Svāmī Prabhuddhānanda Sarasvatī Mahārāja
8. Commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda
Agama Prakaraṇa
Mantra 4
Svapna sthāna antaḥprājñaḥ saptāṅga ekonaviṃśati mukhaḥ pravivikta bhukta ijaso dvitīyaḥ pādaḥ ǁ
Il secondo pāda è Taijasa, il cui dominio è lo stato di sogno (svapna sthāna), in cui la Coscienza è rivolta agli oggetti interni. Possiede sette membra e diciannove bocche e fruisce degli oggetti sottili.
Quando scambiamo la corda per un serpente, prendiamo erroneamente un saviśeṣam per un altro saviśeṣam; ma quando facciamo l’errore deho’ham (io sono il corpo), allora prendiamo erroneamente il nirviśeṣam per saviśeṣam. Questa è la differenza tra rajju sarpa adhyāsa (sovrapposizione del serpente sulla corda) e ātmānātma adhyāsa (sovrapposizione dell’anātman sull’Ātman). Si tenga bene a mente questo, cioè che è il nirviśeṣam visto come il vegliante e l’universo di veglia. È il nirviśeṣam che appare così, ovvero ci si ritrova a percepire il nirviśeṣam come jīva e jagat: questo è chiamato Vaiśvānara. Il nirviśeṣam visto come vegliante e universo di veglia è chiamato Vaiśvānara o anche Virāṭ. Il nirviśeṣam visto così è da ignoranti (āvidyākam). Lo si chiama jagat, ma la śruti afferma che vegliante e universo di veglia assieme sono chiamati Virāṭ. È la śruti che indica che non si sta vedendo un blocco di cose, ma il nirviśeṣam, come se stessi in quanto individui, e che anche si sta vedendo l’universo. È la relazione vedente-visto, la relazione jīva-jagat e non una relazione inerte, priva di vita; è un Essere visto così. Questa è la visione della śruti. Si dice “sono una forma e vedo altre forme”; la śruti dice che non stai vedendo te stesso come forma o come molte forme, ma che stai vedendo il nirviśeṣam sotto una singola forma, e lo stesso nirviśeṣam come molte forme chiamato universo. Non c’è un processo temporale nel vedere il nirviśeṣam come Vaiśvānara; io trovo me stesso così e questo è chiamato āvidyākam. L’errore è qualcosa in cui ci si trova e, quando si trova se stesso con una forma, avendo davanti l’universo, non si sa di cosa si tratta. Tutto questo è avidyā, è il dominio dell’errore; senza alcun indizio di cosa si tratti, si continua a vivere definendosi un individuo e definendo idam (questo, il mondo) come composto da molteplici oggetti. In quanto individuo fruisco degli oggetti pensando che possono darmi felicità; sono sempre alla ricerca di pienezza. Il nirviśeṣam è la pienezza che è la mia natura, ma io continuo a cercare quella pienezza nel piacere degli oggetti: questa è avidyā. La percezione è altro che l’avidyā descritta. Invece la śruti afferma che è il nirviśeṣam a essere percepito come jīva vegliante e come jagat, universo di veglia. L’avidyā è “io sono un individuo e guardo l’universo”. Lo Śāstra dice invece che non sto guardando le forme, ma sto percependo il nirviśeṣam come fosse jīva e jagat. L’affermazione che è il nirviśeṣam a essere visto come jīva e jagat appartiene alla śruti e su questo argomento non esiste alcun altro pramāṇa. Non si capisce che è il nirviśeṣam a essere visto così; non si possono usare i sensi per vedere quel Fatto, né usare la deduzione per distinguere tra la percezione e l’affermazione della śruti. La percezione è trovarsi in quanto forma a essere un individuo e di trovarsi davanti l’universo; così chiamo me stesso jīva e chiamo l’universo un insieme di cose. È un universo, un mondo fatto di cinque elementi e io non ho alcun indizio per capire quello che sono e quello che esso è; questa è avidyā. Fintanto che non ho un indizio su di me e su ciò che mi sta davanti, continuo a vivere in quella percezione. Non ho una spiegazione sul perché in questo dominio compio azioni buone o cattive per molte ere. E nemmeno so perché in qualche luogo per caso o per qualche buona azione che mi spinge ad altre buone azioni, in una certa vita mi ritrovo jijnasu, quale risultato della purificazione della mente e, come tale, mi trovo un maestro. Si raggiunge ciò solo quando si sarà prodotto un saṃskāra nel corso di molte vite. In tutto ciò c’è una certa grazia dovuta alle proprie preghiere, alle buone azioni, al nitya karma. La grazia di Dio significa solo questo: la grazia delle proprie buone azioni e delle proprie preghiere. Finché non si ha tale grazia, non si potrà perseguire il Vedānta. Puoi imbatterti nel Vedānta come si fa un tuffo nel Gange. Senza la grazia del passato, ci si tuffa nel Vedānta ma poi se ne esce. Se ci si arriva, allora è il risultato degli sforzi compiuti nel passato; perciò, perseguire il Vedānta è diverso dal solo guardare il Vedānta,dargli un’occhiata e per poi lasciarlo.
Si osservi la differenza tra l’avidyā e la śruti. L’avidyā dice che io non sono che una forma. Se non sono una forma non sono nulla; non ho alcun indizio riguardo alla mia vera natura né di quello che vedo. Percepire le cose senza un indizio della loro Realtà, percepire se stessi come individui senza alcun indizio della propria Realtà è chiamato avidyā. Quando non c’è alcun indizio, ci si basa solo sulla percezione. La śruti dice che non stai percependo il limitato come un altro limitato, ma che stai percependo il nirviśeṣam illimitato come jīva. E anche questo (mondo, idam) è il nirviśeṣam che stai percependo. Questo è testimoniato dall’esperienza di suṣupti. Finché non torni sveglio non c’è alcun saviśeṣam e proprio in quel nirviśeṣam inizia la percezione del saviśeṣam. Fra la percezione dello stato di veglia e lo stato di sonno profondo non c’è un’interruzione temporale né spaziale. Non si può confutare ciò che dice il Vedānta!
Nessuna cosa non eterna può mai mancare. L’ieri non ti manca, non di può mancare ciò che è passato. Ti manca il godimento della situazione attuale. I piaceri attuali diventano una cosa del passato e anche i futuri piaceri diventano una cosa del passato. Ciò che diventerà una cosa del passato, anche se non se ne fruisce ancora, non manca, se si ha una corretta visione del tempo. Il non eterno non è mai la nostra necessità, perché se fosse così, dopo aver fruito di piaceri non eterni, la cerca dovrebbe essere conclusa. Il nostro interesse non è negli innumerevoli piaceri non eterni, ma nell’Eterno. Scopri ciò che è necessario e in base a questo, sviluppa la tua capacità: più vedi che l’insegnamento è ciò di cui hai bisogno, più sviluppi la capacità di ricevere l’insegnamento. Quindi, la grazia di una qualche preghiera, di qualche nitya karma, aiuta la persona a perseguire il Vedānta, altrimenti ci si tuffa in esso, ma se ne è presto respinti. Necessario è trovare ciò che si è, non c’è altra necessità. La necessità dell’onda è di trovare se stessa in quanto acqua; fino allora rimane assetata, ricerca l’acqua; bevendo acqua la sua sete non può mai essere appagata. La sua sete scompare scoprendo di essere acqua. Si vuole godere guardando se stessi come qualcosa di diverso dalla felicità; se si scopre che la felicità di cui si vuole godere, è la propria natura, allora la pace, la serenità e la Coscienza sono la propria natura. Se si è la propria natura, non si può essere i fruitori di essa; per poter fruire di qualcosa si deve avere il senso di divisione tra sé e ciò di cui si vuole fruire. Non c’è alcun senso di divisione, ma finché si prova questo senso non si può godere; se io sono la pace, allora ne posso godere. Se scopro di essere la serenità posso solo essere sereno. Solo quando scopre di essere acqua, l’onda è libera dalla sete. Fintanto che si pensa che la pace è qualcos’altro e che essa verrà da questo o da quello, si continuerà a essere assetati, si continuerà a volere di più e il desiderio per qualcosa di più non finisce mai. La serenità, invece, è assoluta, è libera dal tempo, libera dalla forma perché non si può avere niente di più dell’Assoluto. Quindi, con il supporto della grazia dovuta ai propri meriti passati, alle proprie preghiere e al proprio nitya karma passato, si persegue il Vedānta e si vede la differenza tra avidyā e ciò che dice lo śāstra. Avidyā è vedere se stessi come individui e vedere l’universo senza alcun indizio; in mancanza d’un indizio, ci si continua a dibattere in questo campo di percezione. Si nasce e si muore in questa percezione senza inizio e si fruisce di questa percezione senza inizio. Si è sottoposti a tutti i tipi di sofferenza, ma la śruti dice che “non si sta vedendo una forma come forma; si sta vedendo il nirviśeṣam come fosse un individuo; la verità di se stessi e dell’universo è il nirviśeṣam, perché è nel nirviśeṣam in cui inizia il pensiero dell’individualità e dell’universo”. Questa è la dottrina.
La veglia non è un mondo, è uno stato della mia percezione della Realtà, è Ātma avasthā, è uno stato di mia percezione della verità; è jāgarita avasthā e avasthā è sempre in forma di percezione, è uno stato. Per esempio, quando una persona beve e si ubriaca, quello è un mondo o è uno stato? È uno stato della sua percezione. Così anche la veglia è uno stato di percezione sul nirviśeṣam, sulla verità. Similmente, anche il sogno è uno stato. È l’Essere che sperimenta i tre stati, che sono sthāna nella verità. Essendo uno sthāna, lo stato di veglia non è nel tempo della veglia: è il tempo della veglia che è nello stato di veglia, come anche lo spazio della veglia è nello stato di veglia. Lo stato non è nel tempo, è il tempo che è nello stato. L’individuo della veglia è nello stato di veglia. Stato significa percezione della verità nella verità, è uno stato nel nirviśeṣam; si sta nel nirviśeṣam in questa percezione. Come il serpente che si vede nella corda, non è nello spazio, è nella corda, è l’errore sovrapposto al Fatto. Proprio come la percezione della veglia sta nella Realtà, così anche la percezione del sogno. Quindi, come il tempo e lo spazio sono nella veglia, lo stato di veglia non è nel tempo, ma il tempo è nello stato. Ciò significa che gli stati non sono nel tempo, ma sono io che li colloco nel tempo. Si mette lo stato di veglia nel tempo della veglia? Questa è una confusione. Se lo stato di veglia fosse nel tempo della veglia, lo stato di sogno sarebbe nel tempo del sogno. Lo stato di sonno profondo, invece, non è in nessun tempo. Allora, come si mettono in connessione tutti e tre, come diventano una sequenza? I tre stati non sono in nessun tempo, i tre stati sono nel nirviśeṣam, nella Realtà. È il nirviśeṣam che è visto come stato di veglia e, nella veglia, è chiamato jāgarita kāla. Il tempo, lo spazio e gli eventi della veglia sono tutti racchiusi all’interno dello stato(avasthā antargataḥ). Similmente lo stato di sogno non è nel tempo della veglia, lo stato sogno non è nel tempo del sogno, ma il tempo del sogno è nello stato di sogno. Tuttavia, dopo essersi svegliati, si mettono i tre stati nello stato di veglia; ma questa è una confusione. Li si mette uno prima e l’altro dopo, creando così una sequenza nel tempo, mettendo i tre stati nel tempo della veglia. Ma nemmeno lo stato di veglia è nel tempo della veglia e, ovviamente, neanche lo stato di sogno è nel tempo della veglia; e neppure il sonno profondo, che è libero dal pensiero, è nel tempo della veglia. Ma si suole metterli tutti e tre nel tempo della veglia. Dapprima si deve capire che si è sotto l’incantesimo della confusione sulla verità. Ogni jīva subisce questa suggestione perché guarda i tre stati come una sequenza nel tempo. Crea una sequenza di vita e di morte nel tempo. Ma la vita non è nel tempo, il tempo è nella vita e, ovviamente, la morte non è un evento nel tempo. Se non è nel tempo, come si può creare una sequenza? Perciò è l’uomo che fa confusione sulla verità; può anche essere una persona intelligente e acuta nel mondo, ma non ha alcun indizio sulla sua propria esistenza. Il svapna sthāna significa colui che percepisce il sogno nella Realtà. L’uomo comune pensa che la veglia sia esterna e il sogno interno. La śruti, assumendo il pensiero di quest’uomo dice che la veglia è esterna e il sogno è interno; così, in quanto sognatore è cosciente dell’interno (antaḥprajña) e questa interpretazione (anuvāda) è accettata. Accettando il punto di vista umano della veglia e del sogno, la śruti dice che si è bahiṣprajña quando si ha la percezione esterna e antaḥprajña quando di ha quella interna. Ma, in realtà non è né interna né esterna: è percezione nel nirviśeṣam. Interno ed esterno sono termini spaziali. La veglia è oggettivata e così anche il sogno, e non c’è differenza tra loro. Si potrebbe obiettare che il sogno cambia ogni notte, mentre la veglia rimane. Ma questo è ciò che si pensa in veglia; anche il sogno sembra veglia e se lì si parla del sogno, si dice che il sogno cambia e che quella veglia rimane. Quindi, ogni qualvolta qualcosa appare come reale, è detta veglia e il senso di realtà è chiamato stato di veglia. Quando si sta sognando, anche lo stato di sogno appare con un senso di realtà, perciò è veglia. Dopo essersi svegliati, lo si chiama sogno; lo si descrizione come sogno dopo che ci si è svegliati. Durante la percezione del sogno non lo si definisce sogno, lo si vede con un senso di realtà; quindi, tra la veglia e il sogno non c’è differenza. L’uomo pensa che ci sia una certa differenza, ma la śruti lo nega. Se si vede il serpente nella corda, chiamiamolo pure stato di veglia; ma se si chiudono gli occhi alla percezione esterna e si vede il serpente nella mente, qual è la differenza? Se si aprono gli occhi è un errore, se si chiudono gli occhi e lo si ricorda, è anche un errore; si sta vedendo il serpente che non c’è o, piuttosto, si sta vedendo la corda che c’è in forma differente. Quindi, l’antaḥprājñatvam accetta l’anuvāda, l’interpretazione. Accettare l’anuvāda significa prendere per certo che la visione dell’uomo è esterna e il sogno è interno. Questo pensiero del jīva è usato dalla śruti, ma ciò non significa che sia accettabile; è usato solo per far capire, perché talvolta è meglio parlare con il linguaggio ordinario, cioè l’anuvāda. Come vegliante si è bahiṣprājña e come sognatore si è antaḥprājña. Poiché il nirviśeṣam è visto sia come vegliante sia come universo di veglia, il vegliante e l’universo non possono essere separati: è un blocco unico. Non si può sperimentare lo stato della veglia senza avere la percezione del mondo di veglia. Anche il cieco è relazionato alla forma, non la vede ma ha relazione con essa. Pensa che ci sia un albero, un palo; ciò significa che è relazionato al pensiero di oggetti in relazione ai suoni, ai gusti, al tatto all’odorato. Se tutti i cinque sensi se ne sono andati, allora è morto. Così si può dividere la veglia e il vegliante, ma se non si ha alcuna percezione, non si può percepire se stesso come un individuo. Quando tutte le cinque percezioni determinano il proprio senso d’individualità, determinano anche l’indivisibilità dal mondo; è l’unica Realtà vista sia come vedente sia come visto. Perciò si è saptāṅga, non si è confinati alla forma del sogno, si comprende lo stato di sogno. Questo è ciò che è implicito nella parola saptāṅga che è proprio un termine dirompente. Se si fosse solo confinati a questa forma e il mondo fosse qualcosa di parallelo e, poi, si affermasse di essere il nirviśeṣam, allora questo mondo diventerebbe parallelo al nirviśeṣam. La nostra conclusione è che siamo confinati, mentre la nostra esperienza è che siamo comprensivi. Ciò di cui si è consapevoli rientra nel proprio campo, nel proprio essere; è il proprio Essere. Il calore del fuoco è il suo essere, il calore è la natura del fuoco, non è una qualità marginale, non è in un qualche angolo del fuoco: l’intero fuoco è calore. Tutta la nostra esistenza è Essere cosciente e qualsiasi cosa si veda ricade nella propria vista cosciente. Perciò quello che si sperimenta è il proprio essere comprensivi, mentre ciò che si conclude è l’errore di essere limitati. C’è un senso di limitatezza, ma questo non cambia l’esperienza. L’errore non cambia l’evidenza del Fatto. Qui il punto è che il senso di limitatezza non pregiudica l’esperienza della comprensibilità, perché anche il senso di limite sta nella Coscienza; anche la conclusione di limitatezza ricade nella Coscienza. Tutto deve ricadere nella propria visione cosciente. Quindi, come comprensivo di tutto, questa esperienza di essere comprensivi ci rende saptāṅga. La parola saptāṅga significa che non si è un piṇḍātman; piṇḍātman significa limitato, invece tu sei comprensivo, tu sei Essere, l’intero stato di veglia è saptāṅga. Nello stato di veglia non sei confinato al corpo della veglia, come comprensivo dell’intero stato di veglia sei saptāṅga, Vaiśvānara. Come comprensivo dell’intero stato di sogno sei Taijasa; Taijasa significa Hiraṇyagarbha. Abbiamo considerato tre parole. Il sognatore è chiamato svapna sthāna; il sogno è uno stato sperimentato dall’Essere cosciente nel nirviśeṣam. È antaḥprājña e, lo stato di veglia in paragone è visto come esterno. Lo stato di sogno è descritto dalla śruti come antaḥprājña e l’essere cosciente che sogna non è confinato al corpo del sogno, è comprensivo dell’intero stato di sogno. Qualsiasi cosa sogni, ricade nella tua vita cosciente. Ciò che è visto nel mondo della veglia ricade nella vista cosciente; e anche quello che hai sognato ricade nella vista cosciente. La quarta parola è ‘diciannove aperture’ (ekonaviṃśati mukha). Lo stesso nirviśeṣam è percepito come avente diciannove facoltà. In quanto vegliante, si hanno diciannove facoltà: cinque prāṇa, cinque karmendriya, cinque jñānendriya, manas, buddhi, ahaṃkāra e citta. Ekonaviṃśati mukha è colui che ha diciannove porte. Nelle diciannove porte ci sono alcune facoltà di azione, alcune facoltà di percezione, alcune facoltà di vitalità (prāṇa, apāna, samāna, ecc.), che sono tutti punti di energia vitale, più la mente, l’intelletto, la memoria e il senso dell’individualità, cioè ahaṃkāra; si considera un mukha anche ahaṃkāra sebbene sia un pratyaya (un’idea) e non una facoltà. Tutte le facoltà presuppongono l’idea di essere un deha (corpo). Essere deha è adhyāsa; ahaṃkāra è adhyāsa.
Pravivikta bhuk, il sognatore fruisce degli oggetti sognati, come il vegliante fruisce degli oggetti della veglia. Pravivikta significa sukṣma, sottile; in realtà, non c’è sottile e grossolano. Quando si fa una comparazione tra loro, allora appare sottile o grosso. Non si può paragonare il mondo del sogno con il mondo della veglia, solo nello stato di veglia si fa il paragone. Il sogno sembra veglia, ma non c’è alcuna veglia, alcun sogno o qualcos’altro: è un senso di realtà. Quando si è svegli ogni cosa sembra reale e anche in sogno ogni cosa sembra reale. Quando vedo la corda come serpente, c’è un senso di realtà e quando c’è questo senso di realtà lo si chiama veglia e, retrospettivamente, dopo aver saputo che non è un serpente, ma è una corda, si dice “L’ho solo sognato. Ho solo sognato un serpente nella corda”, ma non si può mai dire “lo sto sognando”.