Mantra X.90.3
etāvān asya mahimā ato jyāyān ca pūruṣaḥ
pādo asya viśvā bhūtāni tripād asya amṛtam divi
Tutto ciò che vediamo è la sua grandezza; e ancor più grande di questo è Puruṣa.
Tutte le creature sono un quarto di lui e tre quarti è il cielo immortale.
Qualunque cosa sia qui nel mondo fenomenico è solo la gloria del Puruṣa. Ma nella sua propria natura Egli è molto più grande di questo. Tutto ciò che esiste davanti a noi è solamente un quarto della sua natura o maestà, mentre i rimanenti tre quarti sono oltre la nostra percezione, nelle iperuraniche altezze; senza cambiamento, decadenza o morte.
1. etāvān asya mahīma
Così grande è la sua grandezza. L’espressione etāvān presuppone qualunque cosa sia stata detta nel mantra precedente: infatti Puruṣa è sia tutto ciò che è entro le condizioni di spazio e tempo sia tutto ciò che è al di fuori di tale struttura; inoltre è il Signore dell’immortalità (amṛtatva) come anche del mondo fenomenico che si sviluppa grazie a Quello (Tad), di fronte al quale si prosternano tutti gli esseri viventi. In tale espressione è compreso il mondo nel passato, nel presente e nel futuro, il mondo degli esseri viventi e delle divinità di ogni ordine e genere.
Il termine mahimā (o mahiman), che significa grandezza, forza, gloria, maestà o potenza, è derivato da mahat che ha il senso di oltrepassare, eccedere. Sāyana spiega questa grandezza come la caratteristica di Puruṣa (svakīya sāmarthya viśeṣaḥ), e questo lo rende superiore a qualsiasi altra cosa (utkarṣa). Quando tale mahimā è elencata come uno degli otto poteri supremi di un grande Dio come Śiva o Viṣṇu, significa che i quattordici mondi, sette superi e sette inferi, sono contenuti al suo interno. Per coloro che vivono in ognuno di questi mondi, la grandezza di tale Dio è oltre l’immaginazione.
La qui menzionata mahimā include anche le vibhūti (o siddhi, poteri extranormali e misteriosi) e vistāra, la capacità di estensione e di proliferazione. Le prime spiegano la sua personale e unica potenza, mentre il secondo termine indica la sua assoluta autonomia (svātantrya). Nessuna di queste parole, tuttavia, può chiarire sufficientemente la sua natura (svarūpa), che è infinitamente più di questo.
2. ato jyāyān ca pūruṣaḥ
Se questa è la sbalorditiva maestà del Puruṣa, questa, però, non è tutto di lui; c’è molto di più. La sua vera maestà o grandezza è molto più del potere e della gloria percepiti. La parola ataḥ (che significa ‘relativo a quello’, ‘di quello’) si riferisce alla maestà, alla gloria o al potere (mahimnātaḥ) d’essere tutto di questa esistenza universale ed essere, al tempo stesso, il signore di amṛtatva. Come s’è detto prima, la gloria, la maestà o la grandezza del Puruṣa non sono la sua reale natura (svarūpa); sono solo un suo aspetto secondario. Senza dubbio si resta sbalorditi da questa sua gloriosa creazione, ma non dovremmo limitare a ciò la nostra comprensione del Puruṣa. La sua reale grandezza trascende questa creazione.
La Kaṭha Upaniṣad (3.11) ha un mantra che indica una gerarchia: il non manifestato (avyakta) è più alto della fonte della creazione (mahat, Hiraṇyagarbha); e il Puruṣa è più alto del non manifestato. Non vi è nulla al di là di questo Puruṣa che è davvero il Supremo, l’Altissimo.
Il non manifestato è così chiamato perché in esso nomi e forme non sono distinti e differenziati. Il mondo manifestato è caratterizzato da nomi e forme1. Manifestandosi, esso presenta la gloria del Puruṣa. Ma ciò che rende possibile questo è la condizione anteriore dell’iniziale spinta o impulso, metaforicamente paragonata alla volontà dell’individuo. Questa spinta è della natura della tensione che precede l’irradiazione manifestante (sphoṭa); è chiamato mahat, che presuppone lo stato di non manifestazione (avyakta) del tutto privo non solo di nomi e di forme, ma anche di quella stessa tensione o impulso irresistibile. Non ci può essere mahat senza che ci sia avyakta. Solo in questo senso avyakta è detto superiore a mahat. Ma è lo stesso avyakta che si trasforma nel mondo dei nomi e delle forme (etāvān asya mahimā), quando passa a svilupparsi in mahat. A parte ciò, il non manifestato è comunque un aspetto del Puruṣa. Il Puruṣa include l’avyakta, ma non è da esso limitato. In questo senso Egli è superiore ad avyakta. E poiché il Puruṣa comprende non solo tutta l’esistenza fenomenica (idam), tutto ciò che è stato, tutto ciò che è e tutto ciò che sarà, ma anche qualsiasi cosa costituisca l’origine e il sostrato dell’esistenza fenomenica (mahat e avyakta), Egli è ‘il più alto’ (kāṣṭhā) nel senso che nulla può oltrepassarlo o essere al di là di lui. La stessa idea è esposta in un mantra nella Muṇḍaka Upaniṣad:
Da Lui emerge la luce il cui combustibile è il sole. Dalla luna emergono le nuvole e da esse piovono sulla terra il fieno e le granaglie. L’uomo emette il seme nella donna e dal Puruṣa hanno avuto origine tutte le creature. (MuU II.1.5)
L’avyakta nella Kaṭha Upaniṣad è chiamato akṣara: il seme, la sorgente del mondo di nomi e di forme, ma ancora indifferenziato nei nomi e nelle forme (avyākṛta); e quindi indistruttibile e imperituro (akṣara). Possiede vita (prāṇa) e mente (manas) allo stato nascente, quantunque inarticolato e non espresso. Oltre questa condizione non manifestata sta il Puruṣa, assolutamente privo di forma (amūrta, arūpin) e situato nel regno sopra la terra e la regione celeste (divya), la cui origine non può essere investigata (ajaḥ). Egli risiede all’interno di tutte le cose e di tutti gli esseri del mondo manifestato, e anche al di fuori di essi. Egli è, quindi, la realtà trascendente, essendo allo stesso tempo immanente alla creazione.
Sāyaṇa parafrasa così questa concezione: questo mondo fenomenico non è la natura o lo stato supremo del Puruṣa. La sua vera natura è essere sopra, oltre e distinto da esso. È in quello stato in cui Brahman è detto risiedere nella sua gloria (sve mahimni pratiṣṭitaḥ).
3. pādaḥ asya viśvā bhūtāni tripād asya amṛtam divi
Qui è spiegato ciò che era espresso in modo criptico nella seconda metà del primo verso. Tutta questa grandezza, gloria o maestà del Puruṣa, nella forma di questa variegata creazione, non è la sua reale natura o condizione naturale. Allo scopo di illustrare come il Puruṣa sia infinitamente più grande della grandezza del mondo creato, a fine didattico è stato ben specificato da Sāyaṇa l’idea che il Puruṣa ha quattro quarti (catuṣpāttva).
Non si deve però immaginare che il Puruṣa abbia realmente quattro quarti o che la sua grandezza possa essere misurata in questo modo. Che sia costituito di quattro quarti (catuṣpāttva) è solo un concetto. Se noi consideriamo il Puruṣa come composto di quattro parti, tutta questa maestosa creazione ne occuperebbe solo una parte; le altre tre parti, cioè la maggior parte del Puruṣa, sarebbero oltre i limiti delle dimensioni del mondo creato; esse apparterrebbero all’iperuranio, del tutto inaccessibili a noi. Il concetto di pāda serve a illustrarci come il mondo creato sia insignificante se confrontato alla reale natura del Puruṣa. Pāda significa letteralmente un mezzo per muoversi o per procedere (padyate gamyate anena), e si riferisce specificatamente al movimento dei piedi (pāda caraṇa). Nel Ṛg Veda, anche le quattro parti di un mantra sono tecnicamente chiamate pāda (ṛk pāda). Questa era l’origine dell’uso di versi di quattro pāda. Per estensione, ogni cosa che può essere divisa in quattro parti può essere conosciuta come composta di quattro pāda. Tre quarti rappresentano una misura maggiore di un quarto; sono più grandi, più espansi, più potenti (jyāyān). Il pāda è solo una parte di un tutto, un aṃśa o aspetto. Tuttavia, il pāda deve essere considerato qui nel contesto di ati rohati del precedente mantra, e di vyakrāmat del mantra che segue, espressioni entrambe che suggeriscono trascendenza ed espansione. I tre quarti che trascendono il quarto costituiscono un aspetto; e da qui l’espressione ‘tripāt’. Pāda in tal senso significa punto d’appoggio per arrampicarsi, salire o trascendere o il passo che uno fa per spostarsi.
Viṣṇu che fa tre passi (Trivikrama) è un’immagine ben nota nel Ṛg Veda. Yāska spiega (Nirukta, Uttara Ṣaṭka, 12.19) che la parola Viṣṇu significa ‘che entra in ogni cosa e la pervade’. Durgāchārya2 evidenzia che Viṣṇu qui significa Sūrya, il sole, i cui raggi entrano ovunque e pervadono tutto. Yāska cita, a sostegno di questa spiegazione, un mantra dal Ṛg Veda (1.22.17) in cui si dice che Viṣṇu fece tre giganteschi passi, sottolineando l’importanza del versetto.
Questo mantra, spiegato da Medhātithi Kāṇva3, evidenzia che le tre divisioni dello spazio universale sono state fatte da Viṣṇu stesso come divinità solare (Āditya), il che significa ch’egli trascende il trimundio. Vi sono due interpretazioni tradizionali: la prima è di Śākapūṇi, il quale sostiene che i tre passi compiuti da Viṣṇu, in accordo con le tre divisioni sopra menzionate, significano terra, regione intermedia e cielo4; e un’altra di Aurṇavābha5 che afferma che i tre passi si riferiscono al Sole che nasce ad est, al Sole nel punto più alto al mezzogiorno e al Sole che tramonta ad ovest. Il glossatore Durgācārya identifica i tre passi, d’accordo con Śākapūṇi, con il fuoco (Agni) sulla terra, con il lampo (vidyut) nella regione di mezzo e il sole, Sūrya, nel cielo. Qualsiasi ne sia l’interpretazione, Viṣṇu (o Āditya) trascende tutte queste divisioni.
Vi sono almeno sette mantra nel Ṛg Veda, che parlano dei tre passi o divisioni dello spazio. Viṣṇu diventa Tripāt [o Trivikrama]per aver compiuto questi tre passi, oltrepassando così le tre divisioni del cosmo. Egli contiene ogni cosa, come indica il prossimo mantra (vivañg vyakrāmat). Così tutte le tre divisioni sono in effetti una parte sola.
Il regno di Viṣṇu è distinto da quest’unica parte (dei tre passi). È chiamato ‘il più alto punto d’appoggio’, così sono definiti poeticamente i cieli (divi) o il mondo dell’immortalità (amṛtasya loka o Brahmaloka). Colui che trascende i tre regni è realmente la descrizione di Viṣṇu, che risiede nel proprio regno e che illumina la vasta espansione del cielo. Ma questo non deve essere interpretato come un quarto regno. La presenza reale di Viṣṇu è davvero in tutti e tre i regni, non limitata a questi o limitata da essi. In tal senso non è mortale (martya). Presente in tutte le creature, egli è immortale (amṛta). Questo è il vero significato di atirohaṇa. Egli dimora nella sua propria gloria e maestà (sve mahimni). Trascendendo ognuno dei tre regni è completo, avendo aspetto visibile e relazionato come un punto d’appoggio (pāda).
In realtà, la trascendenza (atirohaṇa) è in termini di avanzamento interno, un movimento nella direzione della più interiore realtà (l’antaryāmi). La Terra contiene dentro di sé la regione mediana; la regione mediana contiene dentro di sé il cielo. E dimorando oltre il cielo, ma dentro i suoi recessi, è il Puruṣa che è la più interiore delle realtà. La Muṇḍaka Upaniṣad (2.2.5) dice:
Nel Puruṣa sono compresi il trimundio, i cieli, la terra e la regione mediana, e la mente con le correnti vitali che sono tutte pervase dal Puruṣa fino in fondo. Ognuno dovrebbe cercare di conoscerlo, il Sé di tutti gli esseri, e abbandonare tutti gli altri scopi.
Mantra X.90.4
tripād ūrdhva utait puruṣaḥ pādo asya iha abhavat punaḥ
tato viṣvang vi akrāmat sāśana anaśane abhi
Con quei tre quarti Puruṣa è al di là del manifestato: un quarto di lui appare qui.
Dunque, poiché si estende in tutte le direzioni, appare agli esseri che si nutrono di cibo e alle cose che non si nutrono.
Il Puruṣa è descritto come ‘tre quarti’ o tripāt perché trascende i tre punti d’appoggio o i tre mondi, ed è salito al di là, nel senso che egli dimora nella sua propria natura, oltre la percezione dei mortali. Solo un quarto del Puruṣa appare davanti a noi come il mondo che sempre ritorna e trasmigra. Dal dominio della sua vera natura, ha pervaso tutto ciò che esiste qui, i mondi di diverse forme viventi e non viventi. Il nostro immenso, meraviglioso e vasto universo rappresenta soltanto un aspetto minore del potere del Puruṣa, un piccolo frammento (pāda). La reale natura del Puruṣa supera di gran lunga questo limite. Noi non possiamo penetrare l’interezza della sua maestà; la sua maggior parte è oltre la nostra comprensione. Puruṣa pervade il regno animato e inanimato (della terra e del cielo).
1. tripād ūrdhva utait puruṣaḥ
Sāyaṇa interpreta l’epiteto descrittivo tripāt come qualificante il Puruṣa, che è totalmente privo della natura del mondo della trasmigrazione (samsāra rahitaḥ), e che è assoluto e unitario principio di energia cosciente (brahmasvarūpaḥ). Egli ‘si è elevato’ (ūrdhva udait) nel senso che il Brahman rimane nella sua gloria, essendo al di fuori di questo mondo trasmigrante nato dall’ignoranza, completamente non toccato dai meriti e dai difetti di tale mondo.
Tuttavia, è possibile prendere l’espressione tripāt insieme con ūrdhva udait, suggerendo così che il Puruṣa si alzò verso l’alto, facendo tre passi (o facendo tre grandi passi), come da quanto detto sopra, o con tre quarti del suo potere (mahimā, gloria, maestà). I tre passi o regni possono essere interpretati a livelli diversi, ossia come il nome dei tre cieli più alti (mahaḥ, janaḥ e tapaḥ), dei tre cieli più bassi (bhūḥ, bhuvaḥ e svaḥ)6, oppure talvolta come i tre stati (veglia, sogno e sonno profondo), i tre Veda (Ṛk, Yajus e Sāman), i tre pāda del Gāyatri e così via, mantenendo il concetto che il regno di Puruṣa è sempre al di là di questi ternari. C’è anche un’identificazione dei tre passi con l’addome (udara), con il cuore (hṛdaya) e con la caverna del cuore (dahara); proseguendo oltre questi si potrebbe raggiungere il sahasrāra, alla distanza di ‘dieci aṅgula’.
Vi è un’altra interpretazione per udait: celando la propria natura trascendente, che è priva di qualunque coinvolgimento con il mondo della relazione, il Puruṣa è penetrato nel cuore di tutte le creature come la loro vera anima.
I tre passi o quarti (tripāt) che si muovono verso l’alto in sequenza suggeriscono l’upāsanā (la meditazione) ingiunta. L’individuo trascende la sua bassa natura e, premendo su quella più alta, raggiunge il Puruṣa come l’ātman dei più profondi recessi del proprio essere.
2. pādo asya iha abhavat punaḥ
Il significato di questa frase è che l’intero universo è espressione soltanto di un minimo aspetto del Puruṣa. Esso non è esaustivo né rivela interamente la maestà e il potere del Puruṣa. La parola pāda significa una piccola parte (leśa), in contrasto con tripāt che la trascende. Pāda in questo contesto allude al mondo di relazioni (vyavahāra) che noi conosciamo; iha (qui) è preso nel significato di saṃsāra, in questo mondo di trasmigrazione.
Il pāda ‘iniziando ancora e ancora’ (abhavat punaḥ) si riferisce ai costanti cambiamenti (vikāra) che il mondo subisce e al fenomeno di nascite e morti che sono caratteristiche cicliche (pade pade). Vi è un mantra nel Ṛg Veda (X.190.3) che parla del sole e della luna creati di nuovo in ogni kalpa come lo sono stati in quelli precedenti.
La parte del Puruṣa che è rinnovata ripetutamente è anche simbolizzata dal fuoco rituale che deve essere acceso ogni giorno in molti cuori. Leggiamo a questo proposito nella Taittirīya Āraṇyaka (III.14.11). E nella Muṇḍaka Upaniṣad (I.1.7) c’è l’immagine del ragno che tesse la sua tela, che espelle i fili dal proprio corpo e poi li ritira in se stesso; le piante spuntano fuori dalla terra e ritornano dentro alla terra; così anche il mondo viene fuori dall’imperituro Puruṣa e in lui ritorna.
Il Puruṣa con un suo passo (pāda) è avanzato da un capo all’altro (viakrāmat) in tutte le direzioni (visvāṅga). Vyakrāmat (vi akrāmat) significa ‘che ha fatto o impresso passi’ in differenti direzioni, il prefisso vi essendo preso nel senso di viśeṣeṇa. Il termine vyakrāmati indica pervasione (vyāpti).
La parola visvāṅga letteralmente significa che va e viene in parecchi posti od ovunque e, quindi, ribadisce il concetto di vyakrāmat. Le due parole insieme sottolineano il carattere onnipervasivo del Puruṣa o di un suo passo (sarvatra sarvataḥ vyāpta). Questo nostro mondo è pervaso da cima a fondo dal Puruṣa.
Si dice che il mondo degli esseri umani comprenda al suo interno i mondi divini7.
Bisogna sottolineare che nei passaggi del Ṛg Veda l’espressione udait è usata molto spesso in connessione con Sūrya (e. g. I.50.5; I.124.1; I.191.8; III.15.2; IV.13.1; V.54.10; VII.35.8; VII.60.1; VIII.13.13; VIII.27.19; IX.17.5; X.35.8; X.37.2; X.88.6, ecc), come pure l’espressione vyakrāmat (nelle sue varie forme vicakrame e simili) è usata per elogiare Viṣṇu (Ibid. I.22.16-18; I.154.1; IV.18.11; VII.100.3-4; VIII.12.27; VIII.52.3; VIII.100.12, ecc). In contesto vedico Viṣṇu è l’aspetto onnipervadente della luminosità di Sūrya, com’è attestato da Yāska (Nirukta, XII.18).
4. tato viṣvañg vi akrāmat sāśana anaśane abhi
L’espressione in numero duale sāśanānaśane è piuttosto difficile da renderere. È composta dalle due parole sāśana (con aśana) e anaśana (senza aśana), e la parola aśana è di oscuro significato in questo contesto. Aśana normalmente significa mangiare o cibo. E qui c’è anche la comune espressione aśnānaśana ossia ‘mangiando e digiunando’ (cfr. Atharva Veda, XIX.6.2). Ma il significato non si accorda con l’azione di onnipervadenza suggerito da viśvañg vyakrāmat. È stato proposto da Sāyaṇa che le parole sāśana e anaśana vogliano dire rispettivamente esseri coscienti (cetana), quelli che si nutrono, e non coscienti (acetana), quelli che non si nutrono, indicando la totalità del mondo completamente pervaso dal Puruṣa. Rāghavendra Tīrtha, invece, interpreta le parole nel senso di saggi e Dei; in alternativa sostiene che il Puruṣa pervade il mondo vivente come quello inerte, dimorandovi come suo ordinatore interno.
È stato anche ipotizzato che con questa espressione si indichino il giorno e la notte. Le creature viventi cercano il cibo quando albeggia (cfr. Ṛg Veda, I.124.12); e l’alba è il tempo quando il cibo rituale è offerto agli Dei (Ibid. I.113.12). Allusioni ad Agni, che governa con il giorno e la notte (Ibid. I.98.2; I. 127.5; X.88.6), che si riferiscono di fatto a Sūrya come una forma di Agni.
Si dice anche che il neutro duale sāśanāśane abbia il significato di sadhastha, cielo e terra, ossia dyāvā-pṛthivī. L’espressione sadhastha è usata per Agni (cfr. RV III.6.4 mahānt sadhasthe dhruva ā) in quanto splende sulla terra e il cielo (cfr. anche RV VI.1.11 e VI.48.6) e per Viṣṇu che si muove a grandi passi attraverso la terra e il cielo (cfr. anche RV I.154.4). Il significato del secondo verso del mantra potrebbe essere che il Puruṣa pervade ovunque l’intero mondo, terra e cielo insieme. Terra e cielo, poi, rappresentano anche il giorno e la notte; e Agni (o Sūrya) regola con il giorno e la notte (Ibid. I.98.2; I.127.5; X.88.6) nel senso che illumina entrambi, cielo e terra.
Mantra X.90.5
tasmāt virāṭ ajāyata virājo adhi pūruṣaḥ
sa jāto ati aricyata paścāt bhūmim atho puraḥ
Da Lui è nato Virāj e, a sua volta, da Virāj è nato Puruṣa.
Appena nato, si è diffuso nell’universo a est come a ovest.
Il mantra precedente dichiara che il Puruṣa pervade questo universo ovunque (viśvaṅg vyakrāmat). Il presente mantra sviluppa questo tema. Da questo Puruṣa, che avvolge tutto, cielo e terra insieme, ed è trascendente, è venuto alla luce Virāj; e tramite questo Virāj, il Puruṣa ha manifestato se stesso. Quando è apparso, ha oltrepassato la sua natura ed è divenuto lo spirito immanente in tutte le creature. La terra, allora, venne in esistenza e poi le creature; oppure, quando egli apparve, oltrepassò la terra a est e a ovest, da dietro e in avanti.
1. tasmāt virāṭ ajāyata virājo adhi pūruṣaḥ
Sāyaṇa prende tasmāt (da lui o da quello) nel senso di ādipuruṣāt (dal Puruṣa primordiale), perché lì si nomina un altro Puruṣa, nato da questo Virāj. Dal Puruṣa primordiale è venuto Virāj, e da Virāj il Puruṣa che è manifestato nel mondo prodotto dalle relazioni. Quindi il Puruṣa e Virāj sono reciproci nella loro origine.
Il termine Virāj necessita di alcuni chiarimenti. La parola deriva dalla radice rāj (che significa che risplende(dīptau), regna, governa, eccelle), e con il prefisso vi (che significa particolarmente, viśeṣeṇa) indica ciò che è immensamente luminoso e va oltre (viśeṣeṇa rājate). La stessa parola è intesa in un altro senso: ciò che, in qualsiasi genere di cose e di esseri, splende o emette luce.
Nel Vājasaneya Saṃhitā Bhāṣya si trova un’altra spiegazione di questo mantra ove si parla di Virāj in termini di totalità cosmica. La totalità cosmica (Brahmāṇḍa deha o corpo dell’Uovo di Brahmā8) qui menzionata, è immaginata essere, in ultima analisi, la distesa spaziale9 che si estende dalle regioni più basse fino al regno di Brahma (Brahmaloka), che per gli esseri umani è il luogo più elevato da raggiungere, oltre il quale ci sono i cieli superiori10 (vaihuṇṭha), la gloria del Puruṣa.
Inoltre, questo Brahmāṇḍa è l’aspetto più grosso dell’esistenza, più grosso del più grosso possibile, anche se il più piccolo atomo appare più sottile del più sottile. Questo è il fondamento per tutti gli innumerevoli mondi, l’immenso spazio primordiale e pervasivo.
Questa totalità cosmica è il corpo del Puruṣa. Come afferma la Bṛhadarāṇyaka Upaniṣad (V.5.3) avrebbe bhūḥ, la terra, quale sua testa, bhuvaḥ, l’atmosfera, come braccia e svaḥ, il cielo, come piedi. Il Puruṣa è l’anima di questo corpo. Con questo corpo come supporto, il Puruṣa ha manifestato se stesso. Cioè ha identificato se stesso con quel suo corpo (dehābhimānī), quel corpo emanato da se stesso grazie al suo impulso creativo (māyā), assumendone la forma come un’anima (jīva). Da quest’anima, ha origine lo spazio (ākāśa), dallo spazio il vento (vāyu), dal vento il fuoco (agni), dal fuoco l’acqua (āpah), dall’acqua la terra (pṛthivī), dalla terra la vegetazione (oṣadhayaḥ) e dalla vegetazione il cibo (anna), e dal cibo tutte le creature (puruṣaḥ) (TU II.1). Il principio di tale attività creativa è conosciuto come Prajāpati. Il Puruṣa primordiale divenne, dunque, Prajāpati; e da Prajāpati emerse la manifestazione grossa del cosmo chiamata Virāj, com’è descritta in Śatapatha Brāhmaṇa (VI.1.1.1; XIII.2.6.3).
Prajāpati, Signore d’ogni cosa, lontana e vicina, è in effetti il principio creativo ed è identificato di volta in volta a Brahmā, ad Agni, al Puruṣa e a Viṣṇu. È interessante notare che in Atharva Veda (VIII.10.1) è considerato come un’energia femminile11. Talvolta anche la Taittirīya Samhitā (III.3.5.2) e lo Śatapatha Brāhmaṇa (XIII.2.6.3) lo descrivono al femminile.
Virāj è tutto ciò che esisteva all’inizio. Quando tale potenza apparve ci fu il timore che diventasse l’intero mondo. C’è un altro passo nello stesso Brāhmaṇa (XI.8.30), ove è detto che le acque primordiali, gli elementi luminosi e Virāj si manifestarono assieme al creatore, il Brahman; e quando Brahman penetrò il corpo, ovvero il rivestimento materiale dello spirito, divenne Prajāpati, il Signore di tutto.
Qui Virāj è posto in posizione subordinata nei confronti dello spirito assoluto Brahman che, come creatore, trasformò se stesso in Prajāpati. Ora, questo Prajāpati è lo stesso Puruṣa; non il Puruṣa primordiale (ādi pūruṣa) che è lo stesso Brahman, ma il secondo Puruṣa, emanazione di Virāj (virājo adhi pūruṣaḥ), che può essere detto spirito individuale (jīva), quello che entra nell’aggregato corpo-mente. La distinzione si pone tra Puruṣa come essere e Puruṣa come soggetto. Tuttavia, in realtà, non vi è dualità in Puruṣa. Leggiamo nel Bhāgavata Purāṇa (XI.4.3) che il supremo e primordiale Nārāyaṇa creò Virāj dalla propria natura quale pietra di fondamento dell’universo materiale, ed entrò in Virāj quando cominciò ad essere conosciuto come Puruṣa.
Virāj, in quanto totalità cosmica, ha degli aspetti che danno forma al Puruṣa individuale: il sole [e la luna] del cosmo è diventato gli occhi dell’individuo, il vento è diventato il respiro, e così via. In questo modo Puruṣa, la progenie di Virāj, è davvero il Brahman progenitore di Virāj. Similmente nel Puruṣa individuale tutti gli Dei, le energie universali, trovano in lui riparo come buoi in una stalla. Così si esprime l’Atharva Veda (VIII.10.3; VIII.10.32).
Infatti, Prajāpati è proprio Virāj e la terra, l’atmosfera, la parola e la morte sono tutti aspetti di Virāj (AV IX.10.24).
Bhaṭṭa Bhāskara, commentando un inno del Taittirīya Āraṇyaka (III.12), fornisce una brillante immagine di Puruṣa. Il Puruṣa primordiale, che Sāyaṇa chiama ādi puruṣa, è preso da Bhaṭṭa Bhāskara come Nārāyaṇa o praṇava (oṃkāra), descritto da qualcuno come l’originaria realtà immanifesta (avyakta). È il macrantropo (mahāpuruṣa) nel senso che è distinto dal primitivo impulso creativo. Virāj sorto da questa origine è Prajāpati. Da Virāj come fondamento è apparso il Puruṣa chiamato vairāja puruṣa. Egli brilla in tutti gli esseri specialmente come vera luce e vita (virājati), come coscienza pura e semplice. Questa è l’anima di tutti gli esseri che Bhaṭṭa Bhāskara definisce mānasīna ātmā. La totalità di tutte le anime è il Prajāpati detto daśa hotra, così chiamato perché è caratterizzato da dieci proprietà animiche: citti (coscienza), citta (riflessione), vāk (parola), adhītā (ricordo, attenzione), keta (desiderio, volontà, forma), vijñāta (discernimento), vākpati (eloquenza), manas (mente), prāṇa (energia vitale) e sāma (tranquillità). Queste particolari funzioni sono simboleggiate dal mestolo sacrificale (sruk), dall’oblazione (ājya), dall’altare (vedi), dal sedile d’erba (barhi), dal fuoco (Agni), dall’accensore del fuoco (agnīdra), dall’oblazione e dal sacerdote offerente (hotṛ), dal sacerdote che attizza il fuoco con il ventilabro (upavaktṛ), da quello che offre nel fuoco (havis) e dal sacerdote (adhvaryu) che dirige un rituale sacrificale (TĀ III.1).
Come si diceva, i primi daśa hotra sono funzioni individuali o facoltà psichiche, mentre i secondi corrispondono agli strumenti necessari per l’adempimento di un rituale sacrificale (homa niṣpādakāḥ); questo spiega perché Prajāpati sia chiamato in modo figurato daśa hotrā (il sacrificio composto da dieci).
Bhaṭṭa Bhāskara spiega che nel mantra la parola atyaricyata significa che il Puruṣa spontaneamente volle assumere forme molteplici che suddivisero la sua natura originaria: creò gli elementi, le facoltà di senso e così di seguito. In questo contesto, cita un testo scritturale secondo cui la mente ebbe origine dalla realtà non manifestata; la mente, poi, creò Prajāpati, che a sua volta creò tutti gli esseri. Manas qui sta per l’anima del mondo nei suoi aspetti latenti e totali, fondamentali e primordiali: è la stessa del Vairāja Puruṣa o Daśahotra Prajāpati. In altre parole, è la volontà psicocosmica (saṃkalpa o kāma universale).
2. sa jāto ati aricyata paścāt bhūmim atho puraḥ
Il termine che spiega tutta la frase è ati aricyata. La radice della parola è tic, che significa svuotare, evacuare, arrendersi, lasciare indietro, dimenticare. Siccome il Puruṣa, quando nacque, svuotò se stesso, si arrese, lasciò indietro se stesso e si dimenticò (aricyata), Sāyaṇa afferma che con espressione atiriktaḥ abhūt s’intende che egli divenne vuoto. Ciò spiega come il Puruṣa assunse forme che erano completamente diverse da Virāj, cioè le forme degli Dei, degli esseri umani, degli animali, ecc. L’interpretazione di Sāyaṇa segue quella già indicata di Bhaṭṭa Bhāskara. Cioè a dire che il Puruṣa rinunciò alla sua forma originale, che sacrificò se stesso sull’altare della creazione. Tale autosacrificio (ātma yajña) è sinonimo di sacrificio del Puruṣa (puruṣa medha). Come risultato di questo sacrificio, la terra venne in essere e, di seguito (atho), i corpi di tutte le creature.
L’interpretazione di Sāyaṇa è che dopo che il Puruṣa manifestò forme diverse a partire dalla sua natura originaria, venne in essere la terra. Perciò prima (dell’apparizione della terra) vi fu la formazione delle anime individuali (jīva) degli Dei, degli esseri umani, ecc.
Quando la terra apparve, come teatro d’azione per la funzione vitale di queste anime, furono confezionati i loro involucri fisici. In questo testo sono chiamati pura. Sāyaṇa pensa che puraḥ, i corpi (śarīrāṇi), siano definiti così perché sono formati da sette costituenti, come il sangue, la carne, le ossa, il midollo, ecc. Oppure l’espressione pura significa, seguendo la stessa linea di pensiero, pūrvam, cioè i primordiali, indicando così che appartengono alla prima fase del processo di creazione (pūrva sṛṣṭi). Il primo Puruṣa, dopo aver prodotto Virāj, lo penetrò come suo spirito. Così furono prodotte le anime degli esseri. Dopo di ciò fu creata la terra (bhūmim sasarja). Infine, furono creati i corpi per queste anime che erano già venute in essere (teśām jīvānām puraḥ).
Tuttavia, il prefisso ati aggiunto al verbo aricyata ne modifica il significato in senso più ampio: connota il senso di ‘oltre, sopra, trapassare, morire’. Il significato della frase, quindi, non potrebbe essere colto senza la parola atyaricyata, che dovrebbe essere esteso alle parole che seguono: paścād bhūmim atho puraḥ.
L’espressione paścā non solo significa ‘più tardi, dopo’, ma anche ‘da dietro, in fondo, verso ovest’, esattamente come puraḥ (purastāt) significa non solo ‘prima di, per primo’ ma anche ‘davanti, avanti, verso est’. Le parole hanno una connotazione sia temporale sia spaziale. Per essere in sintonia con il senso di ati aricyata, è meglio considerare anche l’ultimo significato.
Quando questo Puruṣa (il Soggetto) apparve, oltrepassò la terra da dietro in avanti (cioè in tutte le direzioni). Qui si allude sia alla continuità sia alla discontinuità: continuità del Puruṣa in quanto esistenza, e discontinuità del Puruṣa che diventa soggetto. La discontinuità deve essere vista come il sacrificio della continuità, tuttavia, non può esserci soggetto senza l’esistenza, senza l’Essere. L’esistenza non scompare quando appare il soggetto. Puruṣa eva idam sarvam.
Mantra X.90.6
yat puruṣeṇa haviṣā devā yajñam atanvata
vasanto asyāsīt ājyam grīṣma idhmaḥ śarad haviḥ
Quando gli Dei prepararono il sacrificio, Puruṣa fu la loro offerta,
la primavera fu il loro burro chiarificato, l’estate fu il legno il sacro, l’autunno fu la vittima sacrificale.
Quando il Puruṣa oltrepassò l’intera terra, com’è ricordato nel mantra precedente, i Deva compirono il sacrificio con lo stesso Puruṣa come offerta rituale. Il sacrificio che fu adempiuto ebbe la stagione della primavera come burro chiarificato per alimentare il fuoco, l’estate come combustibile per permettere al sacro fuoco di bruciare e l’autunno come oblazione in esso versata.
Come dice Sāyaṇa, se i precedenti mantra parlano di pūrvasṛṣṭi, la prima fase della creazione, con questo mantra inizia la spiegazione di cosa è chiamato uttara sṛṣṭi, l’ultima fase della creazione, i cui protagonisti sono gli Dei venuti in essere durante la prima fase.
1. yat puruṣeṇa haviṣā devā yajñam atanvata
L’espressione yat è interpretata nel senso di yadā, che vuol significare il tempo di quando incominciò l’uttarasṛṣṭi. Ciò avvenne dopo che i corpi o involucri fisici erano stati creati a supporto delle anime. Allora gli Dei decisero di adempiere al sacrificio (yajña) che avrebbe messo in moto l’uttarasṛṣṭi. Bhaṭṭa Bhāskara commenta così il Taittirīya Āraṇyaka (III.12):
Il sacrificio (yajña) intrapreso agli inizi della creazione secondaria fu per natura un atto di volizione (saṃkalpa).
Infatti Bhaṭṭa Bhāskara chiarisce che era ‘come un sacrificio’ (yajñam iva). Il Vairāja Puruṣa, come s’è spiegato precedentemente, è la psiche di tutti gli esseri (mānasīna ātmā). Fu esso che mise in esistenza tutti gli Dei. Gli Dei sono così chiamati perché illuminano se stessi, illuminano altre cose, dimorano nello spazio luminoso o elargiscono doni. Bhaṭṭa Bhāskara suggerisce che gli Dei qui simboleggino le correnti vitali (prāṇa), le modalità psichiche (prājāpatya) e le facoltà di senso (indriya) del creatore. Che tipo di sacrificio potevano fare? Poteva essere solo ādhyātmika.
Sāyaṇa, seguendo questa linea di pensiero, afferma che gli Dei fecero il sacrificio mentalmente. Essi deliberarono nelle loro menti che la natura del Puruṣa, cioè la totalità delle anime12, era lo stesso materiale con cui era stato compiuto yajña. Questo era l’unico oggetto esistente in quel momento; non c’era nient’altro che potesse essere un’offerta o un’oblazione. Quindi le correnti vitali e le funzioni dei sensi, che erano state liberate dall’Anima universale, entrarono in azione oscurando la Psiche stessa: erano orientate verso l’esterno e ritornarono alla realtà interiore. Questo è lo yajña o il sacrificio del Puruṣa. È come se il Puruṣa avesse offerto se stesso agli Dei. Leggiamo così in Śatapatha Brāhmaṇa (XI.1.8.2) che gli Dei furono creati a immagine del Puruṣa (o di Prajāpati). Questa stessa creazione è chiamata sacrificio perché il Puruṣa diede se stesso agli Dei. Tale è il sacrificio di Puruṣa-Prajāpati): questo avvenne perché il Puruṣa era della natura di yajña.
Il simbolismo dello yajña è stato ben chiarito in un passaggio dalla Taittirīya Brāhmaṇa (II.2.1.1-2) ed è stato proposto per spiegare come Puruṣa e Prajāpati vengano in esistenza con il nome di daśa hotṛ. Prajāpati decise di creare tutte le creature, e all’istante percepì il mantra daśa hotṛ. Realizzò l’importanza di questo mantra e lo offrì come oblazione sull’altare. Così le creature vennero in esistenza, ma subito lottarono per fuggire e separarsi da lui. Prajāpati le trattenne con il potere del mantra e divenne daśa hotṛ. Prajāpati, in quanto esistenza, è egli stesso le creature come soggetto. Tuttavia, le creature sono manifestate, mentre Prajāpati è non manifestato. L’oblazione, che egli offrì allo scopo di trasformare se stesso dallo stato di non manifestazione a quello di manifestazione, fu solo mentale. Infatti, Prajāpati è la Psiche cosmica. La Psiche non manifestata è perfezione e totalità (pūrna), mentre le creature che divennero manifestate sono distinguibili per imperfezione e frammentazione (nyūna). Queste ultime hanno necessità di muoversi in direzione del primo. Questo è il significato di yajña, il sacrificio: il Soggetto che realizza l’Essere-esistenza.
Più oltre lo stesso testo (TA II.24) spiega che quando Prajāpati concepì il daśa hotṛ mantra, frammentò se stesso in dieci aspetti (citti, citta, ecc), e grazie al tapas creò tutti gli esseri.
Quali sono, ora, questi dieci aspetti che vennero in essere come effetti dello yajña? C’è un’altra interessante dimensione dell’idea di creatore, daśa hotṛ, per Prajāpati: 1) come brāhmaṇa si diede all’austerità (tapas); 2) come fuoco duplice, Agni o yajña di due tipi (pāka yajña e havir yajña); 3) come terra o pṛthvī, che è fondata in triplice modo, ossia fuoco, cibo e rituali; 4) come regione intermedia o antarikṣa, che stabilisce il mondo su quattro aspetti (suono, piogge, quadranti spaziali e spazio indiviso); 5) come prāṇa in cinque forme (prāṇa, apāna, samāna, udāna e vyāna); 6) come luna o candramā, che sostiene il mondo con le sei stagioni; 7) come cibo o anna che mantiene le sette funzioni vitali; 8) come cielo o dyauḥ, che procura felicità tramite gli otto (cinque sensi e tre organi interni); 9) come sole o āditya, che agisce assieme agli otto di cui sopra, aggiungendo il suo splendore per illuminare i mondi; 10) Prajāpati che manifesta se stesso in tutte le nove vie suddette e che per di più rimane intatto nella sua propria natura trascendente. Da notare che TA (III.1) fa un elenco separato degli stessi principi nominati nel commento (X.90.5) alla prima parte del mantra.
Con ciò si è spiegato il carattere simbolico dello yajña.
2. asya vasanto ājyam āsīt grīṣma idhmaḥ śarat haviḥ
Se i Deva impegnarono se stessi in uno yajña, in cui il Puruṣa, progenitore dei Deva, s’era proposto come offerta sacrificale, tale sacrificio deve avere un significato cosmico. Lo Śatapatha Brāhmaṇa (XI.1.6.7) lo afferma in questo passaggio: “Poi nell’anno, s’è presentato il Puruṣa; egli era Prajāpati”.
L’anno, che era Prajāpati, era, quindi, il sacrificio (Ibid. XI.1.1.1). L’anno e il sacrificio sono qui identificati; ed entrambi sono di nuovo identificati al Puruṣa. In sintonia con lo Śatapatha Brāhmaṇa (VIII.4.1.22) “esso è l’anno in cui tutte le creature sono stabilite”, come lo sono nel sacrificio e nel Puruṣa. L’anno è definito Agni e Āditya, il signore di tutte le stagioni. L’anno è il sacrificante e le stagioni lo aiutano. La primavera (vasanta) è il produttore del fuoco sacrificale (agnīdhra), l’estate (grīṣma) è il mantenitore principale del fuoco (adhvaryu); la stagione delle piogge è il cantore (udgātṛ); la stagione autunnale è il maestro delle cerimonie (brahmā) (Ibid. XI.2.3.32). Più avanti (Ibid. XI.2.7.1-5) si parla dell’anno vero e proprio come sacrificio (samvatsaro yajñaḥ), con le stagioni come sacerdoti sacrificali (ṛtava ṛtvijaḥ); i mesi hanno la natura di oblazioni che sono offerte durante il sacrificio (māsāhavīmṣi); la metà del mese, ovvero le quindicine lunari, sono le coppe13 in cui le oblazioni sono poste, e il giorno e la notte gli abiti rituali (ahorātre pariveṣṭrī).
I tre dettagli costitutivi di un sacrificio, che contribuiscono anche al suo adempimento, sono ājya, il burro liquefatto o chiarificato che fa sì che il fuoco scoppietti e bruci fiammeggiando luminosamente; idhma, il combustibile che permette al fuoco sacrificale di bruciare; e havis, qualsiasi cosa versata nel fuoco come offerta devozionale od oblazione, come, per esempio, i dolci puroḍāśa. Il mantra in esame enumera proprio tre stagioni: primavera (vasanta), estate (grīṣma) e autunno (śarat), per simboleggiare in tale ordine questi tre elementi del sacrificio. Normalmente una stagione comprende due mesi, e in un anno, quindi, vi sono sei stagioni.
ŚB (II.2.3.9) elenca cinque stagioni come le fasi di Āditya durante il giorno. Quando il sole sorge, è primavera (vasanta). Quando durante la mattinata il bestiame è mandato a pascolare, è estate (grīṣma). A mezzogiorno, è la stagione delle piogge (varṣā). Quando è pomeriggio, è autunno (śarat). Al tramonta del sole è inverno (hemanta). Il numero cinque risulta ritualmente significativo. Come afferma lo ŚB (VI.1.2,18), le stagioni sono cinque e anche le file di mattoni dell’altare del fuoco (agni citi) sono cinque.
Tuttavia, il mantra nomina solo tre stagioni: primavera, estate e autunno, in quanto quelle stagioni rappresentano i tre Dei, ŚB (VII.2.4.26).
Le tre stagioni sono quindi prescritte come adatte alla realizzazione dei rituali sacrificali. Vasanta comprende due mesi, Caitra e Vaiśākha, Grīṣma comprende Jyeṣṭha e Āśāḍha, infine Śatat, Kārtika e Mārgaśira. Secondo la TS (IV.4.11.1); questi sono i mesi più propizi per raggiungere lo scopo dei sacrifici del brāhmaṇa vasanta, del rājanya grīṣma e del vaiśya śarat, ecc. (TB I.1.2.6).
Le tre stagioni nominate qui simboleggiano anche i tre periodi del giorno che sono auspiciosi per le offerte rituali (savana). La stagione primaverile è il mattino (pūrvāhṇa), quando sorge il sole che rappresenta Puruṣa o Agni. Il periodo estivo è il mezzogiorno, quando il sole ardente prosciuga tutte le cose, l’autunno è rappresentato dalla sera o dalla mezzanotte. Questi sono i tre periodi rituali: prātah savana, mādhyandina savana e sāyam savana.
- Ciò conferma l’inesistenza di una pretesa manifestazione informale [N.d.C.].[↩]
- Commentatore dell’opera di Yāska [N.d.C.].[↩]
- Autorevole commentatore della Manu Smṛti, circa del X secolo d.C. [N.d.C.].[↩]
- Questa interpretazione limitata al karma kāṇḍa di Śākapūṇi, autore di Nirukta citato da Yāska, si riferisce al trimundio compreso nel jagarita sthana di Vaiśvānara-Āditya come è espresso in MU (3) e non ai quattro pāda che costituiscono l’argomento dell’intera Upaniṣad [N.d.C.].[↩]
- Antico maestro della paramparā che trasmise la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad. La sua interpretazione sulle tre stazioni del sole (sandhyā) in cui compiere i rituali vedici è chiaramente ispirata al karma kāṇḍa [N.d.C.].[↩]
- I sette loka sono Bhūloka, Bhuvarloka, Svargaloka (o Indraloka), Maharloka, Janaloka, Taparloka, Satyaloka (o Brahmaloka) [N.d.C.].[↩]
- Antarhito hi devaloko manuśalokāt. (Taittirīya Saṃhitā, VI.1.12)[↩]
- La serie dei mondi (loka) è composta da una infinita sequenza di Brahmāṇḍa tra loro separati da un saṃhāra (o pralaya). La durata di ogni mondo corrisponde a un kalpa. Corpo del Brahmāṇḍa sta per Virāj, il principio della manifetazione grossa d’un mondo [N.d.C.].[↩]
- Per esempio, nel Brahmavaivarta Purāṇa, Prakṛti Khaṇḍa 3.[↩]
- Si tratta dei cieli dei loka successivi all’attuale kalpa, che non riguardano l’umanità [N.d.C.].[↩]
- Non per nulla l’Atharva Veda è considerato la base testuale del tantrismo [N.d.C.].[↩]
- In un’ottica meno ritualistica, si tratta del concetto dottrinale di Hiranyagarbha in quanto jīva ghana (agglomerato di vita) [N.d.C.].[↩]
- I falcetti lunari [N.d.C.].[↩]