6. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: śrāvaṇa
L’argomento di questo e dei prossimi capitoli riguarda la spiegazione del metodo usato nell’Advaita Vedānta per realizzare la conoscenza intuitiva ricevuta ascoltando (śrāvaṇa) l’insegnamento orale (upadeśa) da parte d’un guru, e indagata per mezzo della riflessione (manana) intellettuale dell’aspirante alla Liberazione, del mumukṣu. Quella conoscenza, che all’inizio appare quasi fosse soltanto di natura dottrinale, consiste nella certezza che la propria vera essenza, l’Ātman, è lo stesso Principio supremo, il Brahman. Tale spiegazione non è facile da proporre poiché, anche se esposta nei termini più piani, riguarda il più profondo mistero che l’intelletto umano possa affrontare. Con mistero, ovviamente, non s’intende qualcosa impossibile da capire, ma una verità che non è trasmissibile se non a coloro che hanno le qualifiche e la determinazione valide per indagare e fare propria la conoscenza metafisica (pāramārthika vidyā). Il metodo (sādhanā) del Vedānta, come si vedrà di seguito, è ben diverso da quello in uso presso tutte le altre vie iniziatiche (sādhanā mārga) in quanto prevede la preliminare identificazione dell’Ātman dell’iniziato (sādhaka) con il supremo Brahman. Identificazione inizialmente sperimentata tramite l’indiscutibile intuizione della propria esistenza e coscienza, generalmente condivisa da tutti. Mentre, però, per l’uomo ordinario questa intuizione rimane priva di qualsiasi effetto, l’iniziato intellettualmente qualificato (adhikārin) vi troverà l’impulso per desiderare ardentemente di liberarsi (mumukṣā) da tutto ciò che impedisce tale Coscienza-conoscenza. Il mumukṣu, in questo modo, sarà portato a formarsi una perfetta conoscenza dottrinale, nella misura delle sue capacità intellettuali, imprescindibilmente raggiunta e consolidata, prima di dedicarsi alla ricerca d’un maestro qualificato alla Conoscenza suprema (paravidyā). Le righe che seguono danno per scontato che il lettore sia già dotato di questa dottrina: la prospettiva che abbiamo adottato, basandosi esclusivamente sulla dottrina vedāntica, non farà perciò appello ad alcunché di teorico, ma alla capacità intuitiva di coloro che desiderassero andare oltre la semplice teoria o la lettura di libri, per quanto possano essere veritieri ed elevati nei contenuti.
Come s’è già descritto in precedenza, con intuizione (anubhava) preliminarmente intendiamo la comprensione istantanea e immediata di aspetti della verità che, proprio perché “aspetti”, appaiono comunque parziali e contingenti. Dovremo perciò distinguere attentamente l’intuizione1 da ciò che si è intuito. Quest’ultimo, infatti, è soltanto un’informazione, un oggetto che è venuto alla conoscenza ed è emerso alla coscienza istantaneamente, ma che è pur sempre della natura delle modificazioni mentali (mānasa vṛtti), essendo soltanto l’impressione dell’esperienza intuitiva nell’individualità. Invece ciò che si dovrà ritenere è l’Intuizione in sé, giacché l’Intuizione in quanto tale è il proprio Ātman anche qualora essa appaia mediata e frammentaria.
D’ora in poi, dunque, con Intuizione (anubhava) o illuminazione (jñānaprakāśa), s’intende l’immediato e improvviso riconoscimento della Verità totale non vista come altro da Sé.
Il metodo del Vedānta è chiamato sākṣāt sādhanā, di solito tradotto come metodo diretto2. La traduzione è abbastanza soddisfacente, in quanto si tratta d’un metodo che non s’appoggia su nulla che possa fare da intermediario tra il sādhaka e la meta prefissata. Quindi, l’advaitin non farà alcun uso di meditazioni, di supporti simbolici, yantra, mantra, tantra, di azioni rituali, corporee, vocali o mentali che siano. L’indagine realizzatrice di questo sādhaka si basa esclusivamente sulla ricerca del Brahman per mezzo del proprio Sé; ma, essendo il Sé di ciascuno sempre identico al Brahman, appare evidente che esso non può consistere in alcun mezzo, supporto, strumento o simbolo. Perciò un metodo immediato non può essere che un metodo diretto. Per spiegare meglio il significato di sākṣāt sādhanā aggiungeremo che l’indagine sul Brahman o, se si preferisce, la cerca del Brahman, è compiuta dal proprio Ātman inteso come Sākṣin, vale a dire il Testimone diretto. A questo proposito ricordiamo la dottrina dei quattro pāda di Ātman, laddove è detto:
Il primo pāda [di Ātman] è Vaiśvānara, il cui dominio è lo stato di veglia, che ha conoscenza degli oggetti esterni, che possiede sette membra e diciannove bocche, e che fruisce delle cose grossolane.
Il secondo pāda [di Ātman] è Taijasa, il cui dominio è lo stato di sogno, che ha conoscenza degli oggetti interni, che possiede sette membra e diciannove bocche, e che fruisce delle cose sottili.3
Ātman, in quanto prende coscienza sia degli oggetti esterni sia di quelli interni, è il testimone oculare (Sakṣin4) dei mondi della veglia e del sogno5. Il Testimone è l’Ātman in quanto ha coscienza, o meglio, è la Coscienza della manifestazione universale. È dal proprio Ātman in quanto Testimone che inizia la cerca del Brahman. Ritorneremo su questo argomento più avanti, specificando con più precisione il senso di questo “inizio”. Questa digressione è stata necessaria per spiegare fin d’ora che la sākṣāt sādhanā deve essere intesa come il metodo del Testimone, del Sākṣin.
La sādhanā insegnata dall’Advaita Vedānta offre tre occasioni in cui è possibile ottenere la conoscenza diretta del Sé, chiamati śrāvaṇa, l’ascolto, manana, la riflessione e nididhyāsana, detta anche adhyātma yoga, la contemplazione attenta.
Cominceremo a considerare per primo śrāvaṇa. Il discepolo (śiṣya) dovrà ascoltare gli insegnamenti basati sulle Upaniṣad di un guru competente, o di un istruttore spirituale, qualora il suo guru non detenesse la conoscenza del Supremo6. Durante l’ascolto dell’insegnamento (upadeśa), affinché la comprensione di ciò che ode sia proficua, ci si aspetta che il sādhaka faccia riferimento non alla dottrina precedentemente appresa dai libri, che rimane come un retroterra già acquisito, ma alle esperienze intuitive che gli sono stimolate dall’insegnamento del guru. Per questa ragione il guru o istruttore spirituale deve necessariamente essere un adepto stabilmente fissato nella sua reale natura del Sé. Altrimenti il maestro non sarà capace di inserire nel suo insegnamento quegli stimoli e allusioni sottili capaci di indurre il discepolo all’intuizione.
Il maestro che dà questo insegnamento, che alcuni, pur avendo capito, non realizzano, che molti, pur avendo ascoltato, non capiscono, è un prodigio. È ugualmente un prodigio chi, avendo ascoltato e realizzato sotto la guida di un maestro che conosce, sia diventato un conoscitore.
[L’Ātman] non è affatto comprensibile quando è insegnato da un uomo che non ne è all’altezza. Per questo su di Esso si costruiscono teorie così diverse. Ma quando è insegnato da chi si è identificato a Quello (tat), non c’è più spazio per alcuna teoria, perché Esso è più sottile di quanto più sottile si possa immaginare.7
Śaṃkara, commentando in modo particolare il primo dei due śloka qui citati, ha esposto in profondità sia la natura dell’insegnamento sia i suoi risultati. In sintesi, il pensiero di Śaṃkara può essere riproposto in questo modo: durante l’ascolto dell’insegnamento da parte del guru, il sādhaka apprende che la sua vera natura è il Sé sempre libero dall’esperienza della vita ordinaria. Egli deve aver già risolto tutti i dubbi e compensato tutte le lacune della sua conoscenza dottrinale. Dovrà comprendere che oltre alla Conoscenza del Brahman-Ātman non può rimanere alcun residuo di qualsiasi altra “conoscenza”. Infine non ci potrà essere più alcun problema o dubbio che s’interponga alla conoscenza o comprensione circa la natura del Sé. Perciò il maestro deve essere competente e il discepolo (śiṣya) deve essere qualificato (sukalpa), puro di cuore e con l’attenzione rivolta al suo interno.
A questo punto è opportuno che il jijñāsu, colui che aspira alla conoscenza, s’abitui a vedere il mondo da una prospettiva rovesciata rispetto a quella mantenuta fino allora. Si tratta di qualcosa paragonabile a ciò che intendeva l’Ermetismo medievale con la formula del “rovesciamento delle luci”. La gente ordinaria crede di essere nata in questo mondo in un tempo e luogo particolari, ed estende questa credenza all’idea che anche tutti gli altri esseri siano nati in questo mondo segnato dalle medesime condizioni d’esistenza. Ognuno pensa anche d’essere questo individuo, nato e cresciuto per fruire del piacere e soffrire del dolore fino all’avvento della morte. Tutti costoro sono convinti che prima della propria nascita il mondo esistesse già e che anche dopo la morte il mondo continui a esistere eternamente. Ma, secondo gli insegnamenti vedāntici, per prima cosa il cercatore della Conoscenza (jijñāsu) deve riconoscere che il suo proprio Essere totale (samasta sattā) è al di là della sensazione che esista un “io” contingente. Egli dovrà porsi dal punto di vista della sua propria natura reale, cioè del Sé. In questo modo può rendersi conto di non appartenere allo stato di veglia come se questo fosse obiettivamente reale, ma che è lo stato di veglia nella sua totalità che appare al suo Essere totale. Nello stato di veglia sono contenuti sia il suo “io” (aham) sia l’intero mondo di veglia (jagat o jāgrat prapāñca), ivi comprese anche le idee illusorie di spazio infinito e tempo eterno, l’idea della relazione causale (kāraṇa-kārya saṃbandha) e altri condizionamenti (upādhi) ancora. Mentre sta ad ascoltare l’insegnamento del guru, il sādhaka inevitabilmente prova intuitivamente l’identità con la sua vera natura di Sé, fosse anche per un solo istante, e ciò interrompe la sua convinzione d’essere identico all’“io”. Egli allora s’accorgerà chiaramente che riconoscere l’identità con il Sé e rimuovere la sua identità con l’ego sono la medesima cosa e non due funzioni separate. Dal punto di vista del Sé, ossia dopo aver stabilito la coscienza nel proprio Essere, egli si renderà conto come tutte le sue credenze precedenti fossero idee sbagliate. Śaṃkara nel suo Māṇḍūkya Upaniṣad Bhāṣya descrive in questo modo il risultato dell’insorgere della conoscenza:
Il fine [della discriminazione per mezzo del neti neti] è quello di dimostrare che l’intero microcosmo, il Macrocosmo, assieme al mondo corporeo composto dai cinque elementi contribuiscono a costituire i quattro pāda 8. Se si osservano le cose sotto questa luce, con la rimozione del mondo fenomenico nella sua totalità, la non dualità emerge evidente; e anche il Sé, che esiste in tutti gli esseri, è concepito come un tutt’uno, mentre tutti gli esseri sono visti come esistenti nel Sé.9
A questo proposito si devono fissare alcuni punti:
– Il primo è che i concetti di spazio e di tempo sono inclusi nello stato di veglia (jāgrat avasthā). Perciò lo stato10 (avasthā) in quanto tale non è sottoposto a spazio e tempo perché queste condizioni gli sono interne.
– Il secondo punto fermo è che il Sé, che è il sostrato di tutti i fenomeni dello stato di veglia, è anch’esso al di là del tempo e dello spazio; perciò è sbagliato affermare che il Sé è una cosa e lo stato è un’altra cosa.
– Altro punto fermo: il Sé è di natura onnipervadente e quindi permea tutti i fenomeni dello stato di veglia. Da ciò si trae che la natura del Sé è non duale e assoluta, ma a causa dell’ignoranza della propria natura reale, lo stesso Sé appare all’individuo (jīva) come mondo della veglia (jāgrat prapañca).
– Infine, è evidente che se il risultato, menzionato da Śaṃkara nella citazione precedente, è raggiunto mentre il discepolo (śiṣya) sta ascoltando l’insegnamento del maestro, egli potrà facilmente vedere intuitivamente l’intero universo in Sé e il Sé nell’intero universo. A questo punto il sādhaka riconosce che la sua vera natura è eternamente libera dalle miserie del mondo. Questo è un esempio dell’insegnamento vedāntico e dei suoi risultati.
Svāmī Satcitānandendra Sarasvatī ha ripristinato con autorevolezza i concetti śaṃkariani espressi nel Māṇḍūkya Upaniṣad Bhāṣya, secondo cui tempo, spazio e causalità devono essere considerati all’interno dello stato (avasthā), indifferentemente che si tratti di quello di veglia o quello di sogno. Perciò la vera natura del Sé è fuori di ogni dubbio al di là delle condizioni di tempo, spazio e causalità.
Prima di questa netta presa di posizione dello Svāmījī, numerosi pseudo advaitin avevano sostenuto che per l’individuo vivente gli stati di veglia, sogno e sonno profondo11 si avvicendano nel corso di una giornata. Questa affermazione comporta l’opinione per cui il Sé dipende dal corso “eterno” del tempo, perpetuando la sua esistenza attraverso tutti e tre gli stati come se l’Ātman fosse un saṃsāri. Persino Vidyāraṇya afferma questa dottrina errata, per cui l’Ātman sperimenterebbe il corso del tempo!12 Sempre secondo l’opinione di questo celebrato maestro, per fare esperienza della natura non duale dell’Ātman, dopo aver seguito śrāvaṇa, manana e nididhyāsana, si dovrebbe ricorrere all’uso del pātañjala yoga per raggiungere finalmente il Sé nel samādhi; questo, naturalmente, perché, secondo il suo parere, la mera discriminazione non permetterebbe di ottenere la conoscenza del Sé.13
Svāmī Satcitānandendra si è preoccupato di rettificare quel suo predecessore del XIV secolo. Egli, infatti, ha stabilito definitivamente che il Sé non può essere oggetto di sperimentazione per mezzo della discriminazione (viveka) e che l’Ātman non è né può mai essere considerato un oggetto di conoscenza. Si deve intendere, perciò, che la funzione della discriminazione si limita a rimuovere l’ignoranza (avidyā), permettendo all’Intuizione universale di emergere immediatamente. Ancora al giorno d’oggi, per influenza del neo-nyāya e della filosofia occidentale, viveka è preso spesso come se fosse un mero esercizio speculativo. Con ciò se ne confonde completamente il senso, perché la discriminazione vedāntica è usata per separare la reale natura del Sé dal senso dell’“io”. Perciò è evidente che il Sé non può essere raggiunto in alcuno stato particolare né sotto qualsiasi condizionamento. Ciò è stato inconfutabilmente definito da Śaṃkara con queste parole:
L’identità dell’Ātman e del Brahman com’è dichiarata dal [mahāvākya] Tatvamasi, [“tu sei Quello”], non è raggiungibile in nessuno stato particolare.14
Così un discepolo (śiṣya), qualora sia molto qualificato, potrà raggiungere la meta finale anche soltanto attraverso śrāvaṇa; in altre parole, solo ascoltando l’insegnamento del maestro costui può essere in grado di realizzare l’Intuizione finale. Ciò significa che l’ascolto vedāntico non è apprendimento passivo, ma contemplazione intuitiva; in questo modo s’avvera l’identificazione tra guru e śiṣya in un unico maestro interiore non duale. E, come colui che avvicina un guru di Vedānta non può né deve compiere alcun rito, così per quello śiṣya che, per sue qualifiche innate, ha identificato il suo Sé con il Brahman, è del tutto inutile la ripetizione di śrāvaṇa; per lui la liberazione dall’ignoranza è definitivamente compiuta.
Quando qualcuno conosce che la sua reale natura è l’Ātman, acquista una incrollabile certezza che è chiamata Ātmā pratyaya, consapevolezza del Sé,
[…] la cui prova evidente consiste nella semplice consapevolezza del Sé, per mezzo della quale tutti i fenomeni scompaiono, e che è immutabile, beato e non duale. Quello è l’Ātman, Quello che deve essere conosciuto.15
Ci si può “collocare” nella propria natura reale solamente tramite questo Ātmā pratyaya che affiora dall’ascolto delle parole del maestro, ed esso è dunque della natura stessa dell’intuizione, cioè del Brahman. Perciò, lo ripetiamo, conoscere il Sé significa essere il Sé, essere coscienti in quanto Sākṣin, e così cessa totalmente l’identificazione con i non-Sé. Lo śiṣya demolisce così l’apparenza del mondo duale e, quindi, permane nella sua realtà non duale. In seguito non ci sarà più alcuna domanda per sapere alcunché, né aspirazione per qualcos’altro che sia sottoposto alle condizioni (upādhi) di spazio e tempo, come pure non sarà più possibile imbattersi in altro che ostacoli la Sua conoscenza.
[…] quando, dopo l’eliminazione delle limitazioni sovrapposte [adhyāsa], è rimosso il desiderio di conoscere qualsiasi cosa nel tempo e nello spazio, egli realizza la propria identità con il Brahman, la verità delle verità, omogeneo come un granello di sale [sciolto nell’acqua], pura intelligenza senza nulla d’interno o di esterno a Lui. Per costui ogni desiderio di conoscenza è appagato, il suo intelletto è puntato solamente su Quello.16
- Più avanti si ritornerà a parlare dell’intuizione parziale. In realtà parziale è soltanto la modificazione mentale, vṛtti, che è il risultato dell’intuizione. Questo per quanto riguarda il Vedānta, in quanto nello Yoga darśana con anubhava s’intende sempre e soltanto il risultato mentale dell’Intuizione universale.[↩]
- Sākṣin è un termine giuridico che significa testimone oculare, e designa chi ha visto o sperimentato direttamente, non essendo a conoscenza “per sentito dire”. In questo senso sākṣāt significa esperienza o visualizzazione diretta, priva di intermediazione.[↩]
- MāU I. 3-4.[↩]
- Si vedrà in seguito che il Sākṣin è identico a suṣupti, che, in apparenza illusoria, corrisponde al terzo pāda.[↩]
- Il mondo della veglia, jāgrat prapañca, e l’uomo della veglia, jāgrat puruṣa, stanno all’interno dello stato di veglia, jāgrat avasthā, poiché quest’ultimo è uno stato di coscienza dell’Ātman che tutto ingloba.[↩]
- Con guru s’intende il maestro che conferisce l’iniziazione. Qualora, come d’altronde spesso succede, il dīkṣāguru non fosse in grado di insegnare la conoscenza del Supremo Brahman, il discepolo che aspira alla Liberazione si dovrà rivolgere a un altro maestro dotato della Parabrahmam vidyā. Quest’ultimo non conferirà alcuna altra iniziazione, essendo già quel discepolo un dīkṣita; perciò quel maestro dovrà essere più propriamente considerato un istruttore spirituale (jñānaguru). Ovviamente, se l’aspirante fosse ancora un profano e il maestro di conoscenza del Supremo gli desse l’iniziazione, in questo caso quest’ultimo dovrà essere anche considerato un dīkṣāguru. Cfr. René Guénon, Initiation et réalisation spirituelle, Paris, éd. Éditions Traditionnelles, 1967, ch. XXI.[↩]
- KU I. 2. 7-8.[↩]
- Vale a dire che la concezione che esista una divisione in quattro pāda di Ātman dipende dall’incapacità della mente (antaḥkāraṇa) di liberarsi dall’illusione della differenziazione a causa dell’ignoranza (avidyā o ajñāna). Più avanti spiegheremo cosa s’intenda con adhyātma prapañca, adhidaiva prapañca e adhibhūta prapañca.[↩]
- MāUGKŚBh, I. 3.[↩]
- In MāU è usato il sinonimo sthāna. In tal caso, in luogo di jāgrat avasthā, si trova la forma jāgarita sthāna.[↩]
- Ciò è assurdo, perché il tempo del sogno non è lo stesso di quello della veglia; e il sonno profondo è addirittura privo di tempo. Supporre che veglia, sogno e sonno profondo s’avvicendino nel corso della giornata vuol dire imporre ai tre stati la falsa continuità di un medesimo tempo, quello della veglia.[↩]
- Vidyāraṇya, Pañcadaśī, I. 6-7. Vidyāraṇya è considerato da sanscritisti e da pseudo vedāntin (tra questi annoveriamo i vari “svāmī” dell’“Ordine di Ramakrishna”) come la più importante autorità dell’Advaita Vedānta dopo Śaṃkarācārya. Effettivamente Vidyāraṇya ricoperse la funzione di Jagadguru a Śriṅgeri, dove fu maestro di Vedānta e di Śrī Vidyā. Probabilmente queste due discipline usate senza discriminazione furono la causa delle numerose confusioni tra Vedānta e Yoga tantrico che si riscontrano nelle sue opere.[↩]
- Pañcadaśī, I. 53-61. Si noti qui la confusione tra discriminazione metodica (viveka) e conoscenza teorica (vitarka).[↩]
- BSŚBh II. 1. 14.[↩]
- MāUGK I. 7.[↩]
- BUŚBh II. 3. 6.[↩]