23. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (X)

23. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (X)

La percezione sensoriale (pratyakṣa) e gli altri pramāṇa hanno tutto il diritto di contraddire un testo che afferma cose contrarie all’esperienza dei sensi ecc. Come, per esempio, l’affermazione: “Egli dovrebbe bollire dei pezzi d’oro”1. Infatti non si può bollire l’oro. Perciò se si intende la frase in senso letterale, il pramāṇa avrà tutte le ragioni per contraddirla, a meno che non si debba intendere questa frase in senso metaforico. Infatti nel sacrificio teso ad assicurarsi una lunga vita, con “oro” si allude al riso bollito che è offerto nel fuoco dell’altare. Ma nessuno dei pramāṇa, che appartengono alla manifestazione illusoria, ha il diritto di confutare gli insegnamenti metafisici esposti da un guru che sia anche un adepto2. Ci si potrà allora chiedere: “Ma il pramāṇa conosciuto come ‘la parola’ (śabda) non è la stessa śruti? Non è un’incongruenza affermare che i pramāṇa, tra cui si enumerano le Upaniṣad, non abbiano il diritto di contraddire l’insegnamento di un guru?” La risposta è che se si tratta dell’insegnamento orale proferito da un maestro realizzato, allora lo stesso testo della śruti non ha alcun diritto di confutarlo, perché in questo caso si contrapporrebbe il semplice significato letterale del testo a quello metafisico. Infatti soltanto quando le Upaniṣad sono trasmesse oralmente da un maestro realizzato di Vedānta a un discepolo qualificato, esse sono efficaci a comunicare il vero significato dei mahāvākya. In tutti gli altri casi le Upaniṣad sono il pramāṇa noto come śabda, di utilità soltanto logica3 che, una volta conclusa la discriminazione, va rimosso.

186. Potrai dire che finché persiste la sensazione di essere sottoposti alla sofferenza dovuta all’illusione percettiva ecc., la constatazione di essere liberi dalla sofferenza non può risultare dall’ascolto degli insegnamenti testuali. Ma è un errore, perché c’è questa osservazione che ti contraddice: quando sogni di provare una sofferenza, al risveglio ti appare evidente che si trattava di una falsa esperienza.

187. In questo abbiamo la prova che in sogno sentivamo il dolore per le bruciature e le ferite. Lasciaci dire che questa esperienza, vissuta nel corso del sogno, non è in contraddizione con gli insegnamenti ascoltati,

188. poiché, quando il sogno finisce, quella sensazione di sofferenza è riconosciuta come inesistente (asat) ed erronea (bhrānta). Quella sofferenza e l’errore, una volta cancellati, non ritornano più4.

Qualcuno obietterà che l’insegnamento da parte di un guru debitamente qualificato può soltanto proporre la teoria di essere liberi dalla sofferenza; ma certamente śravaṇa non può provarlo realmente apportando l’esempio d’una esperienza condivisa da tutti circa la libertà dal dolore. Invece questa affermazione è del tutto erronea. Il maestro, al contrario, potrà portare un esempio incontestabile che anche l’uomo comune sperimenta spesso nella sua vita. Infatti quando si è in stato di sogno (svapna avasthā) capita di provare una qualche sofferenza, ma al ritorno allo stato di veglia (jāgrat avasthā) si constaterà che quella sofferenza è rimasta nel sogno e che si trattava di una falsa esperienza. Questo avviene anche in senso inverso. Un ferito, un malato, che durante la veglia è sofferente, quando va a dormire può benissimo avere dei sogni piacevoli, del tutto privi di dolore. Nel sonno profondo, come quello indotto da una anestesia, non esistono né dolore né piacere. In sogno e in sonno, dunque, la sofferenza provata durante la veglia è priva di esistenza (asat) ed è erronea (bhrānta). Questa è la prova sperimentale che il Testimone è libero dalla sofferenza in entrambe le avasthā. Chi comprende questo insegnamento cancella per sempre la sofferenza e l’errore (bhrama) e si riconosce come Sākṣin.
La comparazione (upamāna) tra le avasthā è davvero uno strumento discriminativo insostituibile per provare quanto siano illusorie le certezze dell’uomo ordinario sulla realtà del mondo della veglia (jāgrat prapañca).

189. Quando un cercatore riconosce che il suo Sé interiore è il Sé supremo, a seguito della rimozione dell’idea d’essere colui che soffre, la sua conoscenza è inconfutabile, esattamente come quando l’errore di credere che ci fossero soltanto nove ragazzi è stato cancellato dalla consapevolezza di essere il decimo.

La comprensione di questo insegnamento conduce il jijñāsu a riconoscere come false le esperienze che si vivono nel corso della veglia e del sogno, la cui irrealtà è dimostrata dalla reciproca contraddizione. Il cercatore allora realizza che questa sua comprensione dell’insegnamento deve essere attribuita a “qualcuno” che non è né in veglia né in sogno, cioè al Testimone, che appare finalmente come il proprio Sé, esattamente come accadde al giovane che, alla fine, comprese di essere lui stesso il decimo.

190. La conoscenza di essere eternamente libero proviene soltanto dall’insegnamento orale di un testo. E la conoscenza del significato del testo non è possibile senza che previamente si comprenda il senso delle parole che lo compongono.

La conoscenza di essere eternamente libero proviene dall’ascolto di un mahāvākya insegnato da un guru che sia anche un adepto. Questa conoscenza è preparata per mezzo della discriminazione tra ciò che è in accordo o in discordanza sul significato da attribuire a ogni singola parola che lo compone.

191. Certamente il significato di una parola, quando è sottoposto alla prova della concordanza e discordanza, affiora alla mente. In questo modo si arriva a conoscere che si è il Sé privo di sofferenza e di attività.

192. La più chiara fonte di conoscenza autorevole sul Sé è rappresentata da un mahāvākya, come per esempio “tu sei Quello”, che equivale a dire “tu sei il Decimo”.

L’indagine per comprendere l’esatto senso di una parola nel contesto del mahāvākya si avvale anche del richiamo alla memoria di tutti i passaggi delle Upaniṣad previamente studiati in solitudine o con l’aiuto di un esperto dell’argomento, un paṇḍita. In questo modo, scartando tutto ciò che è discordante, cioè le forme esteriori del simbolo, si assumeranno soltanto i veri significati che sono in accordo con il contenuto reale, che è il proprio Sé, sempre al di là da ogni azione e sofferenza, ovvero al di fuori dal divenire saṃsārico. I mahāvākya, perciò, sono la fonte più autorevole di conoscenza perché sono il principio, la fonte e la sintesi di tutte le Upaniṣad.

193. Esattamente come ogni sofferenza che si prova nel sogno cessa al risveglio, così l’idea che sia il proprio Sé a soffrire scompare per sempre allorché si conosce di essere il Sé interiore.

Come quando ci si sveglia la sofferenza provata in sogno scompare, allo stesso modo quando si conosce il proprio Sé scompare l’idea che esso sia sottoposto alla sofferenza del saṃsāra. Per questa ragione il mokṣa è anche chiamato il grande risveglio (bodha) e il saṃsāra, il grande sogno (mahānidrā).

194. La prova cognitiva5 non può applicarsi a testi come quello [già citato] della bollitura di frammenti di oro, perché questa frase deve essere interpretata metaforicamente, come risulta evidente confrontandola con l’esperienza percettiva che la smentisce se presa letteralmente. Ma questa incapacità di produrre autentica conoscenza non si verifica nel caso dei mahāvākya come “tu sei Quello”, perché non si trova alcuna contraddizione a questa affermazione.

L’interpretazione letterale dei testi della śruti contraddetti dalla percezione, dalla deduzione e dagli altri pramāṇa deve essere respinta. In questo caso si dovrà por mano alla metafora per capirne il vero significato. La metafora, il simbolo, l’allegoria, semplicemente suggeriscono o alludono a qualcosa di reale, ma non sono in grado di spiegare direttamente il loro vero significato. E, se da una parte questi strumenti concordano con il loro contenuto, da un’altra parte ne sono in discordanza. Questa osservazione è valida anche per le singole parti di ogni mahāvākya. Però una volta che quelle parole siano state messe al vaglio della discriminazione, tramite i pramāṇa non si potrà rilevare alcuna contraddizione nel significato sintetico dei mahāvākya.

195. Nel mahāvākya “tu sei Quello”, il significato delle due parole “Quello” (tad) e “sei” (asi) è già noto. Ma la frase non si presta a una conoscenza perfetta senza conoscere il significato del “tu” (tva).

196. Lo scopo della parola “sei” è quello di mostrare che “Quello” e “tu” si riferiscono a un’unica e medesima entità.

Nel caso del mahāvākya “tu sei Quello” soltanto una parola può prestare il fianco a una erronea interpretazione. Si sa già che “Quello” significa il Brahman, e che “sei” afferma la sua identità con “tu”. Perciò soltanto il “tu” deve essere oggetto di discriminazione tramite la riflessione sulla concordanza e discordanza dei suoi possibili significati.

197. In questo modo “Quello” sta per “Sé interiore” e “tu” assume lo stesso significato di “Quello”. Presi assieme essi escludono reciprocamente [l’idea] d’essere “colui che è sottoposto a sofferenza” e [l’idea] di non essere “il Sé interiore”.​

198. I due termini”Quello” e “tu”, presi assieme, esprimono la medesima realtà contenuta nella formula “neti neti”6.

199. Quando la conoscenza che scaturisce da “tu sei Quello” è ottenuta in questo modo, come si può sostenere che non sia di per sé una fonte valida di conoscenza e che perciò ci sarebbe la necessità di realizzarla per mezzo di un’ulteriore azione?

Repetita juvant: giacché “Quello” è dichiaratamente il Brahman, e il mahāvākya presenta il “tu” come identico a “Quello”, il “tu” non potrà essere confuso con l’“io” individuale. Considerati come identici, allora “Quello” escluderà che “tu” possa essere sottoposto alla sofferenza dell’esistenza saṃsārica; e il “tu”, a sua volta, smentirà ogni idea che neghi che “Quello” sia il Testimone interno. “Tu” e “Quello” devono quindi essere intesi come un unico Principio non duale, proprio perché non c’è altro oltre a questo Principio, com’è dimostrato dal “neti neti”. Questa conoscenza, raggiunta per mezzo dell’ascolto del mahāvākya insegnato dal guru, è in accordo con la śruti, con la percezione dei sensi, con la deduzione e con gli altri pramāṇa. Quindi, come è possibile affermare che questa conoscenza non è uno strumento valido di conoscenza? Questo perché la conoscenza o Intuizione del Sé deve essere considerata quasi come fosse un “pramāṇa supremo”7 (antyapramāṇa), capace di oltrepassare l’esperienza empirica. Perciò è privo di senso affermare che, oltre alla conoscenza, si debba fare ricorso a una qualche azione metodica per raggiungere la Liberazione.

200. Perciò l’ingiunzione “agisci!” è incompatibile con il senso del testo, anche se la si intendesse applicare ai tre śrāvaṇa, manana e nididhyāsana. Possiamo dunque affermare che l’azione qui non ha alcuna utilità, tanto più che neanche la śruti ne accenna. E non si deve contraddire la śruti al solo fine di sostenere la necessità dell’azione.

mahāvākya non accennano mai alla necessità di una azione rituale, compiuta con il corpo, con la parola o con la mente, imposta come metodo da parte di un maestro. E nemmeno śrāvaṇa, manana nididhyāsana, che pur sono delle azioni mentali, possono essere considerate delle ingiunzioni impartite dal guru, perché non sono attività tese a produrre un effetto o a ottenere un risultato, ma soltanto a rimuovere l’irreale (asat) che nasconde la Realtà (Satya). Per l’emergere della conoscenza l’azione è del tutto inutile, e per questa ragione i mahāvākya nemmeno la menzionano. Chi afferma il contrario allo scopo di caldeggiare la necessità dell’azione, si mette in contrasto con la śruti.

201. Obiezione: Non esiste nessuna esperienza prodotta dall’ascolto dell’insegnamento che possa essere paragonabile alla soddisfazione concreta che [, per esempio,] si prova dopo aver mangiato. Analizzare una frase per ottenerne un’esperienza concreta è come tentare di preparare un dolce di riso bollito nel latte con sterco di vacca.

La curiosa espressione finale, significa che non è possibile ottenere risultati positivi utilizzando mezzi inadeguati. La frase è tratta dal commento di Vyāsa agli Yoga Sūtra8, ed esprime l’atteggiamento dei pātañjala yogin e dei tantrika nei confronti della Conoscenza pura9. Secondo loro, un’esperienza reale comporta sempre una soddisfazione corrispondente. Per esempio dopo aver ben mangiato si prova un senso di appagamento e di sazietà, in quanto si è acquisito qualcosa di piacevole che prima, a stomaco vuoto, si desiderava ottenere. Perciò l’ascolto di un insegnamento, senza l’acquisizione di qualcosa che prima non si aveva, non può essere soddisfacente. È piuttosto evidente che per lo Yoga darśana la conoscenza da acquisire è trattata come se fosse un idam, un oggetto di un desiderio che deve venire a far parte del “mio” (mama). Per questa ragione, l’acquisizione della conoscenza, per quegli yogin, consiste nel soddisfacimento di un desiderio a cui ambisce l’ego per il proprio piacere: esattamente come la soddisfazione che si prova dopo un lauto pasto. È evidente che questa non può essere la vera conoscenza metafisica, ma una scienza del tutto immersa nel fluire del saṃsāra.

202. Risposta del vedāntin: È vero che tutti gli aforismi che danno informazioni sui non-Sé (anātman) conducono a una conoscenza teorica. Ma ciò non vale per i mahāvākya che riguardano il Sé interiore. Essi permettono la vera e diretta conoscenza, come il caso di quel tale che aveva realizzato di essere il decimo.

Gli aforismi della śruti che spiegano i limiti, l’illusorietà e l’irrealtà di tutto ciò che non è l’Ātman, sono delle informazioni che fanno parte della preparazione dottrinale teorica che precede l’iniziazione. Ma i mahāvākya hanno per argomento la conoscenza del Sé, e la loro comprensione non può essere solamente teorica. Ciò si spiega perché, mentre gli anātman sono irreali, per cui la loro conoscenza non può condurre a nessuna realizzazione, l’Ātman è la Realtà assoluta e la sua conoscenza comporta necessariamente la “realizzazione”.

203. Si deve capire che il Sé è il suo stesso mezzo di conoscenza (svāpramāṇaka); il che significa che esso è direttamente conoscibile a se stesso (svayamvedyatva). Dal nostro punto di vista si realizza la conoscenza del Sé quando l’ego è dissolto.

Il Sé è del tutto autosufficiente (svastha) e indipendente (svatantrin), in quanto è l’unico esistente, l’unico reale, l’unico cosciente. Perciò esso è direttamente conoscibile da se stesso per mezzo della sua stessa conoscenza che è propriamente quel “supremo” a cui accennavamo commentando lo śloka 199. Ovviamente, quanto si afferma “qui ora”, ciò corrisponde al suo stato assoluto e non duale; per cui si prenderà ogni cautela possibile onde evitare di confondere quanto appena affermato con la triade conoscente-conoscenza-conosciuto, che invece si riferisce al conoscere come una azione cognitiva, di cui s’è trattato abbondantemente in precedenza. Dal punto di vista empirico la conoscenza del Sé è susseguente alla dissoluzione dell’illusione chiamata aham, l’“io” individuale. Ma questo è soltanto un modo per esprimere in forma cronologica quella che è una realtà eternamente esistente. Perciò il maestro insegnerà al discepolo desideroso di conoscere, che il “proprio” Sé ha la visione del Brahmātman stesso, o meglio, che Lo intuisce, dal momento che Esso ha la medesima natura dell’Intuizione. La modificazione mentale che è prodotta dell’apparizione dell’Intuizione è definita come Suo anubhāva, ovvero intuizione del Sé. Ma in realtà questa modificazione mentale è soltanto il riflesso del Sé nella buddhi.

204. Noi consideriamo la sofferenza come qualcosa che i sensi sperimentano come oggetto esterno. Quale contatto può esserci tra il Sé e la sofferenza, se per il Sé persino i sensi sono oggetti?

Qui con sofferenza non si deve intendere il singolo patimento tattilmente percepito dal corpo, come una ferita, un trauma, una scottatura, una malattia, un’amputazione, ma l’insieme di tutti i tormenti, il saṃsāra nella sua interezza, che appare all’uomo ordinario come una successione illimitata di esperienze mutevoli costituenti il mondo manifestato. Questo divenire travolgente, ordinariamente lo si considera composto dalla totalità degli oggetti esterni percepiti dai sensi. Per colui che ha una visione un po’ più ampia, il saṃsāra comprende anche tutto ciò che è della natura sottile di taijasa, sperimentato dai sensi interni in stato di sogno. Ma, in realtà, il Sé non è sottoposto alla sofferenza del saṃsāra, poiché, per il Testimone, perfino gli stessi sensi esterni e interni, corpo, mente e buddhi sono soltanto degli oggetti.

205. Il Vedente, in verità, è sperimentato, cioè intuito, solo da se stesso, essendo della natura dell’Esperienza-Intuizione. L’insorgere di una modificazione intellettuale cognitiva pervasa dal suo riflesso è conosciuta come un’iniziale “esperienza del Sé”.

Il Vedente (dṛś, il Testimone) non può essere oggetto di esperienza, non può essere intuito come oggetto. Il Sākṣin sperimenta e intuisce se stesso non come altro da sé, essendo esso stesso della natura dell’Intuizione. Quando nell’intelletto dell’uomo si produce una modificazione (vṛtti) illuminata dal riflesso dell’Ātman allora quella è conosciuta come la primordiale esperienza del Sé come intuizione evidente d’esistere e d’essere cosciente (prasiddhānubhāva). Sull’intuizione iniziale “Io esisto; io sono cosciente”, ci siamo già espressi più sopra commentando lo śloka 4. E, a partire dallo śloka 90, abbiamo anche commentato la convinzione che “io sono così e così”, pensiero della buddhi che va a sovrapporsi all’intuizione primordiale dando origine alla falsa idea dell’“io” e del “mio”.​

206. Il Sé è libero dalla fame e da altre privazioni. È sempre auto esistente, perfetto (siddha), libero. In verità tu sei Lui. Quando la śruti afferma questo, come può insegnare anche l’opposta dottrina per la quale si deve agire, al fine di obbedire a un’ingiunzione, per compiere śrāvaṇa, manana e nididhyāsana?

La śruti afferma che l’Ātman è eternamente libero dal saṃsāra e dalle sue limitazioni e privazioni. Il tuo vero “Io” è di per sé esistente, libero e perfetto. Tu sei Lui, ossia “tu sei Quello”. Perciò soltanto gli ignoranti possono pensare che le Upaniṣad indichino una dottrina per cui è necessaria un’ingiunzione magistrale a compiere determinate azioni nello spazio e nel tempo, al fine di conoscere il proprio Sé: e che queste azioni cognitive che dovrebbero produrre tale effetto debbano essere śrāvaṇa, manana e nididhyāsana, quasi si trattasse d’un metodo a tappe, basato sullo sforzo meditativo su un simbolo che sta a rappresentare indirettamente l’Aparabrahman. Invece la śruti afferma: “Quando con śrāvaṇa, manana e nididhyāsana sorge la conoscenza del Sé, allora si conosce tutto”.10

207. Se la śruti dicesse: “Se vuoi raggiungere la natura dell’Assoluto allora devi compiere śrāvaṇa, manana e nididhyāsana come azioni imposte dal maestro”, in tal caso la Liberazione sarebbe transitoria, il che comporta una contraddizione. Il testo non dovrebbe essere distorto per fargli dire che si deve arrivare a un “cambiamento di stato”.

Se le Upaniṣad affermassero che per arrivare a realizzare la natura del Brahman sarebbero necessarie delle azioni chiamate śrāvaṇa, manana e nididhyāsana imposte da un guru come metodo, allora il mokṣa sarebbe transitorio. Infatti, come sostengono i pātañjala yogin, ciò implicherebbe che la natura dell’“io” potrebbe progressivamente avvicinarsi a Īśvara fino a unirsi (yuj) alla Sua natura come un tutt’uno. Gli effetti dell’azione sono sempre transitori: perciò la Liberazione sarebbe transitoria, come il nirvikalpa samādhi di quegli yogin. Oltre a tutto, la natura contingente dell’“io” è transitoria: perciò la sua unione (yoga) con il Brahman è forzatamente transitoria. Ciò è in contraddizione con l’insegnamento “tu sei Quello”, perché la śruti non afferma mai “tu diventi Quello”, ma “tu sei Quello”. Tutto ciò, quindi, è in contraddizione con l’insegnamento upaniṣadico. E non si deve alterare il senso della śruti per far sì che dica ciò che si desidera per dimostrare che è in accordo con le varie correnti dello Yoga: cioè che la realizzazione è quel cambiamento di stato che comporta l’unificazione (ekatā) del relativo con l’Assoluto, del transeunte con l’Eterno, del limitato con l’Infinito; dell’ignorante con il Cosciente-conoscente, cosa evidentemente impossibile.

  1. Pūrva Mīmāṃsā Sūtra, X.1.1-3. Cfr. Śatapatha Brāhmaṇa, III.8.2.1;26.[]
  2. Ricordiamo al lettore che adeptus, participio passato del verbo latino adipiscere (ottenere, raggiungere, realizzare) indica un essere perfetto e non, com’è uso volgare, il seguace di alcunché. Nel medioevo il termine fu usato in due accezioni: adeptus minor e adeptus major. Volendolo attribuire al realizzato vedāntico, è evidente che questi non potrà essere altro che l’adeptus major.[]
  3. Di fatto śabda, in quanto pramāṇa, è anche di uso comune nelle speculazioni sofistiche dei naiyāyika e di altri paṇḍita esteriori.[]
  4. “Ciò che è privo d’esistenza all’inizio e alla fine è necessariamente asat anche nell’intervallo. Gli oggetti del mondo della veglia sono simili alle illusioni che vediamo nel mondo del sogno. E, ciò nonostante, continuiamo a considerare quegli oggetti come reali!” MāUGK II. 6.[]
  5. Pramā: ciò che è prodotto dagli strumenti di prova, pramāṇa.[]
  6. BU II. 3. 6.[]
  7. Ovviamente l’Intuizione del Sé è ben al di là del dominio dei pramāṇa, essendo questi dei semplici strumenti individuali di azione conoscitiva. L’Intuizione, invece, è della medesima natura dell’Ātman e non è un’azione. Perciò qui l’uso di “pramāṇa supremo” deve essere inteso in senso trasposto.[]
  8. Yoga Sūtra, I. 32.[]
  9. Come è già stato detto, le Upaniṣad sono propriamente i testi del Vedānta. Il testo di riferimento dello Yoga darśana sono gli Yoga Sūtra che non fanno parte della śruti, ma della smṛti. Quelle che gli indologi hanno voluto chiamare Yoga Upaniṣad, in realtà, sono dei testi vedāntici che spiegano la natura dello Yoga.[]
  10. BU II. 4. 5[]