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Nuccio D’Anna

Simboli primordiali

Armonia cosmica e diritto sacro nell’Ellade arcaica

Nella celebre descrizione della forgiatura dello scudo di Achille tratteggiata nell’Iliade, all’inizio della narrazione Omero si sofferma su una enigmatica mappa celeste che raffigura alcune costellazioni non presenti nella fascia zodiacale (XVIII, 481-487). Si fa ovviamente menzione del sole e della luna, ma in un contesto complessivo che comprende anche le altre stelle “che fanno da corona nel cielo”. In realtà, quelle che sembrano attirare in modo speciale l’attenzione di Omero sono le Iadi, le Pleiadi e Orione, tre costellazioni che alle origini, come documenterà poi anche Esiodo, quando il tempo non veniva ancora calcolato sui movimenti del sole e sulle dodici stazioni via via toccate nello zodiaco, erano proprio quelle sulle quali si regolavano le primordiali notazioni calendariali. L’apparizione di queste costellazioni determinava l’inizio dell’antico anno liturgico e quello delle tre stagioni (mietitura, aratura e vendemmia) che, esattamente come i Ṛbhus vedici studiati dal Lokamanya Tilak, scandivano una antichissima divisione triadica del calendario non ancora riferita in nessun modo al tempo impiegato dal sole per percorrere l’intera fascia dello zodiaco. È una sistemazione dell’anno che ha preceduto quella centrata sul percorso del sole, sulle stazioni toccate via via dall’astro diurno e sulla divisione di quest’anno in quattro parti.

Al centro di questa straordinaria ed inaspettata carta celeste troviamo la costellazione dell’Orsa, ”che adesso il popolo chiama Carro”, dice Omero, con ciò dichiarando quasi per inciso, e come cosa ben conosciuta dai suoi ascoltatori aristocratici, che questa costellazione ha avuto una specialissima “storia” simbolica a partire dal tempo in cui prima di essere chiamata “Orsa” era considerata la sede delle “sette Luci”, il sapta-rikṣa della tradizione vedica. Poi, posto di fronte all’Orsa, Omero indica un “punto” fisso e immobile attorno cui gira l’intero quadrante celeste, l’unica stella “che non tramonta mai”, la stella polare. Come si vede, ci troviamo davanti agli elementi essenziali di un arcaico quadrante celeste: il Polo, il Grande Carro e poco più in là le Iadi, le Pleiadi e Orione, le costellazioni che, come rivelava nel 1893 anche il Lokamanya Tilak nel suo The Orion, or recherches into the antiquity of the Vedas, sono subentrate nel calendario astronomico come punti fissi di orientamento dopo una serie di riadattamenti cosmici che hanno fatto emergere quasi necessariamente nuovi riferimenti astrali. Omero sembra supporre come cosa ben conosciuta dalla casta guerriera cui è indirizzato il proprio canto, l’esistenza di un calendario stellare regolato sull’apparizione periodica e sulla posizione celeste di alcune costellazioni fisse che ha preceduto l’adozione del sistema di notazione centrato sul sole. E la cosa forse ancora più straordinaria che emerge osservando questa strutturazione cosmica, è il fatto che la carta celeste del testo omerico risulta identica alla situazione supposta anche dal calendario stellare in uso ai tempi di Esiodo, un calendario che regolamentava i tre cambiamenti stagionali di un “anno” non ancora strutturato sullo scorrere dei 12 mesi e indicava i ritmi di vita sui quali doveva essere regolato il lavoro del contadino ellenico nei momenti di una durata “annuale” non ancora regolamentata.

L’ambientazione celeste tratteggiata da Omero con le sue curiosissime attenzioni verso queste costellazioni non zodiacali, è importante. Situa l’ascoltatore in una realtà principiale, quando la perpendicolare dell’axis mundi andava a toccare il Polo celeste e gli consentiva di osservare le raffigurazioni dello scudo creato dal divino fabbro Hephaistos come se si svolgessero al “centro del mondo” e al principio del tempo. Omero intende situare l’ascoltatore non solo nell’illud tempus delle origini, quando il “perno del cielo” ha principiato a svolgersi e ad orientare l’intero quadrante celeste, ma anche nel corrispondente omphalos sacro nel quale tutte le “forme formate” hanno preso consistenza. D’altronde, l’opera straordinaria di Hephaistos non è solamente un irripetibile manufatto “bello” e perfetto, ma un vero e proprio agalma (= “oggetto sacro”) forgiato con l’intento di rimodulare l’atto cosmogonico che ha tratto ad essere la manifestazione. Sulla sua superficie, infatti, il dio demiurgo che ha la funzione “esemplare” di agire sulla “materia grezza” per trasmutarla, ha raffigurato i ritmi sui quali si articola l’intero ordine cosmico e quello umano. In questa sua creazione Hephaistos ha colto gli archetipi che danno consistenza al creato e l’agalma ha il compito di veicolare le “forme formanti” sulle quali si ordina il cosmo.

Più in là la rappresentazione si trasforma e Omero, il cantore “cieco” che deve interpretare e poi rivelare le visioni elargitegli dal mondo degli dèi, dopo la descrizione di un matrimonio tradizionale con la sua caratteristica processione sacra che si snoda alla luce delle fiaccole notturne, introduce la scena di un processo che deve decretare la condanna di un omicida e sancire il “prezzo di sangue” che il colpevole deve pagare per riparare un reato così grave. L’intento sotteso dalla scena del giudizio probabilmente è quello di mostrare la solidarietà fra:

1. il primordiale diritto sacro (= dike);

2. la legge divina che regge ogni aspetto del creato ed è posta sotto la tutela di Themis1, l’antichissima forma celeste figlia di Urano e di Gea (la terra o “materia prima”) che al principio del mondo, quando anche le altre figure divine hanno cominciato a prendere forma, aveva generato con lo sposo Zeus le sue tre figlie, le divine HôraiEurinome, “Giusta Norma”, Dike, “Giustizia”, Irene, “Pace”. Il simbolo della bilancia che appartiene in proprio all’area sacra nella quale opera questa figura divina non può perciò che rimandare ad un’epoca primordiale, quando l’armonia era la condizione stessa del cosmo, gli dèi cominciavano a prendere “forma” e la Bilancia non designava ancora l’attuale costellazione zodiacale, ma dimorava in una situazione celeste;

3. il diritto pubblico che ordina l’andamento e i rapporti fra le antiche famiglie2. Questa particolare forma di giustizia primordiale si articola come un equilibrio che regge ed orienta la molteplicità dei piani cosmici, instaura l’armonia complessiva che deve toccare anche la struttura interiore dell’uomo e sul piano sociale si manifesta come un valore spirituale che riflette il significato stesso dell’ordine cosmico. Per usare le parole di Jean Rudhardt, “la thémis [] est une exigence ressentie, le désir ou le besoin d’inventer des conduites propres à assurer une entente, à assurer la paix et l’équilibre d’une société […], tandis que les actes contraires à la thémis dissolvent les sociétés”.

I giudici del processo tratteggiato da Omero siedono su una fila di pietre sistemate in modo da disegnare un recinto circolare e al centro di questa vera e propria rappresentazione di un sacro omphalos, vengono sistemati δύο χρυσοῖο τάλαντα (“due talenti d’oro”). È la raffigurazione di una realtà che segue esattamente le identiche modalità “esemplari” utilizzate nel posizionamento degli aethla spettanti al vincitore delle gare funerarie celebrate in onore della trasfigurazione di Patroclo, i “premi” che Achille aveva collocato “al centro” dell’assemblea. La sistemazione dei due “talenti” e la stessa conformazione circolare dello spazio che li deve ospitare, per molti aspetti riproduce l’antichissima tradizione sacra di porre “al centro” dell’assemblea dei vincitori il bottino catturato ai vinti e da dare poi all’Eroe prescelto dal Destino attraverso un sorteggio che in realtà è un’interrogazione rituale. Tutto lascia pensare che l’accordo raggiunto fra i contraenti scaturisca da un retroterra religioso e che il sorteggio supposto da qualche studioso non miri affatto all’assoluta imparzialità giudiziaria cui hanno pensato troppo sbrigativamente molti esegeti di Omero. Il mediatore per eccellenza fra i due contendenti, e fra i contendenti e la sfera del sacro, resta l’indovino-veggente col compito di interpellare il destino seguendo le regole di un’arte oracolare che alle origini costituiva, fra l’altro, anche la più antica fonte del diritto arcaico. In questo modo era lo stesso Destino ad indicare colui al quale spettava la parte più importante del bottino per ciò stesso assimilato ad una oblazione sacra, mentre la distribuzione dei beni secondo giustizia non solo risultava equa perché seguiva dettami ricavati da un’interrogazione oracolare, ma tendeva a ripristinare un ordine alterato, recuperava un equilibrio complessivo.

L’espressione omerica δύο χρυσοῖο τάλαντα viene usualmente resa come “due talenti d’oro”3 perché è sembrato naturale a molti studiosi ricollegare questa primitiva forma di monetazione omerica ai “talenti”, ossia a quei tipi monetari che circolavano abbondantemente già a partire dalla tarda età del bronzo nel mare Egeo fra Creta e Cipro. È molto probabile che queste forme monetarie siano giunte nell’area della civiltà ellenica forse al seguito di quegli ampi movimenti di viaggiatori, demiurghi, artigiani e fabbri che a partire dal II millennio hanno interessato tutta l’area del Mediterraneo orientale. L’ampiezza dei loro orizzonti, la capacità di coinvolgere con le loro conoscenze tecnico-operative svariate categorie artigianali e la loro stessa forza di penetrazione hanno convinto un esperto come Andreas Alföldi ad ipotizzare l’esistenza di una sorta di preistorica “civiltà dei fabbri” ricca di una propria mitologia e di adeguati fondamenti spirituali4. D’altronde, è proprio nel mondo mesopotamico che il valore del “talento” veniva calcolato in rapporto alla mina (mana; gr. mna; una mina era formata da 60 sicli) e qui 60 mine andavano a formare il valore di un “talento” che così, come è evidente, traeva i propri significati ponderali e simbolici dal sostrato spirituale e aritmosofico che sostanziava la numerazione sessagesimale babilonese.

Nonostante i molti tentativi fatti dagli studiosi, il valore dei “talenti” omerici è rimasto sempre assolutamente indeterminato. Già Aristotele assicurava che il “talento” omerico non ha mai corrisposto ad una quantità fissa o ad un valore prefissato e da allora sono state avanzate le congetture più varie per determinarne il peso. Ma si è solo riusciti ad elencare tutta una serie di ipotesi che però sono rimaste sempre tali, soltanto delle ipotesi personali avanzate da qualche studioso. E tuttavia, come suggeriva con buone ragioni il vecchio, buon William Ridgeway5, i “talenti” omerici dovevano corrispondere necessariamente ad un valore ponderale molto vicino o in relazione diretta con quello attribuito al bue. Questo animale, infatti, in virtù del suo eccezionale valore rituale che da sempre ne ha fatto per eccellenza l’offerta da immolare nei sacrifici e quella “più gradita agli dèi”, è stato sempre valutato come l’unità di misura-base con la quale nel mondo tradizionale celebrato da Omero normalmente venivano commisurati tutti gli altri beni. E poiché i valori ponderali della civiltà omerica sono sempre stati espressi in rapporto al numero dei buoi da immolare e non a quello dei “talenti”, bisogna necessariamente concludere che la misura-base originaria di ogni valutazione ponderale è stata proprio il bue sacro assolutamente fondamentale sia nel sacrificio arcaico che nella consequenziale distribuzione della carne dell’animale immolato ai partecipanti al sacro banchetto. Resta il fatto indubitabile che proprio la contiguità di questi due antichissimi valori (buoi e “talenti”) nelle gare, negli agoni, nei giochi e in molti altri contesti sacri dei quali testimoniano primieramente i poemi omerici, mostrerebbe non solo la loro forte solidarietà, ma anche le relazioni profonde che da un punto di vista “pre-monetario” dovettero esistere fra i buoi e i “talenti”.

È molto probabile che la stessa quantificazione ponderale di ognuno di questi “talenti” dovesse rimodulare un aspetto del valore di conio attribuito da sempre ai particolarissimi tipi monetari circolanti negli opulenti imperi mesopotamici, là dove ogni fenomeno umano o accadimento fisico veniva fatto risalire a “forme divine” e ad “archetipi celesti” che le dottrine caldee hanno sempre assimilato a “divinità = numeri”. Ora, nel sistema babilonese fatto riemergere da Hugo Winkler e successivamente spiegato con attenta dottrina da Alfred Jeremias6, il rapporto fra monete d’oro e d’argento (fondamentale anche per determinare il reale valore dei “talenti” omerici) è stato calcolato sempre come 1:13½ e fatto derivare dalla misurazione di alcuni movimenti astrali computati sul rapporto fra i 360 giorni dell’anno solare (= oro) e i 27 giorni del mese lunare (= argento) = 360 : 27.

A sua volta il rame (un minerale assolutamente indispensabile non solo per le qualità intrinseche che poteva vantare nell’ottenimento del bronzo e di molte altre leghe metalliche, ma soprattutto perché era considerato il metallo appartenente all’area di culto della dea Venere) rispetto all’argento manteneva il rapporto di 1: 60 secondo un valore ponderale determinato, ancora, sulla numerazione sessagesimale così importante nelle culture mesopotamiche. Come si vede, i tre metalli (oro, argento e rame = sole, luna e Venere) che costituivano il fondamento essenziale di ogni valutazione ponderale, quelli considerati sempre assolutamente indispensabili in ogni tipo di conio o di lega metallica, mantenevano il rispettivo rapporto di valore secondo un computo ricavato dai cicli orbitali del sole, della luna e del pianeta Venere, i tre più importanti astri del sistema mesopotamico presso cui era una abituale norma dottrinale assimilare ogni astro o pianeta non solo alla relativa divinità di riferimento, ma anche ad un determinato numero, ad un simbolo o ad un colore.

Il termine τάλαντα è formato sullo stesso valore semantico sul quale si è costruito il verbo ταλαντέυω, “pesare”, “bilanciare”, “misurare”, “oscillare” (cfr. lat. libra), sicché in realtà il sostantivo usato da Omero non sembra indicare solamente i “talenti” coniati in oro —-il metallo prezioso appartenente all’area dei culti solari e perciò considerato il veicolo per antonomasia del simbolo della luce appartenente per eccellenza allo status di tutti i sovrani=dèi, ma anche i piatti della bilancia quale tipico strumento adoperato per “pesare”. Sono stati proprio questi valori semantici a convincere Angelo Segrè nel suo grosso libro sulla metrologia antica ad accostare tali termini anche all’ebr. kikkar (= lat. libra).D’altronde, erano proprio questi “talenti” = “piatti d’oro” gli utensili indispensabili che nel mondo omerico servivano a “misurare” il valore dei metalli preziosi (Il. VIII, 69; XII, 209; XI, 433; XIX, 223; ecc.). E la solidarietà fra i “talenti” e la bilancia sarebbe stata tanto stretta da autorizzare qualche studioso ad ipotizzare (forse persino con troppa libertà interpretativa) che la stessa caratteristica incavatura che si trova nella superficie di tutti i “talenti” deriverebbe da una precisa scelta tecnica voluta per far somigliare i “talenti” alla bilancia anche nella forma esteriore: anche questo sarebbe un segno della loro sostanziale identità simbolica.

Nel caso del testo omerico l’ambivalenza del termine indurrebbe l’ascoltatore della scena ad assimilare con tutta ovvietà l’oggetto della pesatura con il mezzo per valutarlo e a farne emergere il loro valore simbolico. Con l’“oscillazione” dei suoi due piatti la bilancia serve a “misurare” o a “pesare” ed è il tipico oggetto ad uso rituale forgiato dalle corporazioni sacre dei fabbri e metallurghi ad imitazione della bilancia, il simbolo “classico” di Themis, l’Ordine cosmico strutturato attorno all’asse polare. È dunque l’asse polare, assieme all’equilibrio complessivo conseguito con il movimento dei due Carri, l’archetipo di ogni bilancia, il “perno” dal quale si sviluppa la lentissima rotazione dei due “piatti d’oro” della Libra celeste, il Grande e il Piccolo Carro, il veritiero “cardine” che con il suo lentissimo movimento orienta l’“oscillazione” di questi due “piatti” celesti e garantisce la stabilità, l’armonia e il “giusto” equilibrio dell’intero quadrante astrale7.

Secondo l’astronomia classica, il Carro celeste che “gira” attorno al Polo è trascinato da “sette buoi”. Si tratta di una vera e propria trasposizione cosmica della funzione rituale del bue sacro che molto probabilmente è in relazione anche con la funzione coperta ad una certa epoca dalla simbolica “Terra del Toro”, e gli ha consentito di diventare un importante simbolo nella scelta degli orientamenti rituali della più antica civiltà fiorita nell’area ellenica, quelli che dovevano corrispondere anche alla posizione via via assunta da alcune costellazioni celesti per determinare i momenti essenziali del calendario liturgico in piena rispondenza con i ritmi celesti e con i cambiamenti cosmici prodotti dallo sviluppo ciclico.

Fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento Eduard Hahn8, un geniale antropologo e storico delle religioni tedesco, era riuscito ad elencare tutta una serie di dati, fatti e documenti intesi a provare senza ombra di dubbio che alle origini il bue non fu affatto utilizzato come bestia da soma e che la sua stessa carne non era mai servita a fini commestibili. Il bue e il carro -come, d’altronde, la stessa ruota che alle origini era un importante simbolo “polare” diventato, dopo un processo di secolarizzazione e di laicizzazione, lo strumento per uso profano che tutti conoscono- avevano una funzione essenzialmente sacra che ne giustificava i riferimenti simbolici mentre lo stesso consumo della carne di questo animale agli inizi restava legato solamente alle oblazioni e ai banchetti sacrificali. Solo successivamente, in seguito ad un processo di secolarizzazione comune a molti altri aspetti della vita tradizionale, i simboli legati al bue e al carro smarrirono il proprio carattere sacro o rituale e divennero gli strumenti ben conosciuti del lavoro umano, utilissimi per alleviare la quotidiana fatica. È perciò importante ricordare la solidarietà di queste originarie dimensioni simboliche e rituali con il valore esemplare dei septem triones, “i sette buoi” che, come è ampiamente noto ad ogni latinista, nella cosmologia classica ripresa anche da Varrone (De lingua lat., VII, 4, 74: “nostri eas septem stellas triones et temonem et prope eas axe”) sono proprio gli animali che hanno dato il nome al Septemtrionem. È il profondo radicamento rituale del bue che spiega la funzione cosmica dei “sette buoi” (ed esclude qualsiasi altro animale pur importante per i Greci, come potevano essere per es. il cavallo, il cervo, il leone, ecc.) rappresentati sempre mentre girano perpetuamente attorno al Polo posizionato nel quadrante Nord del cielo. Qui i “sette buoi” trascinano lentamente il “carro cosmico” per “arare” pigramente la speciale porzione di “terra” che in realtà delimita il loro quadrante celeste. Questo loro lentissimo giro attorno al “perno fisso” del cielo percorre tutto il cerchio cosmico impiegando una simbolica “era cosmica” corrispondente esattamente a quello che nell’India “classica” è sempre stato indicato come un intero “regno di Dhruva”.

Per poter giudicare gli sfidanti di questo arcaico processo che può essere compreso solamente se interpretato nella prospettiva di una sacra ordalia tesa a ripristinare condizioni di armonia, il giudice omerico “pesa” le colpe su una bilancia e premia il vincitore con due “talenti d’oro”, qui rivelatisi come simboli ambivalenti scaturiti, ancora, dalle forme più antiche della monetazione creata nella fucina dei fabbri-demiurghi, là dove 1. gli oggetti forgiati da questi straordinari “manipolatori del ferro” e dei metalli, 2. la “pesatura” sulla bilancia e 3. la giustizia si svelavano come aspetti di un’unica funzione creatrice emersa dallo stesso sostrato che da sempre alimentava le più vetuste forme di diritto sacro, quelle che Louis Gernet aveva classificato complessivamente nell’ambito del cosiddetto “pre-diritto”.

Con la sua “pesatura” delle colpe sul piatto della bilancia e con il premio dei “talenti d’oro” il gesto dei giudici omerici mostra chiaramente lo strettissimo legame esistente fra metallurgia, giustizia ed esercizio della sovranità, i tre aspetti di una forma di regalità sacerdotale precedente di molto la costituzione delle pōleis democratiche. Tutto ciò appartiene ad un sostrato “para-religioso” antichissimo che ha attraversato il mondo miceneo, ha toccato in vario modo la civiltà omerica e forse anche quella che si è convenuto chiamare cultura indoeuropea. È lo stesso sostrato sacro dal quale è scaturito il gesto che, seguendo una arcaica prerogativa regale, spinse il re Brenno (il celebre sovrano della confederazione di tribù celtiche che aveva sconfitto pesantemente i Romani), a lanciare il suo urlo incantatorio contro i vinti, com’era uso presso tutte le confraternite di “guerrieri sacri” della preistoria indoeuropea e, contemporaneamente, a scagliare la spada sul piatto di una bilancia che doveva “pesare” il suo sacro diritto di re trionfatore9. Si comportava come il vincitore di un’ordalia nella quale venivano perpetuate antiche consuetudini che probabilmente attribuivano alla spada del re vittorioso requisiti sovrannaturali. La quantità di oro versata dai vinti doveva controbilanciare il “peso giuridico” della spada del vincitore. L’oro doveva avere un rapporto specifico non con il valore ponderale della spada, ma con il simbolo sovrano garantito dal diritto sacro del vincitore che essa rappresentava e veicolava. Come si vede, in questo tipo di agone i perdenti erano tenuti a compensare la loro sconfitta mediante il pagamento di una certa quantità di oro, il metallo dei re e delle divinità solari, qui presentato come una pura “offerta sacrificale” commisurata sia alla funzione di “giustizia sacra” coperta dalla spada del sovrano vincitore depositata sulla bilancia, che alla sua stessa “pesatura”.

Il “giudizio” sancito dalla “pesatura” della spada ci mette davanti ad una forma di interrogazione oracolare il cui esito deve essere inquadrato all’interno di quella che Kurt Latte equiparava ad una vera e propria “multa sacra”10. In realtà, proprio per questi aspetti sacrificali gli importi dovuti dal perdente non vanno corrisposti agli uomini, ma alla divinità cui rimane vincolata l’esazione perché l’autentico giudice resta il dio. È al suo cospetto che il colpevole deve discolparsi, è con la divinità che è necessario ristabilire l’armonia alterata ed è perciò al dio che alla fine del processo devono essere consegnati gli agalmata (= gli “oggetti sacri” o gli importi equivalenti in oro o in argento) prescritti dal giudice i quali finalmente possono assumere la loro funzione primaria di “offerte votive” deputate a ristabilire l’armonia con il mondo celeste.

La complessa scena omerica, pur in una presentazione che sembra volere laicizzare quasi completamente le regole che ne sostengono l’andamento e lo stesso suo significato, scaturisce dal fondamento sacro che sostanziava il “pre-diritto”, quando colpa e giustizia dovevano essere soppesate dall’indovino-giudice sui piatti di una bilancia. Le oscillazioni dei piatti e le diverse posizioni assunte sui piatti dagli oggetti “pesati” venivano interpretate secondo norme di origine oracolare che decretavano il destino ineludibile delle due parti antagoniste in questo tipo di contesa arcaica. L’oracolo si pronunciava su un contenzioso ripercorrendo tutte le condizioni poste a reggere ogni sacra ordalia. Il suo giudizio non poteva limitarsi all’elargizione di una semplice punizione individuale, ma doveva andare molto oltre, aveva il compito di sanzionare un destino che superava le responsabilità della singola persona del colpevole ed andava ad incidere anche sulle responsabilità attribuite al ghenos cui apparteneva l’imputato. Perché l’intera società potesse riacquistare l’equilibrio precedente la colpa, era necessario coinvolgere anche il radicamento familiare dal quale il colpevole aveva ricevuto alimento. Alla fine del contenzioso, la cerimonia giudiziaria si concludeva con l’acclamazione finale dell’assemblea che, annotava già Hans Julius Wolff, non si limitava affatto ad approvare un arbitrato inappellabile e già concluso, ma entrava essa stessa nel merito della sacra controversia e con l’elevazione di questa forma di grido rituale manifestava la propria partecipazione attiva alla formulazione del giudizio.

Come si vede, la decisione del giudice impegna un’intera realtà umana11 e la corresponsione dei “due talenti d’oro”, assimilata ad una vera e propria oblazione riparatoria intesa a riequilibrare l’asse della “bilancia” giudiziaria, deve contribuire a riportare l’armonia in tutto il contesto umano alterato. Ricostituisce l’equilibrio originario all’interno della comunità ferita dalla colpa, senza ricorrere ad alcun sacrificio o immolazione perché è lo stesso giudizio ad aver assunto la conformazione di un rituale. La situazione complessiva raffigurata dalla scena omerica induce a pensare che i premi elargiti dal giudice ai vincitori tendevano a ricostruire un ordine e un ritmo alterato, restituivano l’armonia ad un’intera società che la colpa appena giudicata aveva reso incerta, smarrita, piena di disordine: i premi non venivano corrisposti per il loro eventuale valore commerciale, ma costituivano veri e propri segni “pre-monetari” che dovevano veicolare simboli sacri e “qualità divine” radicate in una dimensione rituale.

È lo stesso schema sacro conservato nell’arcaico gioco di quella primordiale scacchiera che Omero tratteggia nell’Odissea, là dove viene ricordato l’uso di una specie di “tavola”/scacchiera forse ordinata attorno a tre quadrati concentrici. Il suo significato rituale continuò ad essere ben conosciuto anche al tempo di Platone (Resp. 333B e 374C) quando il Filosofo ateniese ricordava il valore attribuito dai Greci alla “gettata” dei dadi/pedine su questa straordinaria “tavola” per interrogare il volere degli dèi12. Sembra persino che almeno sul piano strettamente simbolico (e certamente non filologico) il termine δίκη, “giustizia”13, possa considerarsi solidale col verbo δικεῖν, “gettare”. Come si vede, la simbologia che sostanziava il rapporto ancestrale giustizia-gioco è chiara ed emerge da un contesto essenzialmente sacrale: ogni “gettata” dei dadi determinava un’intera realtà spirituale, fissava un destino e dava origine ad un sistema di regole strutturate sui medesimi ritmi che ordinano lo scorrimento del mondo.

Potrebbe sembrare strano quest’uso sacrale dei dadi, ma la loro stessa esistenza e la speciale configurazione rimanda a situazioni cosmiche primordiali, quando ancora sugli dèi e sugli uomini regnava il dio Saturno al quale la geometria ellenica di ogni tempo (ma anche astronomi di formazione “pitagorica” come Keplero) non solo assegnava la signoria sul quadrato e sul cubo, ma lo considerava il sovrano di un’epoca antichissima nella quale il lentissimo movimento celeste poteva essere determinato dalla “lettura” del sistema simbolico e dai segni che scaturivano dalla sua stessa dimensione primordiale. È un’esperienza spirituale particolare che assume il mondo manifestato come una realtà permeata totalmente di simboli e coincidente per molti aspetti con la sua stessa dimensione ideale. Di questa realtà l’indovino ritiene di poter comprendere e penetrare l’espressione più intima ed essenziale, quella dalla quale procede la “forma formante” che ha dato consistenza al cosmo. L’alterno scorrere degli eventi naturali viene colto così come una particolare ierofania che il veggente può cogliere nel momento in cui riesce a “leggere” il significato dei simboli e dei segni che essa stessa rivela agli uomini.

Perciò il gioco faceva parte dello stesso sostrato spirituale dal quale si è originato il “pre-diritto”14 la cui precisa formulazione apparteneva alle competenze di un arcaico veggente-indovino. Dalla congiuntura temporale nella quale si svolge il rituale, dal movimento dei dadi scagliati dall’operatore, dalla traiettoria disegnata, dal numero scaturito nella “gettata” e dalla stessa posizione assunta definitivamente dai dadi/pedine su un tavolo da gioco che simboleggiava la “tavola cosmica”, il veggente doveva interpretare prima il significato sacro di quella “gettata”, poi i riferimenti celesti sottesi e infine doveva arrivare a formulare le “regole di giustizia” (themistes) sulle quali si ordinava la vita del singolo interrogante, la strutturazione sociale e i rapporti fra i cittadini delle antiche pōleis.

  1. Cfr. M. Corsano, Themis. La norma e l’oracolo nella Grecia antica, Galatina 1988; J. Rudhardt, Thèmis et les Hôrai. Recherches sur les divinités grecques de la justice et de la paix, Genève 1999, cap. I, dedicato interamente a Themis.[]
  2. Cfr. in generale L. Gernet, Diritto e prediritto nella Grecia antica, in Id., Antropologia della Grecia antica, Milano 1983, pp. 180-183, che segue essenzialmente H. J. Wolff, The Origin of Judicial Litigation among the Greeks, “Traditio”, 4, 1946, pp. 31-87. Vd. anche J. Rudhardt, Thèmis et les Hôrai, cit., p. 117.[]
  3. Cfr. l’importante I. N. Svoronos, Les talents d’or homériques, “Revue Belge de Numismatique”, 64, 1908, pp. 433-450, che nonostante il tempo trascorso non ha perso nulla della freschezza originaria e si appoggia, fra gli altri, all’importante W. Ridgewey, The Omeric Talent, its origin, value and affinities, “Journal of the Hellenic Studies”, VIII, 1887, pp. 133-157.[]
  4. Rinviamo al recente N. D’Anna, Sapienza sacra ed esperienze estatiche, Cenacolo Adytum, Trento 2014, cap. III (“Fabbri e metallurghi”) ed ivi ricca bibliografia.[]
  5. W. Ridgewey, The Origin of metallic Currency and Weight Standards, Cambridge 1892, pp. 216 e sgg.; Id., The Omeric Talent, cit., pp. 133 e sgg.[]
  6. H. Winkler, La cultura spirituale di Babilonia, Roma 2004; A. Jeremias, Handbuch der altorientalischen Geisteskultur, Lepzig 1913.[]
  7. Sulle implicazioni cosmico-astronomiche di questi dati omerici cfr. N. D’Anna, Il Gioco Cosmico. Tempo ed eternità nell’antica Grecia, Mediterranee, Roma 2006, pp. 33-40.[]
  8. Rinviamo alle ampie analisi fatte da E. Hahn, Alter der Wirtschaftlichen Kultur der Menscheit, Winter, Heidelberg 1905; Id., Der Haustiere und ihre Beziehungen zur Wirtschaft des Menschen, Leiupzig 1896; Id., Demeter und Baubo, Lübeck 1896.[]
  9. Uno studio utile è quello di J. Gagé, La balance de Kairos et l’épée de Brennus. A’ propos de la raçon de l”aurum gallicum” et de sa pesée, “Revue Archéologique”, 1954, pp. 141-176.[]
  10. Cfr. K. Latte, Heiliges Recht. Untersuchungen zur Geschichte des sacralen Rechtsformen in Griechenland, Tübingen 1920, (cap. II: “Die Strafen”), pp. 48 e sgg.[]
  11. In generale, sul simbolismo spirituale del gioco, resta utile A. K. Coomaraswamy, Lîla, “Journal of American Oriental Studies”,1941, pp. 98-101; Id., Play and Seriousness, “Journal of Philosophy”, 1942, pp. 550-552; G. G. Filippi, Alcune note sulla nozione di līlā, “Atrium”, 4, 2015, pp. 40-53. Sono importanti gli studi di E. Benveniste, Il gioco come struttura, “Aut-Aut”, 337, 1946, pp. 123-132; M. P. Nilsson, Würfelorakel επὶ Σκίρᾡ, “Archiv für Religion”, XVI, 1913, pp. 88-91; A. G. Van Hamel, The Games of the Gods, “Archiv für Nordisk Filologi”, 50, 1934, pp. 218-242; L. Kurke, Coins, Bodies, Games and Gold, Princeton 1999, pp. 247-298; G. Lentini, Gioco e diritto in Omero, “Gaia”, 12, 2009, pp. 45-68.[]
  12. Sul valore rituale coperto dalla scacchiera presso alcune civiltà tradizionali, H. Lüders, Das Würfelspiel im alten Indien, Berlin 1907; P. Magnone, I dadi e la scacchiera. Visioni indiane del tempo, “I Quaderni di Avallon”, 34, 1995, pp. 73-86. Per il significato simbolico e oracolare dei dadi e degli astragali ritrovati abbondantemente nei siti templari del mondo greco, cfr. F. Heine-Vetter, Würfel- und Buchstabenorakel in Griechenland und Kleinasien, Breslau 1912; R. M. Dawkins, Artemis Orthia, London 1929, p. 179. Sul significato cosmico e rituale della “gettata dei dadi”, cfr. N. D’Anna, Da Orfeo a Pitagora, Simmetria, Roma 2011, pp. 94-97; Id., Il Gioco Cosmico, cit., pp. 36-39; pp. 111-113. Per il rapporto dadi/cicli cosmici in India rinviamo a Id., Considerazioni su René Guénon e la dottrina dei cicli cosmici, “Perennia Verba”, 12, 2012, pp. 110-122, Id., I cicli cosmici, Edizioni Arya, Genova 2023.[]
  13. Su questo termine e i suoi derivati, cfr. J. Rudhardt, Thèmis et les Hôrai, cit., pp. 125 e sgg.[]
  14. Segnaliamo una breve memoria che ha fatto epoca per le prospettive interpretative contenute: L. Gernet, Jeux et Droit, (remarques sur le XXIIIe chant de l’Iliade), “Comptes Rendus de l’Accademie des Inscriptions et Belles Lettres”, 4, 1947, pp. 572 – 574. Cfr. anche G. Lentini, Gioco e diritto in Omero, cit., pp. 45 e sgg.[]