non c’è divisione, separazione, molteplicità, che invece è sovrapposizione senza inizio (anādi adhyāsa). Non si può dire quando l’adhyāsa inizi, perché l’inizio è nel tempo, cioè è un pensiero; e se non c’è pensiero non c’è nemmeno divisione. Si può solo dire che ci si ritrova come Coscienza. “Quindi, l’individuo che capisce che l’individualità è immaginata in lui, capisce di essere non agente (akartā).” (BhGŚBh IV-18) Questo è il vero akarma. Compiere azione e non compiere azione è sempre azione. Finché pensi di essere parte dello stato tu sei un kartā, cioè un individuo. “Il vero akarma è capire che tutto lo stato è immaginato in me. Dal mio punto di vista io non lo vedo, io non sono un individuo.” (ibid.) La coscienza e la mente non sono due cose. Quando la coscienza è in relazione con qualcosa, la chiami mente, cioè una coscienza relativa (es: io vedo qualcosa). Quando la relazione è rimossa, la Coscienza senza relazione è il Sākṣin. Quella con relazione è nello stato, è il jīva. Non si deve pensare che la mente sia una entità, una sostanza fisica; è solo la Coscienza considerata in relazione. È un pensiero. Il pensiero non è una cosa fissa, come il tavolo o il libro, è una coscienza relazionata. Ma il Sākṣin non vede ‘altro’ da Sé, perché il soggetto vede l’oggetto, ma se il soggetto non c’è, non c’è più l’oggetto. Nella vera Coscienza non c’è più né ‘io’ né oggetto, e allora lì si è liberi da karma.

    Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī

    Oṃ śānti śānti śāntiḥ

    1. Svāmījī nel 1966 ha riveduto e ampliato la seconda edizione del libro.[]
    2. I cristallini riferimenti alle fonti da cui si attinge è la garanzia della trasmissione ricevuta. Anche la trasparenza sulla propria paramparā è una precisa attestazione di legittimità d’insegnamento, indispensabile per garantire l’aspirante discepolo sulla veridicità e correttezza di quanto gli sarà trasmesso assieme e a seguito dell’iniziazione. Così si comportano e si comportarono gli autentici guru: lo stesso Śaṃkara non fece mai mistero in proposito: non si richiamò all’autorità di misteriosi maestri o di fantomatici superiori sconosciuti né mai affermò di non essere tenuto a svelare le sue fonti. Il velo di segretezza sulle fonti e sul contenuto d’insegnamento orali, scritturali e sulla loro trasmissione è, invece, caratteristica degli ambienti occultisti, teosofisti e New Age sorti in Occidente negli ultimi tre secoli, nonché dei “guru in Rolls Royce” e delle sette falsamente tradizionali.[]
    3. D. B. Gangolli, è stato un discepolo di Svāmī Anandāśrama Mahārāja del Citrapur Sarasvat Brāhmaṇa, dal quale fu iniziato al karmayoga. Nel 1970 incontrò Svāmī Satcidānandendra Mahārāja, di cui diventò discepolo. Tradusse in inglese una ventina delle opere di questo maestro.[]
    4. The Magic Jewel of Intuition. The Tri-Basic Method of Cognizing the Self, Holenarasipura, Adhyātma Prakāśa Karyālāya, 1986.[]
    5. “Questa è una libera traduzione del libro in kannaḍa “Paramartha Chinthamani” scritto da Sri Sri Sachidanandendra Saraswathi Swamiji, del Adhyatma Prakasha Karyalaya”.[]
    6. Pūjya Prakāśānandendra Sarasvatī Svāmījī è un paramahaṃsa saṃnyāsin, un rinunciante parivrājaka (errante), Gurujī è il successore di Svāmī Satcidānandendra Mahārājajī al Śaṃkara Vedānta Pītham e suo rappresentante presso la fondazione Adhyātma Prakāśa Kāryālaya.[]
    7. L’insegnamento orale diretto tra maestro e discepolo.[]
    8. L’‘ascolto’, tecnica di contemplazione in uso nel metodo del jñāna yoga.[]
    9. Siamo altresì consapevoli che altri, che si ritengono sapienti di letture libresche e perfino iniziati, sclerotizzati nelle diverse prospettive della conoscenza non suprema, rifiuteranno aprioristicamente di capire. Come dice Śaṃkara, costoro appartengono alla categoria di coloro che non riconoscerebbero la verità nemmeno se la si porgesse loro “come una mela cotogna sul palmo della mano” (Upadeśa Sāhasrī, XVIII.182). Caso esemplare: recentemente dei cattolici convertiti all’islam, con pretese pseudo sufiche, hanno voluto insegnarci un loro ‘vero Vedānta’ islamizzato, criticando, con l’arroganza tipica, Jagadguru, ācārya e sādhaka advaitin contemporanei, correggendo Gauḍapāda, Śaṃkara, Sūreśvara e persino deformando le Upaniṣad con interpretazioni sincretiste a base creazionistica e ritualistica. Senza il minimo senso del pudore, hanno sostenuto nelle loro riviste cartacee e nei loro blog, come “vera tradizione advaita” le dottrine deviate della mūlāvidyā e del satkāryavāda, perché confacenti al loro limitato punto di vista dualista, in netta contrapposizione all’Adhyāsa Bhāṣya e alla vivartavāda śaṃkariane. L’improntitudine degli ignoranti non conosce davvero né limite né senso del grottesco! Naturalmente chi non è ottuso saprà facilmente fare discriminazione tra ciò che è vero e ciò che non lo è (satasat viveka).[]
    10. Questo trattato è già stato pubblicato in formato cartaceo con il medesimo titolo, per i tipi di Ekatos Ed. Pr, Milano, 2020.[]
    11. Se il guardiano vede un ladro entrare in una casa per la finestra e non interviene, egli non è un akartā. Ha semplicemente deciso di rimanere ozioso. La sua decisione è comunque una azione mentale intesa a ottenere un risultato: quello di evitare il pericolo. [N.d.CC.] []
    12. Chi non ha una visione metafisica commette l’errore di confondere l’ego individuale con l’Ātman. A causa di questa sovrapposizione dovuta alla sua ignoranza, può confondere la dottrina del Brahmātman per un banale solipsismo. Se in India c’è stata una teoria simile al solipsismo, essa fu il vijñānavāda buddhista, severamente criticato dall’Advaitavāda. [N.d.CC.] []
    13. L’ignorante, quando si sveglia dal sonno profondo, è convinto che ‘prima’, ‘mentre dormiva’, si trovava in suṣupti, mentre ora è in veglia. Ma il sonno profondo è fuori di ogni relazione temporale; in sonno profondo non si sperimenta né ‘prima’ né ‘dopo’, perché lì non c’è tempo. [N.d.CC.] []

    13. La Bhāvana Upaniṣad

      La Bhāvana Upaniṣad

      Testo e Commento

      14. Questa corrente vitale (o vento), condotta dal prāṇa, diviene il quintuplice fuoco gastrico, che si differenzia nei fattori condizionanti: uno preposto all’escrezione, l’altro alla digestione, uno spinge in alto il disordine (doṣa) del fuoco gastrico, un altro brucia e, infine, uno inonda.

      Il sesto recinto: la protezione totale (sarva rakṣākara).
      La corrente vitale, guidata da nāga1, diventa cinque fuochi nel corpo dell’essere umano, cioè quello che secerne la bile, quello che espelle, quello che ‘cuoce’ (pac) il cibo, quello che emulsiona, quello che scioglie e, in questo modo, aiuta a digerire i cinque tipi di cibo: ciò che è inghiottito senza masticare, ciò che è masticato, ciò che è succhiato, ciò che è leccato e ciò che è bevuto. Questi sono i dieci aspetti del fuoco vitale corrispondenti alle divinità della figura di dieci angoli, Sarvajñā, ecc.

      Il sesto recinto è racchiuso in quello precedente ed è simile a quello nella forma di una figura con dieci angoli. Per distinguerlo dal quinto recinto, è chiamato antardaśāra, ‘figura interna di dieci angoli’. I dieci triangoli da cui è formato rappresentano le dieci potenze della Devī: Sarvajñā (colei che tutto conosce) nell’angolo ad est e le altre negli ulteriori nove angoli disposti in senso antiorario. Le potenze simboleggiano i dieci aspetti della digestione. I triangoli hanno inscritte le lettere che iniziano con ma e che finiscono con la e kṣa, completando, in tal modo, la serie delle consonanti.

      Il Tantrarāja Tantra (35, 1) menziona semplicemente i ‘fuochi’ (vahnayaḥ), in numero di dieci, rappresentati dalle potenze, come Sarvajñā e le altre; a questo riguardo, il commento spiega che i dieci fuochi si riferiscono ai fuochi che animano i sette costituenti del corpo, vale a dire il chilo, il sangue, i muscoli, il grasso, le ossa, il midollo e il seme. Sono detti dhātvagni, fuochi patroni del sacrificio, con il quale si intende il metabolismo di cui sono i responsabili. Essi agiscono combinati con i fuochi nei tre doṣa, l’aria (vāta), la bile (pitta) e la flemma (kapha). Il testo upaniṣadico, invece, precisa che i fuochi si riferiscono ai dieci aspetti della digestione, e che sono pertinenti alle già elencate dieci forme della corrente vitale. Bhāskararāya annota che questa affermazione dell’Upaniṣad è più autorevole di quella che si trova nel Tantrarāja Tantra.

      In ogni caso, la funzione chiamata recaka, escrezione, scarta ed espelle i rifiuti (kiṭṭa) dopo che sāra, la selezione, li ha separati della parte nutriente del cibo. La funzione detta pācaka, cottura, è il reale processo della digestione; śoṣaka è l’assorbimento della parte liquida di cibo digerito che favorisce l’azione del fuoco gastrico; dāhaka è la combustione nel senso di azione metabolica; plāvaka è la liquefazione del cibo per mezzo del chilo per aiutare la combustione del fuoco gastrico. Kṣāraka è l’erogazione della bile; udgrāhaka è l’eruttazione dell’aria che può interferire con una corretta digestione; kṣobhaka, la peristalsi, agita appropriatamente il cibo nella cavità dello stomaco; e mohaka assimila il cibo al corpo. Secondo la medicina indiana, queste funzioni fisiologiche hanno solo un’attinenza lontana con il processo della digestione. Le corrispondenze tra i dieci ‘venti’ del precedente recinto e i dieci ‘fuochi’ di questo non sono del tutto sovrapponibili. In questo recinto le divinità, corrispondenti ai già citati ‘fuochi’, sono:

      1. Sarvajñā (la Dea che conosce tutto), identificata alla consonante ma;
      2. Sarvaśakti pradā (colei che concede ogni energia), corrispondente alla ya;
      3. Sarvaiśvarya pradā (colei che concede ogni signoria), la ra;
      4. Sarvajñāna mayī (colei che è composta di onniscienza) è rappresentata dalla la;
      5. Sarvavyādhi nāśinī (colei che distrugge tutte le malattie) è la va;
      1. Sarvādhārā (colei che regge tutto) corrisponde alla śa;
      2. Sarvapāpa harā (colei che rimuove ogni colpa) è identificata alla ṣa;
      3. Sarvānandamayī (colei che è ricolma di ogni felicità), è la sa;
      4. Sarvarakṣā svarūpiṇī (colei la cui natura è la protezione di tutto) è simboleggiata dalla ha;
      5. Sarvepsita pradā (colei che esaudisce tutti i desideri) corrisponde insieme alla ḷa e alla kṣa.

      Il senso di questo recinto è quello di preservare da tutti gli impedimenti. L’iniziato allontana se stesso da tutto ciò che lo ostacola nel suo avanzamento spirituale, vale a dire dai numerosi fenomeni, composti di trentasei tattva, allorché si presentano. In questo modo egli sviluppa la consapevolezza di essere Śiva, la suprema Divinità e pura Coscienza.

      15. Caldo, freddo, felicità, infelicità, volizioni, la luce della conoscenza (sattva), il potere di azione (rajas) e la tendenza all’inerzia e all’abbandono (tamas) sono gli otto ‘poteri’, Vaśinī, ecc.

      Il settimo recinto: la cura da tutte le malattie (sarvarogaharā).
      È chiamato ‘quello che cancella tutte le malattie’ e ha la forma di otto figure angolate (aṣṭāra). Negli otto triangoli che formano questa figura sono collocate otto divinità a partire da Vaśinī (che controlla l’amante) a est, in senso antiorario. Tali otto divinità tradizionalmente sono dette ‘le dee che presiedono ogni parola’ (Vāgdevatā). Sono così chiamate perché pur essendo otto, raccolgono un vastissimo concorso di potenze al fine di comporre i mille nomi segreti della Dea Madre (Lalitā sahasra nāma).

      Esse esauriscono tutte le lettere dell’alfabeto.

      1. Vaśinī rappresenta le sedici vocali dalla a alla aḥ;
      2. Kāmeśī, colei che controlla i desideri, rappresenta le cinque consonanti del gruppo ka;
      3. Mohinī, che provoca l’illusione, rappresenta le cinque consonanti del gruppo ca;
      4. Vimalāi, la purificatrice, è associata alle cinque consonanti del gruppo ṭa;
      1. Aruṇāi, che ha il colore dell’aurora, è associata con le cinque consonanti del gruppo ta;
      2. Jayinī, la vittoriosa, rappresenta le cinque consonanti del gruppo pa;
      3. Sarveśī, che ha signoria su tutto, rappresenta le cinque consonanti del gruppo ya, ra, la e va;
      4. Kaulinī, che controlla la famiglia iniziatica (kula) rappresenta le restanti consonanti śa, ṣa, sa, ha, la e kṣa assieme.

      Le otto potenze sono fatte corrispondere agli otto fattori sopra elencati. Freddo e caldo, felicità e infelicità sono coppie di opposti conosciuti (dvandva) che assediano gli esseri umani e li spingono nella palude della trasmigrazione. Con desiderio s’intende l’intera moltitudine di bisogni imperiosi, di appetiti, di inclinazioni e di aspirazioni. Cinque rappresentano i cinque elementi (mahābhūta): freddo-acqua; caldo-fuoco; felicità-aria; infelicità o durezza-terra; e intenzioni-ākāśa.

      A questo gruppo di elementi (bhūta grāma) si aggiungono i tre fondamentali componenti della natura: sattva, l’energia o la pacificazione, rajas, l’attività o la fatica, e tamas, l’incoscienza o ignoranza). Questi corrispondono all’ottuplice natura (aṣṭadhā prakṛti), vale a dire i cinque elementi, coscienza (sattva), ego (rajas) e mente (tamas).

      I cinque bhūta in ognuno dei tre guṇa oppure ognuno dei cinque bhūta nei tre guṇa costituiscono il gruppo delle quindici potenze permanenti della Devī, le nityā.

      Qui le yoginī, quali la Vaśinī e le altre, sono viste come segrete (rahasya) perché sono in relazione con l’ottuplice corpo (puryaṣṭaka) o corpo sottile, che è l’effetto dei cinque elementi e causa di ogni azione dei guṇa nel corpo grossolano. Esse sono segrete nel senso che non possono essere percepite o identificate immediatamente. L’efficacia del recinto sta nel suo potere di cancellare la malattia fondamentale, cioè il coinvolgimento nel mondo, fonte d’impurità, di agitazione e dell’oppressione causata dalla sofferenza (antiyāśucikleśa saṃsāra roga). Questo potere è dato dall’annullamento della distinzione tra soggetto e oggetto e della loro mutua relazione.

      Si ritiene che le otto yoginī corrispondano agli otto costituenti del corpo: i sette dhātu conosciuti nella medicina indiana e l’ottavo come loro aggregato (samaṣṭī), e i corrispondenti otto gruppi di lettere, ossia le vocali e le consonanti raggruppate in gutturali, ka ecc., palatali, ca ecc., cerebrali, ṭa ecc., dentali, ta ecc., labiali, pa ecc., semiconsonanti, ya ecc., sibilanti, śa ecc. Questo è chiamato cakra di a, ka, ca, ṭa, ta, pa, sa. Sono anche identificate con le otto categorie di yoginī che presiedono i centri sottili nel corpo, cioè le ḍākinī, le rākinī, le lākinī, le kākinī, le sākinī, le hākinī, le yākini e, come ottava categoria, il loro insieme. Queste sono le divinità attendenti (parivāra devatā) della Devī. Nei rituali sono invocate sulla testa, sulla fronte, tra le sopracciglia, sulla gola, sul cuore sull’ombelico, sotto l’ombelico, e rispettivamente su ogni parte del corpo. Sono rappresentate dalle loro sillabe-seme: rblūṃ, klhrīṃ, nvlīṃ, ylūṃ, jmrīṃ, hslvyūṃ, jhmryūṃ e kshmrīṃ.

      Tra il settimo recinto e l’ottavo c’è uno spazio in cui:

      16. I cinque tanmātra2 sono le cinque frecce fiorite; la mente è l’arco di canna da zucchero; l’inclinazione [al desiderio] è il cappio e l’avversione [all’attrazione] è il pungolo [per elefanti].

      I simboli usati in questo śloka si riferiscono alle armi che sono tradizionalmente associate alla Devī nella sua forma iconica di Lalitā o Rājarājeśvarī. Non formano propriamente un recinto, ma sono poste nella parte di spazio che sta all’interno del settimo recinto e all’esterno dell’ottavo (aṣṭakoṇā madhye). Queste armi sono le insegne caratteristiche del dio dell’amore, Kāmadeva o Manmatha, che è strettamente associato alla pratica meditativa di Śrī Vidhyā. In questo spazio sono inscritte le note sillabe seminali klīṃ, blūṃ e strīṃ. Si dice che queste sillabe costituiscono i cinque mantra del ‘nato dalla mente’. L’origine della passione amorosa di Brahmā, il creatore, è stata descritta nel dialogo tra Mārkaṇḍeya e altri saggi nel capitolo Kāma utpatti (l’origine di Kāma) del Kālikā Purāṇa. Kāma emerse direttamente dall’espandersi della mente di Brahmā3, e manifestò se stesso come uno Yogin, armato di frecce fatte di cinque tipi di fiori4, e di un arco fatto di canna da zucchero. Egli chiese a suo padre quale fosse la sua funzione, e gli fu risposto che, con le frecce fiorite, avrebbe affascinato uomini e donne e, quindi, avrebbe dato origine al mondo della relazione. Egli assicurò che nessuno nel mondo, dei o uomini, avrebbe saputo resistere al suo fascino. Gli fu chiesto di penetrare nei cuori di ogni essere umano, colpendone la mente con le frecce fiorite. Fu chiamato Manmatha, perché tormenta le menti dei mortali (mano mathnāti vikaroti); egli è Kāma, perché può assumere, a suo piacere, una molteplicità di forme (kāma rūpatvāt).

      Le armi della Devī sono localizzate nell’intervallo tra il settimo e l’ottavo recinto, sotto la forma dei suoi bīja mantra. Sono anche iconograficamente rappresentate in forma di Dee, rosse d’aspetto, che sollevano con quattro braccia le loro armi sopra la testa, mentre delle altre due mani, una, con le dita rivolte in alto, mostra la palma in segno di rassicurazione (abhaya mudrā5); l’altra mano mostra la palma con le dita verso il basso, in segno di concessione e di esaudimento delle preghiere (varada mudrā). Le cinque frecce floreali, l’arco di canna, il cappio e il pungolo sono anche le armi della Devī in quanto Kāmeśvarī (Signora del desiderio) e di Śiva in quanto Kāmeśvara.

      Di regola le quattro armi debbono essere disegnate nello spazio esterno all’ottavo recinto, nelle direzioni nord, sud, est, ovest rispetto al triangolo centrale. Ma, nella pratica, è più comune rappresentare l’arco e le frecce al di là del triangolo che sta davanti all’iniziato seduto in meditazione, il cappio alla sua sinistra, e il pungolo a destra. Tale pratica è derivata dall’unione della ‘potenza d’azione’ (kriyā śakti) della Devī con l’arco e le frecce (bāṇa dhanuṣī), della ‘potenza della volontà’ (icchā śakti) con il cappio (pāśa) e della ‘potenza della conoscenza’ (jñāna śakti) con il pungolo (aṅkuśa). Il simbolismo delle armi non si trova soltanto nel testo upaniṣadico, ma anche in altri, tra cui il Lalitā Sahasranāma. Si afferma che queste armi abbiano tre forme: quella grossolana (sthūla), quella sottile (sūkṣma) e quella superiore (para). Le frecce, nella forma grossolana, sono rappresentate, come s’è detto, dai fiori di loto bianco, del loto rosso scuro, del giglio d’acqua lilla, dal loto blu e dal grappolo di fiorellini del mango. Nella loro forma sottile sono fatti di mantra e nella forma superiore dai tanmātra. I tanmātra (tat evārthe mātram) sono gli elementi sottili derivati dalla materia non manifestata (avyākṛta prakṛti) come modificazioni primordiali che precedono la fase di sviluppo grossolano e che perciò non sono coinvolti nella relazione dei fenomeni corporei. Tra essi si manifestano in successione: il suono (śabda) corrisponde ad ākāśa, che è il primo bhūta a manifestarsi. Il secondo è il tatto (sparśa), corrispondente all’aria (vāyu); il terzo, il fuoco (tejas), corrisponde alla vista, ossia alla percezione di colore e forma (rūpa); il quarto è l’acqua (ap), corrispondente al gusto (rasa); e, infine, l’odorato (gandha) che corrisponde alla terra (pṛthivī). I tanmātra, combinandosi tra loro, formano il corpo sottile (sūkṣma śarīra) e producono a livello grossolano, i cinque elementi (mahābhūta). I cinque tanmātra corrispondono, dunque, ai cinque fiori già descritti, che affascinano la mente (cittārkarṣakam), e che sono immaginati come i dardi usati da Kāma per scuotere emotivamente i cuori umani. Le emozioni che scatenano sono: l’ammutolire (śoṣaṇa), la fascinazione (mohana), l’eccitazione (sandīpana), l’infuocarsi d’amore (tapana), e la pazzia o perdita di controllo (mādana).

      La freccia è ovviamente correlata all’arco che nella sua forma grossa è fatto di una canna da zucchero, nella sua forma sottile dai mantra e nella forma superiore dalla mente (manas). La freccia e l’arco stanno sempre associati. È per questo che, come l’arco scaglia la freccia, la mente (manas tattva) permette agli organi di senso di percepire i cinque tanmātra: l’orecchio, quindi, percepisce il suono, la pelle il tatto, l’occhio la forma-colore, la lingua il gusto e il naso l’odorato. Le frecce sono sottili e leggere quando le teniamo in mano, ma, alla fine, quando penetrano e feriscono il bersaglio, dimostrano la loro terribile acutezza; ugualmente gli oggetti dell’esperienza sono piacevoli all’inizio, ma, spesso, si trasformano in infelicità. L’arco è rigido e immutabile, proprio come la mente che rimane la stessa, nonostante la varietà di esperienze sensorie. Il cappio (pāśa) è dorato nella sua forma grossa, della natura del mantra nella sua forma sottile e della natura dell’attaccamento (rāga) nella sua forma sottile. I desideri legano, proprio come fa il cappio. Altri nomi che designano rāga (attaccamento) sono āśā (desiderio), tṛṣṇā (avidità, bramosia), icchā (intenzione), ecc. Esso rappresenta ‘il potere dell’intenzione’ (icchā śakti), non il semplice desiderio, ma il desiderio caratterizzato dai trentasei principi della realtà fenomenica.

      Il pungolo (aṅkuśa) nella sua forma grossa è d’oro; un mantra è la sua forma sottile, e la repulsione (dveṣa) è la sua forma superiore. Il pungolo, frequentemente usato per spronare gli elefanti, rappresenta il controllo della mente dall’effetto attrattivo degli oggetti dei sensi. È, quindi, simbolo della potenza della conoscenza (jñāña śakti) della Devī, che diventa anche il potere dello stesso devoto. La Conoscenza consiste nell’allontanamento della mente dagli oggetti dei sensi, ossia lo spirito della rinuncia (viṣaya vairāgya). Il senso della repulsione od ostilità (dveṣa) è così evidenziato in queste brevi linee. Oggetti di esperienza, mente, attrazione e repulsione sono tutte modificazioni della mente (mano vṛttayaḥ). Sono infatti le potenze che pervadono l’intero Śrī Cakra, dal quadrato esterno fino al triangolo interno; sono le śakti che evocano e mantengono tutta la relazione fenomenica. Nella stessa area d’intervallo tra il settimo e l’ottavo recinto, al di sopra del triangolo con il vertice in basso, sono rappresentate le tre tradizioni ininterrotte (ogha o paramparā) dei guru divini, realizzati e umani.

      17. L’immanifesto, la coscienza individualizzata e l’ego sono le tre divinità che costituiscono il triangolo interno, Kāmeśvarī, Vajreśvarī e Bhagamālinī.

      L’ottavo recinto: il dono di tutti i poteri (sarvasiddhi pradā).
      Noto come ‘quello che concede di raggiungere tutti gli obiettivi’, ha la forma di un triangolo con il vertice in basso, al centro dell’intero disegno. È il risultato di nove triangoli, quattro maschili a vertice in alto e cinque femminili a vertice in basso, che si intersecano tra loro. È considerato il triangolo fondamentale (mūla trikoṇa) ed è la vera forma della Devī; tutte le altre parti dello yantra sono soltanto la sua estensione. Ognuno dei suoi tre angoli è associato con molte triadi tantriche, fra le quali quella di fondamento è la triplice forma della Dea: Kāmeśvarī, che comanda su tutti i desideri, Vajreśvarī, che è inattaccabile come il diamante e Bhagamālinī, che indossa la ghirlanda dei poteri mondani.

      Il triangolo è considerato come puro sattva, la luce della coscienza allo stato primigenio, libero, incondizionato e non manifestato, e perciò è tradizionalmente di colore bianco. Esso simboleggia la forma iconica più semplice della Devī come manifestazione congiunta delle tre potenze di volizione, conoscenza e azione, celate in ogni particolare fenomenico, nonché i tre guṇa, sattva, rajas e tamas, responsabili di ogni cambiamento. I tre vertici simboleggiano le tre componenti (tri khaṇḍa) di ogni esistenza: Fuoco (Agni), Sole (Sūrya) e Luna (Candra); e, di conseguenza, le tre dimensioni dell’individualità: il sé del corpo (bhūtātmā), il sé sottile interiore (antarātman) e il Sé supremo (Paramātman). Il triangolo indica anche le tre fasi dell’esistenza fenomenica: manifestazione (sṛṣṭi), conservazione (sthiti) e distruzione (saṃhāra).

      I tre vertici dei triangoli sono importanti supporti per la meditazione tantrica in quanto concedono al discepolo tutti gli obiettivi spirituali (siddhi). Tali supporti, che s’identificano con ognuno dei tre angoli, sono:

      1. Kāmeśvarī, il vertice posto a est, rappresenta il principio del Fuoco (Agni), il processo di manifestazione (sṛṣṭi), l’emanazione (vamā), il sé incorporato nell’essere individuale (bhūtātmā) e la sede tantrica di Kāmarūpa6;
      2. Vajreśvarī, a sud, rappresenta il principio del Sole (Sūrya), il processo di conservazione (sthiti), lo sviluppo del divenire (jyeṣṭhā), il sé sottile interno (antarātman) all’essere individuale; e la sede tantrica di Pūrṇāgiri7;
      3. Bhagamālinī o Bhagaśālinī (potere femminile), a ovest8, rappresenta il principio della Luna (Candra), la dissoluzione del mondo fenomenico (saṃhāra), l’aspetto distruttivo (raudrī), il Sé supremo (Paramātman) nell’essere individuale e il seggio tantrico Jālaṃdhara9.

      Nell’angolo al vertice che è sito a ovest (a nord, in alcuni testi), sta la Devī Mahātripura Sundarī, che rappresenta il principio dell’Assoluto (il Brahman), il processo di indescrivibilità (anākhyā), la dimensione della pacificazione totale (śāntā), il Sé come pura coscienza (jñānātman) nell’essere individuale, e lo śakti pīṭham dell’Uḍḍiyāṇa (o Oḍyāṇa)10. È considerata come la scienza primigenia di base (mūla vidyā).

      Ognuna delle tre linee che uniscono tra loro i vertici è dimora di cinque divinità attendenti, le quindici nityā corrispondenti alle quindici fasi della luna. C’è da ricordarsi che la Devī è identificata alla Luna e che Śrī Vidyā è identica alla conoscenza delle fasi lunari (candrakalā jñāna). Lungo la linea prospicente il nord stanno le nityā Kāmeśvarī, Bhagamālinī, Niyaklinnā, Bheruṇḍā e Vahnivāsinī. Kāmeśvarī come fase lunare (tithi nityā) è differente dalla forma della Devī posta all’angolo est, come anche dalla Devī stessa dimorante nel punto centrale (bindu), che è in unione con Kāmeśvara. Similmente, Bhagamālinī, come fase lunare, è diversa dalla sua omonima forma della Devī posta all’angolo nord. Lungo la linea rivolta a ovest ci sono le nityā: Nīlapatākā, Sarvamaṅgalā, Jvālāmālinī e Vicitrā. Lungo la linea che dà verso sud vi sono Mahāvidyeśvarī, Śivadūtī, Tvaritā, Kulasundarī, e Nityā. Tutte queste sono chiamate ‘divinità del recinto’ (āvaraṇa devatā).

      Il simbolismo delle tre forme della Devī, che è l’argomento di questo testo, è che Kāmeśvarī rappresenta la natura primordiale non manifestata (avyakta o prakṛti), Vajreśvarī la coscienza condizionata (mahat o buddhi) e Bhagamālinī l’ego individuale (ahaṃkāra). Tali tre aspetti sono considerati differenti dimensioni della volizione (vimarśā), proprio come l’indifferenziata e originaria coscienza (cit) è la dimensione della luce (prakāśa): coscienza e luce significano rispettivamente Śakti e Śiva. La coscienza soggettiva e differenziata è determinata quando percepisce l’oggetto, come il fuoco che ha incominciato a bruciare un pezzo di legno. Ma la coscienza originaria e indifferenziata è quando non si effettua alcuna percezione, paragonabile al fuoco latente nel legno.

      18. La pura e indifferenziata coscienza è realmente Kāmeśvara; il Sé di ognuno, completo di costante beatitudine, è invero la suprema Devī luminosa, Lalitā; e il suo ardente rosso è la volontà.

      Il nono recinto: composto di totale beatitudine (sarva ānandamaya).
      Questo non è propriamente un recinto, poiché in realtà è il punto identico alla Devī. È il punto centrale dello Śrī Cakra su cui gli altri recinti sono incentrati. Tecnicamente è chiamato bindu o anche bindu cakra, punto centrale. Esso non è realmente parte della struttura dello Śrī Cakra. Non è stabilito in base all’intersezione delle figure triangolari maschili e femminili, come sono formati gli altri recinti che vanno dal quarto all’ottavo. Al contrario, è distinto da tutte le linee e vertici che compongono lo Śrī Cakra. Recinto vuol dire un’area delimitata. Invece questo punto è chiamato metaforicamente ‘recinto’, nel senso che i tre punti, che rappresentano Fuoco, Sole e Luna, qui si fondono in un unicum indistinto. Talvolta questi tre punti sono rappresentati posti uno sopra e due in basso, a simboleggiare un volto e due seni, chiamati anusvāra e visarga11: il primo è simbolo dell’unità non duale e gli altri due rappresentano la dualità fenomenica. I tre punti formano un triangolo con il vertice in alto.

      È anche la forma in cui si uniscono nella Mahā Tripurasundarī, Kāmeśvara, simbolo di Śiva, pura e indifferenziata Coscienza al di là dei condizionamenti fenomenici, e Kāmeśvarī, la sua energia, Śakti, da lui appena differenziata, che dispiega la molteplicità della manifestazione. Il punto centrale, perciò, rappresenta la vera natura di Kāmarāja.

      La Coscienza senza nessuna determinazione e assolutamente priva di qualsivoglia coinvolgimento fenomenico (desiderio, conoscenza e azione) è estremamente sottile, e non può, quindi, essere conosciuta, descritta o meditata in alcun modo. Essa non ha nome né localizzazione né emozioni né azione. È semplicemente Śiva, esistente ma inattivo. Però egli è la base da cui l’intero universo si dispiega, su cui è sostenuto ed in cui è dissolto. L’unione di Śakti con Śiva, allo scopo di manifestare l’universo, di preservarlo e di distruggerlo, è iconicamente descritta come la dea Kāmeśvarī seduta sul grembo del dio Kāmeśvara o Kāmarāja. Lo stesso principio è graficamente rappresentato dal triangolo nel mezzo del quale sta il punto (bindu): il triangolo rappresenta l’energia femminile e il punto la Coscienza maschile.

      La Dea che risplende, responsabile della manifestazione fenomenica, è chiamata Lalitā, perché ‘brilla sul mondo’ (lokān atītya lalate). I suoi raggi sono il mondo, rappresentato dai poteri negli otto recinti; ed Ella risplende nel punto centrale, che è il nono recinto da cui gli altri sono emanati e nel quale essi sono riassorbiti. È la grande Dea Tripurasundarī, seduta sul seggio dell’Uḍḍiyāṇa Pīṭham, circondata dalle tre forme di se stessa, Kāmeśvarī, Vajreśvarī e Bhagamālinī, accomodate rispettivamente in Kāmarūpa, Pūrṇāgiri e Jālaṃdhara Pīṭham, che costituiscono il primo triangolo.

      La Dea non è altro che il Sé del devoto che, grazie ai suoi infiniti poteri di proiezione, assume la forma dell’intero contesto fenomenico, pur rimanendo immutata malgrado il suo coinvolgimento fenomenico; e sempre risplende di Puro Essere. Il Sé qui menzionato deve essere distinto dal sé individuale, quel jīva impegnato nel tenere assieme il corpo, gli organi di senso e la mente. Quest’ultima è un aspetto di coscienza individualizzata (buddhi) nel suo stato di non discriminazione tra il Sé e il corpo ecc. (Ātmananātma aviveka). Quando, tuttavia, questo aspetto è colpito dalla coscienza (cit), esso riflette sulla propria natura essenziale e realizza l’illusorietà del corpo fisico ecc., e resta sempre stabilmente nella propria natura come il fuoco nel pezzo di legno quando non brucia.

      Il Sé è descritto come ‘completo di eterna beatitudine’ (sadānanda pūṛna). Questo suo ‘recinto’ è detto colmo di ogni beatitudine (sarvānanda maya). Lo stesso nome di Śiva è Beatitudine eterna, mai interrotta da alcun genere di tensione fenomenica; è la stessa Coscienza-conoscenza (saṃvit), identificata con l’Assoluto Parabrahman e con la śakti Kuṇḍalinī, che risiede nell’essere individuale. L’immutabilità della beatitudine è dovuta al continuo fluire del nettare di immortalità (sudhā srota) dall’orbe della luna all’ākāśa, nel loto dai mille petali, che è la prima sede della Coscienza unita alla Devī. La normale felicità, che riguarda le esperienze relative agli oggetti dei sensi, soggetti alla legge del cambiamento, è incostante per propria natura. È un’esperienza che dipende dalle relazioni di tempo-spazio, di soggetto-oggetto, delle modalità di percezione sensoriale, dei processi mentali e della coscienza condizionata. Ma la beatitudine della pura Coscienza, quando non sono implicati processi sensoriali o mentali, è immutabile: la sua natura è identica all’Essere (Sat), ed è assolutamente indipendente dai condizionamenti spazio-temporali. Questo, quindi, è descritto come beatitudine suprema (Parānanda), espressione usata come sinonimo di beatitudine eterna (sadānanda) o Essere-Beatitudine (sat ānanda).

      La beatitudine immutabile è espressione dell’unione di Śiva-Coscienza autoluminosa (prakāśa) e di Śakti-Potenza di volizione (vimarśā), che è la più desiderabile di tutte le esperienze, essendo la reale natura ultima di ogni essere. Questa reale natura (svarūpam) è l’autentico significato di tutta l’esistenza. In questo senso è chiamata ‘bella’ (sundaraṃ) e, più precisamente, bella per la sua vera natura (nisarga sundaraṃ). Questo è anche il senso per cui la Devī è chiamata Tripurasundarī, a volte con l’aggiunta del prefisso mahā, dove Mahat sta per coscienza primordiale e indifferenziata. L’espressione tripura significa triplice, nel senso di traipura artha, triplice significato. Questa triplicità corrisponde alla potenza universale (mahā kuṇḍalinī), il sostrato per ogni rappresentazione fenomenica, alla potenza presente in ogni essere individuale (kuṇḍalinī), la base per ogni volizione, conoscenza e azione e, infine, alla potenza intermediaria (mantra śakti) tra le due precedenti, grazie alla quale l’individuo realizza l’unità di Potenza-Coscienza.

      La potenza universale è la volontà della Devī; la potenza nell’individuo è l’azione della Devī e la potenza d’intermediazione è la saggezza della Devī. L’intenzione volitiva è la sua testa, l’azione i suoi piedi e la conoscenza il suo tronco. La volizione è equivalente all’atto di manifestazione, rappresentato dalla Luna, l’azione al mantenimento, il Sole, e la conoscenza al ritrarsi della rappresentazione fenomenica all’interno del proprio essere, il Fuoco. La volizione è rappresentata nello Śrī Yantra dal quadrato che tutto circonda (Trailokya mohana cakra) e il riassorbimento della manifestazione, dal punto centrale (Sarvānanda maya cakra). L’espressione ‘mohana’ significa illusione; e la parola ‘ānanda’ indica la conoscenza che distrugge l’illusione e rende capace l’iniziato di identificare il proprio Sé con la Dea. L’iniziato medita sul concetto che egli è la potenza di Pura Coscienza (Cit Śakti) e che è distinto dai tre corpi grossolano, sottile e causale, dai tre stati di veglia, di sogno e di sonno profondo, dai cinque involucri; vale a dire dal corpo grosso fatto di cibo, dall’insieme delle funzioni vitali, dalle attività mentali, dalle modalità della coscienza individualizzata o buddhi e, infine dal più interno involucro del Sé, colmo di godimento dei frutti delle azioni. Egli, a questo punto, abbandona anche quest’ultimo involucro del Sé di natura individuale (jīvabhāva) e trascende i limiti dell’individualità.

      Tutto ciò che concerne il concetto di volizione (vimarśā) è stato chiarito in precedenza. Śiva come coscienza è essenzialmente autoluminoso (prakāśa). Tale aspetto è simbolizzato dal suo attributo di Kāmeśvara, situato nel punto centrale (bindu), sul cui grembo è assisa Kāmeśvarī in quanto sua volontà o energia (śakti). Rossa di incarnato e felice nell’espressione, essa porta nelle mani arco, frecce, cappio e pungolo. La volizione diviene responsabile dei cinque elementi, ākāśa, aria, fuoco, acqua e terra. Ākāśa ha solo una qualità, il suono; l’aria due qualità, suono e tatto; il fuoco ne ha tre, suono, tatto e forma; l’acqua quattro, suono, tatto, forma e gusto; e la terra cinque, suono, tatto, forma, gusto e odorato. Tutte insieme queste qualità costituiscono quindici aspetti, che corrispondono ai quindici digiti della luna (tithi nityā).

      La volizione come irraggiamento dell’autoluminoso ha la natura di un impulso spontaneo (sphurattā) che proietta il mondo fenomenico per poi ritrarlo nella sua fonte. È paragonata ai raggi proiettati dal Sole, il quale è autoluminoso e illumina gli oggetti del mondo durante il giorno; di notte i raggi sono ritratti e, con la scomparsa dei raggi, anche gli oggetti del mondo scompaiono. La volizione è necessaria per l’irraggiamento, come la luce è necessaria perché avvenga la volizione. La volizione dipende dalla luce per l’atto di impulso spontaneo, e la luce dipende dalla volizione per realizzare se stessa. La luce è ‘Io’ (ahaṃtā), mentre la volizione è ‘Questo’ (idantā); l’Io è il conoscitore, Questo è il conosciuto. Il campo d’azione della volizione (vimarśā bhūmi), dove la luce (Śiva) e la volizione (Śakti) sono indifferenziati, è il nono recinto (bindu cakra).

      Il termine lauhitya, con cui si descrive la volizione, è interpretato come ‘rossore’, nel senso di attaccamento (anurāga) al proprio sé individuale come fenomeno universale. Rosso è anche il colore associato a rajas o attività (Śakti) in quanto distinto dal bianco che è il colore dell’Essere (Śiva). Benché lauhitya significhi rosso, è interessante notare che etimologicamente il significato della parola è ‘creare o proiettare’12. Quando il Tantrarāja Tantra, per esempio, dice semplicemente “lauhityam tad vimarśah syāt” (35, 14), l’espressione ‘lauhitya’ è usata direttamente come sinonimo di vimarśā, con il senso di proiezione del mondo fenomenico prodotto dalla volizione.

      Il significato di questo recinto, dunque, è la completa armonia (sāmarasya) del principio di Pura Coscienza (prakāśa o Śiva) e del principio di energia primordiale come volizione (vimarśā o Śakti). Vale a dire uno stato di non dualità, dove tutte le tendenze di avvicinamento e di allontanamento sono non esistenti, uno stato in cui l’iniziato alla fine ristà.

      1. L’aria che deve essere espulsa dal corpo.[]
      2. I tanmātra sono i principi sottili degli elementi grossi o bhūta (etere, aria, fuoco, acqua, terra). Essendo percepibili da parte dei cinque sensi (jñānendriya), i tanmātra sono descritti per mezzo delle loro caratteristiche sensibili: sono, quindi, rispettivamente śābda, il principio che rende udibile un oggetto, sparśa, ciò che rende tangibile, rūpa, ciò che rende visibile, rasa, ciò che rende gustabile, gandha, ciò che rende annusabile. Così, per esempio, il tanmātra che permette all’udito di poter indagare nel mondo esterno è il suono (śābda, la parola), che è anche il principio sottile dell’elemento etere (ākāśa). L’etere è infatti il medium grossolano che è stato prodotto per permettere all’udito di recepire il suono. Questo vale per tutti gli altri quattro tanmātra. È diffusa credenza sia in ambienti accademici sia presso gli esoteristi occidentali che i tanmātra siano patrimonio esclusivo del Sāṃkhya darśana. Non è affatto così: il Sāṃkhya ha semplicemente sistematizzato i tanmātra nell’ambito della sua teoria di sviluppo dei ventitré principi manifestati (vyakta tattva) dalla causa materiale dell’universo (Pradhāna); ma, indipendentemente da questa interpretazione settoriale, essi sono ugualmente presenti in qualsiasi altra dottrina del sanātana dharma.[]
      3. Kāmadeva, anche secondo il mito vedico (Atharva Veda, XIX.52.1), sarebbe nato dalla mente di Brahmā. Essendo la personificazione del desiderio di procreare, egli agitò la mente di quel Dio creatore, che non seppe controllare quella brama erotica. Kāma, incontenibile, traboccò dalla mente di suo padre e in questo modo ebbe inizio il mondo manifestato. È conosciuto anche con il nome di Manmatha: matha, che accende il fuoco per mezzo della frizione, man, nel cuore.[]
      4. Kamala, loto; kalhāra, giglio d’acqua; indīva, loto blu; sahakāraja, boccioli di mango; e raktakairava, loto rosso scuro.[]
      5. Gesto che incoraggia a non aver paura.[]
      6. All’altezza dei genitali. Nella geografia sacra corrisponde allo Śakti Pīṭham di Kāmākhyā, presso Guwahati in Assam, dove è precipitata la yoni della Dea.[]
      7. Alla base del collo. Nella geografia sacra corrisponde allo Śakti Pīṭham di Pūrṇāgiri, presso Tanakapur in Uttarakhand, dove è precipitata la gola della Dea (Lalitākāṇṭhā).[]
      8. I testi spesso la pongono simbolicamente a nord, sebbene in quella direzione non ci sia alcun vertice.[]
      9. Tra i seni. Nella geografia sacra corrisponde allo Śakti Pīṭham di Jālaṃdhara, sulle colline del Kāṅgra in Himachal Pradesh, dove sono precipitati i seni della Dea (Lalitākāṇṭhā). Narra il mito che il corpo della Dea fu tagliato in cinquantuno pezzi, ognuno dei quali cadde in una parte diversa dell’India. Le località dove quelle membra caddero sono dette Śakti Pīṭham e divennero meta di pellegrinaggio.[]
      10. Questo Śakti Pīṭham è identificato al tempio di Girijā Devī a Jajpur in Orissa, dove cadde l’ombelico della Dea.[]
      11. Anusvāra è il naso che, in questo caso, sta per l’intero volto in quanto parte per il tutto, essendone il centro. Al tempo stesso, un suono nasalizzato è sintesi dell’intera gamma dei fonemi. Per questa ragione è l’unico suono che può essere emesso a bocca chiusa, come accade all’anusvāra finale del monosillabo Oṃ. In grammatica, anusvāra è il puntino soprascritto che indica la nasalizzazione e sta a simbolo dell’unità non duale. Visarga significa separazione in due parti ed è sinonimo di ‘creazione’. In grammatica, visarga è scritto come composto da due punti (:). Che rappresenti la dualità è evidente, considerando che è l’unica consonante che è pronunciata appoggiata a due vocali. Nello specifico è pronunciata ahā. L’aspirazione è qui intesa come principio di separazione o di dualità.[]
      12. Ruhyate iti, “ruha bīja janmani prādurbhāve cha”, della classe di radici verbali bhvādi.[]