Vai al contenuto

Svāmī Prabhuddhānanda Sarasvatī Mahārāja

22. Commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda

Agama Prakaraṇa

Note sul Śaṃkara Bhāṣya riguardanti la Kārikā I.9

Quando si dice ‘pensiero corretto’ si intende solo la natura del Sé e tutto ciò che facilita il pensiero corretto sulla natura del Sé è anche chiamato pensiero corretto; quindi devi comprendere la parola ‘pensiero corretto’, samyag vicāra. Il giusto pensiero non è un pensiero corretto moralmente. Quella non è la definizione fondamentale di giusto pensiero: samyag vicāra significa pensare correttamente alla propria Natura: questo è il pensiero corretto. E anche tutto ciò che favorisce il giusto pensiero, che innesca il giusto pensiero, che facilita il giusto pensiero è chiamato pensiero corretto. Altra cosa sono il pensiero corretto detto upāya bhūta e il corretto pensato upeya bhūta, ossia il mezzo e il fine, l’aiutante e l’aiutato, che si possono definire quali ‘giusto pensiero in fieri’ e ‘giusto pensiero conclusivo’1. Questo pensiero corretto è anche il pensiero che, correggendo il pensiero errato, si autoelimina. Ma se rimane dopo aver corretto il pensiero errato, allora è un altro pensiero errato, per rimuovere il quale bisogna conoscere un altro pensiero e un altro ancora, e questo porta all’anavasthā, al regressus ad infinitum.

La posizione del Vedānta è che il pensiero corretto dopo la correzione non rimane; il pensiero corretto non è un attributo della Verità né è parallelo alla Verità, non è secondo alla Verità. Vidyā non è seconda al vastu, del Fatto. Se la ninna nanna rimanesse anche in suṣupta, allora esso non sarebbe non-duale: la ninna nanna fa addormentare, ma non diventa parte del sonno. Il pensiero corretto sulla natura della Realtà corregge il pensiero sbagliato, ma non diventa parte della natura della Realtà. Correggere il pensiero sbagliato è la natura del pensiero corretto. Io sono il corpo, deho’ham, è un pensiero sbagliato, un pensiero sbagliato senza inizio (anādi), non è un pensiero sbagliato che ha inizio (sādi), non è qualcosa che durante la vita mi porta a pensare che “io sono deha”, il deho’ham è anādi, non è possibile collegarlo al tempo.

Stiamo trattando delle affermazioni correttive del Vedānta (Vedānta pratiṣedha vākya); infatti anche la śruti guarda alla verità in contrasto con ciò che l’uomo pensa di essa; se non c’è avidyā non c’è pensiero sulla natura della Verità, il tuo pensiero su te stesso è sbagliato. Quindi le affermazioni correttive della śruti, cioè la śruti stessa ha la visione della Verità in contrasto con il pensiero umano su di essa e quindi continua a dire “tu pensi di essere il corpo, ma non sei deha; pensi di essere nel tempo ma non lo sei, pensi di essere nello spazio ma non lo sei, pensi di essere un individuo ma non lo sei, pensi di essere nel dominio della causalità ma non lo sei”. In questo modo la śruti continua a utilizzare affermazioni che sono correttive del pensiero umano su se stesso. I pratiṣedha vākya non si intromettono nella natura della Realtà, ma si limitano soltanto a correggere il pensiero umano su se stesso.

Il primo pratiṣedha vākya è na antaḥprājñam, “non sei l’individuo che sogna”. La veglia, il sogno e il sonno sono tre sthānam, ma il terzo sthānam, chiamato suṣupti in quanto uno dei tre stati, è una parte dello stato di veglia perché solo nello stato di veglia si considera lo stato di sonno profondo come uno dei tre stati: non è mai vissuto come uno dei tre stati. Infatti, anche se penso alla veglia come uno dei tre stati, essa è una parte dello stato; se penso al sogno come uno degli stati è anch’esso una parte dello stato di veglia2. Nello stato di veglia ‘ricordo’ il sogno e anche lo conto come uno dei tre stati. ‘Ricordo’ lo stato di sonno profondo e, non capendolo, lo considero come una non-percezione, ossia “non conoscevo nulla, non vedevo nulla”. Quindi nello stato di veglia giudico lo stato di sonno profondo come uno stato di non-percezione: non è uno stato di non-percezione, è uno stato senza percezione. Questo è difficile da capire: l’uomo ordinario pensa sempre in termini di percezione e non-percezione; quando c’è percezione non c’è oscurità, dove non c’è percezione è tutto oscurità. Tuttavia, in realtà, non c’è percezione dell’oscurità; non c’è nemmeno il pensiero dell’oscurità, è uno stato di libertà dalla percezione e il vero significato (tātparyam) della libertà dalla percezione è che è la tua presenza senza percezione3. Quindi, lo stato di sonno profondo, in quanto uno dei tre stati, è incluso nello stato di veglia.

I tre stati kalpita (immaginati) sono chiamati “i tre sthānam” e il Sé che ha i tre stati è chiamato sthānin (colui che sta). Quindi c’è uno sthānī-sthāna bhava, che è una relazione. Quando si trascende lo sthānam si trascende anche lo sthānitvam: trascendendo lo sthānam del sogno e lo sthānam della veglia si trascende lo sthānitvam e, quando si trascende lo sthānitvam di jāgarita e lo sthānitvam di svapna, nel sonno profondo si trascende anche lo sthānitvam di suṣupti. Perciò suṣupti non è uno dei tre stati: è l’essere non-duale. Quindi, proprio come i tre sthānam mi sono evidenti in quanto errore evidente, anche il nirviśeṣam è evidente: è anubhava svarūpam [la propria natura di anubhava]. Gli sthānam sono anubhava viṣayam (oggetto d’intuizione) e il nirviśeṣam è anubhava svarūpam. La sua natura è solo Essere, ed Essere non è pensare. Il nirviśeṣam è solo nella forma di Essere. Essere è il significato della parola “Sat”; Essere è il Sat, il Sat come fonte di tutto; Essere è la fonte dell’intero pensiero, essere è la fonte dell’intero dominio di percezione L’Essere come origine dell’intera apparenza è chiamato kāraṇam. Kāraṇam non significa causa, significa origine; il rapporto causa-effetto è diverso dal rapporto origine-creazione. Se si dice “Dio è la causa ultima” non è vero: la causa non può essere ultima, ogni causa ha una causa dietro di sé. Se l’origine dell’universo fosse una causa, avrebbe a sua volta un’altra causa. È una origine māyika (illusoria): è insegnata come origine, ma È. Perciò questi sthānī-sthāna bhava sono lì; antaḥprajñatvam è sthānitvam, bahiṣprajña è sthānitvam, jāgrat avasthā è uno sthānam, svapna avasthā è uno sthānam, suṣupti considerato come uno dei tre stati è uno sthānam. Bahiṣprajñam significa sthānitvam, antaḥprajña significa sthānitvam e prajñānaghana significa sthānitvam. E sthānī-sthāna bhava è negato dalla śruti.

Na antaḥprajñam: non sei un individuo che sogna, uno sthānin. Non sei un individuo che pensa, non sei un individuo che ricorda, non sei un kartā, perché, in quanto percepente, sei un agente; l’Essere è in contrasto con il percepire. Percepire è fare, pensare è fare. In quanto sognatore è chiamato Taijasa. Taijasa significa un dominio di percezione che sembra un dominio di cose; anche senza l’aiuto del Vedānta si può capire che il sogno è un dominio di percezione che sembra un dominio di cose, che sembra una realtà. Perciò, per tua natura, non sei un individuo che sogna.

Na bahiṣprajñam: tu non sei un individuo che veglia, uno sthānin. La tua individualità di veglia non contamina la tua natura, come nemmeno la tua individualità di sogno contamina contaminano la tua natura. Se il bahiṣprajñatvam e l’antaḥprajñatvam non contaminano la tua natura, allora neanche jāgrat e svapna avasthā contaminano la tua natura. Per natura sei libero dall’individualità della veglia e dall’individualità del sogno. Per individualità si intende il percepire, il pensare, colui che è identificato al corpo, alla mente e all’intelletto, che appare incorporato e che percepisce, pensa, sente, ecc. Questa non è una produzione sociale: solo in seguito radunerò tanti pensieri sociali, ma questo è un’altra cosa. Invero, io nasco con l’incorporazione, nasco con la percezione, nasco con il pensiero, nasco con tutte le facoltà che si sviluppano nel corso del tempo. Quel senso di confinamento nella forma e nel pensiero, quel senso di limitazione, è chiamato individualità. Il senso di limitazione non si accumula nel tempo.

Il senso fondamentale di confinamento alla forma, il senso fondamentale di confinamento al pensiero, ecc., lo stesso senso di confinamento al corpo, è chiamato senso di limitazione nel pensiero, ecc. Questo senso di limitazione è ciò che intendo con la parola jīvatvam. Il senso di essere racchiuso nell’annamayakośa, nel prāṇamayakośa, nel manomayakośa, nel vijñānamayakośa e nell’ānandamayakośa non è accumulato nel tempo; il fatto che “io sono una forma” non è acquisito nel tempo. Con quello si nasce. Il fatto che “sono uno che respira” non è raccolto nel tempo; il fatto che “sono un percepente e un pensatore” non è accumulato nel tempo; il fatto che “sono un individuo che capisce” non è conseguito nel tempo, Il kośin è assimilato ad annamayakośa, prāṇamayakośa, manomayakośa, vijñānamayakośa e ānandamayakośa, e questa assimilazione lo rende un jīva, nel senso di individualità, jīvatvam. Secondo gli Śāstra questa è l’individualità, ma l’uomo ordinario pensa che l’individualità sia la tua personalità, il modo in cui parli e interagisci. Questo non è falso: jīvatvam significa universale. La personalità differisce da persona a persona, ma jīvatvam è comune a tutti. Quindi il jīvatvam è il senso di confinamento nei cinque kośa, questo senso di confinamento viene corretto qui.

Come individuo della veglia sono un viśva; ma viśva implica anche il prapañca e il prapañca implica il viśva, entrambi sono come un unico blocco. La Verità che appare sia come individuo della veglia sia come individuo del sogno è chiamata Virāṭ. Na ubhayataprajñam (né cosciente di entrambi); non sei né un individuo della veglia né un individuo del sogno. Infatti, la tua percezione dello stato di veglia e la tua percezione dello stato di sogno non qualificano la tua natura. La tua percezione di te stesso, in quanto individuo particolare, non qualifica la tua natura; neanche la tua percezione dei due stati qualifica la tua natura. La natura è nirviśeṣam, libera da tutti i pensieri; Essere è la tua natura e, anche se pensi a quell’Essere come a un oggetto di pensiero, ciò non qualifica l’Essere. L’Essere è la tua esistenza e quando dici “io sono” ti riferisci solo alla tua esistenza. Anche l’espressione “sto camminando” non permette di riferirsi alla tua azione senza riferimento al tuo Essere: nemmeno la grammatica non lo permette. La grammatica ti permette di riferirti per prima cosa al tuo Essere: “io sto parlando”. Quell’”io”, la verità, è ciò a cui ci si deve riferire.

Tu sei libero”, quel ‘sei’ è un verbo di Essere, non è un verbo d’azione e puoi riferirti alla tua presenza solo con il verbo essere, ‘Io sono’, e quindi l’individuo e l’universo sono un blocco unico. Se l’individuo e l’universo sono un tutt’uno e quel blocco non ha bisogno di scendere dal cielo, è il nirviśeṣam visto come vegliante e universo della veglia e proprio il nirviśeṣam, quando appare come vegliante e universo della veglia, è chiamato Virāṭ. Perciò questo universo di veglia non è un blocco di materia: è un essere cosciente che ha l’aspetto di Virāṭ. Allo stesso modo il sogno è un’apparenza della Verità. Se è un’apparenza della Verità, allora è anche un essere. In quanto Essere è Virāṭ, è un’apparenza fatta di Essere; quindi Virāṭ è anche l’Essere.

La relazione sognatore-sognato presa come un tutt’uno non è un blocco di cose: è anch’essa un’apparenza del nirviśeṣam. Il nirviśeṣam che appare come sognatore e sognato, è Hiraṇyagarbha. È un Essere, non è una cosa: è un Essere. Come individuo si chiama Taijasa, come blocco intero si chiama Hiraṇyagarbha. Preso come vyaṣṭi (individuo) è Taijasa, come samaṣṭi (universale) è Hiraṇyagarbha. Vyaṣṭi significa te meno lo sthānam, samaṣṭi significa te e lo sthānam come un tutt’uno, te e lo stato come un unico blocco. Jīva e jagat come un unico blocco, si chiama samaṣṭi. Ma, non interpretare samaṣṭi come se fosse l’insieme di tutti gli individui. L’universale non è un insieme di individui, è il tutt’uno di vedente e di veduto: il tutt’uno di jīva e di jagat è detto samaṣṭi.

Na antaḥprajña, non sei un individuo che sogna, non sei un individuo che veglia, non sei nemmeno qualificato dalla tua percezione dello stato di veglia e dello stato di sogno o dello stato intermedio tra veglia e sogno. La tua natura non è qualificata dalla tua individualità di veglia, dal tuo stato di veglia, dalla tua individualità di sogno, dal tuo stato di sogno. Tu non sei prajñānaghanam, cioè non sei la non-manifestazione di tutte le percezioni; le percezioni sono tutte lì ma non sono percepite. Questa si chiama non-manifestazione, si chiama prajñanaghanam; e, poi, tutte le percezioni diventano di nuovo manifeste. Nemmeno la non-manifestazione delle percezioni qualifica la tua natura. Suṣupti, vista come uno dei tre stati, non qualifica la tua natura: interpretata nella veglia come uno dei tre stati, non qualifica la tua natura. L’uomo non discerne tra lo stato di non-manifestazione e la presenza di sé, non li distingue. Quindi ogni volta che le cose sono non-manifeste dice “non ci sono nemmeno io”,

“Io non conosco niente e non ho percezione di me come individuo. Vado in sonno profondo e non ho percezione di me stesso”. Dice “non ho percezione di me” perché nello stato di veglia guarda a se stesso come a qualcosa che può essere percepito, che è un oggetto di pensiero. Tu come individuo sembri come fossi un oggetto di pensiero e di percezione;

Nello stato di sonno profondo il pensiero si dissolve del tutto, quindi non sei un oggetto di pensiero e di percezione. Poiché non puoi essere oggetto per il tuo pensiero e del tuo percepire, dopo che ti sei svegliato pensi che lì non c’eri. Pensi che non c’eri perché non discerni tra l’assenza di percezione e la presenza di te stesso, la differenza tra bīja bhāva (stato non manifesto) e il tuo proprio bhāva (esistenza, presenza). Non capisci la differenza tra il non-manifesto e la presenza di te stesso; non capisci la differenza tra l’assenza di percezione e la presenza del tuo proprio sé e perciò definisci lo stato di sonno profondo come uno stato di non-percezione. La śruti lo chiama ghanaprājña: come nelle tenebre (andhakāra) ci sono oggetti, ma c’è una coltre di oscurità che impedisce di vederle. Questo è chiamato ghanaprājña: “non vedo nulla”. L’intero prājña (essere cosciente) diventa non-manifesto. Dove diventa non-manifesto? Nell’essere stesso che è presente.

Non c’è viveka da compiere tra il manifesto con la tua presenza, e il non-manifesto con la tua presenza nel non-manifesto. Quindi neanche lo stato non-manifesto della tua presenza qualifica la tua natura. Non sei qualificato da nessuna percezione in generale, è un’affermazione generica; che tu non sia prājña significa che non sei un percepente in generale, non sei un percepente in quanto tale, non sei un pensatore in quanto tale. All’inizio si diceva che non sei un pensatore della veglia, non sei un pensatore del sogno, sei libero dallo stato di sogno e dallo stato di veglia; e sei anche libero dallo stato di sonno profondo considerato quale uno dei tre stati. Ora si dice “non sei un pensatore in generale”.

Supponiamo che pensi allo stato di veglia, allo stato di sogno: stai pensando in termini di percezione, di non-percezione, di percezioni di vario tipo. Lo stato di veglia è una percezione, lo stato di sogno è anch’esso uno stato di percezione e il sonno profondo lo chiami stato di non-percezione. Anche il paradiso è uno stato di percezione. in questo modo pensi sempre in termini di percezione e di non percezione. Tu non sei un individuo che percepisce, la percezione non qualifica la tua natura, la relazione percepente-percepito non qualifica la tua natura. Non sei nemmeno un essere privo di coscienza, non sei privo di cetanā. Anche l’assenza di coscienza è un pensiero, perché anche pensare che “io non ero cosciente” è un pensiero.

Perciò descrivi la coscienza con il linguaggio; non puoi descrivere il tuo Sé con un linguaggio affermativo. Lo puoi solo descrivere in un linguaggio correttivo. Puoi dire “ero libero dal pensiero”; ma anche “libertà dal pensiero” è dal punto di vista della veglia. “Libertà dal pensiero” non è la descrizione della natura del Sé; che “la libertà dal pensiero non qualifichi la mia natura” è un’affermazione correttiva. Il Sé non è presenza di pensiero: il Sé non è qualificato dal pensiero o dall’assenza di pensiero, non è un pensatore né un non pensatore. Questa è un’affermazione correttiva. Dire che è libertà dal pensiero, nemmeno è corretto: il tuo Sé non è né un pensatore né un non pensatore. È una presenza di Sé; non è né un pensatore né un non pensatore. Perciò lo Śāstra non afferma che “non è un pensiero” e nemmeno che “non è libertà dal pensiero”, ma dire che “non è pramātā né non-pramāta”, che è libero dall’essere sia un pensatore sia un non-pensatore, (significa che) è solo se stesso. Anche la capacità di pensare è pensata e quando pensiamo al non pensare come a un pensiero, è anche questo un pensiero. La facoltà di pensare è pensiero e anche la non capacità di pensare è pensiero. Il pensiero non qualifica la natura della Realtà: per questa ragione il Bhāṣyakāra dice che il Sé non è privo di Coscienza. Coscienza è sinonimo di Essere. Se si deve descrivere la Coscienza, essa significa “na antaḥprajñam, na bahiṣprajñam, na ubhayataprajñam, na ghanaprājña, na aprajñam” [non coscienza esterna, non coscienza esterna, non entrambe le coscienze, non coscienza omogenea, non priva di coscienza]; la si può descrivere correttamente, ma non in un linguaggio affermativo. Allorché si sente la parola Coscienza, essa suona come una parola affermativa, ma coscienza significa che non è inerte (jaḍa): la parola Coscienza dovrebbe essere interpretata per indicare che “non è inerte”. Perché interpreti la parola Coscienza per dire che “non è inerte”? Perché l’uomo pensa che la Coscienza sia inerte in quanto crede di essere il corpo inerte. Dunque, devi dire che “non è inerte”. “Non inerte” è implicito nella parola Coscienza.

Sorge ora una domanda: lo stato di veglia, lo stato di sogno, lo stato di sonno profondo, l’individualità della veglia, l’individualità del sogno e l’individualità del sonno profondo, sono davvero sperimentati come tali? Ciò significa che il sonno profondo è pensato come uno dei tre stati da un individuo in veglia. Per questo motivo il terzo stato è un altro sthānam e il jīva è un altro sthānin. Invece, in base all’esperienza in suṣupti, lì non sei né un individuo né hai un’idea di non-percezione: è solo la presenza del tuo proprio Sé. Puoi dire “non si percepisce”, la verità non essendo oggetto di percezione; Quando si è liberi dall’incorporazione, si è anche liberi dalla percezione. Ora ci si pone un’altra domanda: lo stato di veglia sembra così reale, lo stato di sogno sembra così reale, lo stato di sonno profondo sembra così reale: come si puoi concludere che sono mithyā? La tua conclusione che sono mithyā si basa solo sul fatto che la śruti lo dice o ci sono delle prove? Non puoi liquidare i tre stati come il serpente nella corda; per lo meno che il serpente nella corda sia falso può essere verificato. Ma puoi provare che i tre stati sono falsi? Non sembra sia possibile provare che siano mithyā.

Il siddhāntin dice che lo stato di veglia è sostituito dallo stato di sogno e lo stato di sogno è sostituito dallo stato di veglia ed entrambi sono sostituiti dallo stato di sonno profondo e tutti e tre gli stati hanno laya nel nirviśeṣam; lo stato di veglia, lo stato di sogno e lo stato di sonno profondo hanno laya nell’anubhava. Nel nirviśeṣam, che è la natura dello stato di sonno profondo, tutti hanno laya. Tutto ciò che ha laya è mithyā perché non è separato dalla propria origine. Mithyā non significa che sto negando qualcosa, significa che non ha un’esistenza indipendente. come il tavolo è mithyā, il tavolo è satyam. Il tavolo non può sostituire il legno, ciò che non è sostituibile è satyam, ciò che è sostituibile è mithyā. Se la veglia è sostituibile, significa che è passibile di laya, come il serpente è sostituito da un bastone e il bastone è sostituito da una ghirlanda e la ghirlanda è sostituita da un filo d’acqua, ecc.; ma nessuno di questi sostituisce la corda, la corda è insostituibile. Tutto ciò che è insostituibile è satyam, tutto ciò che è sostituibile è mithyā: questa è la prova. La nostra stessa esperienza ci dice che i tre stati sono sostituibili ma il nirviśeṣam non è sostituibile. Ciò che non è sostituibile in assoluto è l’essere cosciente, mentre ogni stato che è sostituito è mithyā, è asat. Asat non significa che non c’è; non è come le corna dell’uomo: l’assenza è diversa da mithyā. Sembra essere presente, ma se lo si esamina, è mithyā. Sembra esserci, ma all’esame sembra non essere separato dalla sua origine. Questo è chiamato mithyā. L’uomo non ha corna, dunque non è né satyam mithyā; una cosa del genere la chiamiamo tuccham abhāva (vuota inesistenza). La lepre non ha corna: ciò che non c’è non c’è: non è né satyam mithyā. Invece, quando vedi che lo stato di sogno c’è e che poi, alla fine, non è separato da te e che non è vero, allora questa cosa è chiamata mithyā. Mithyā è ciò che è percepito come vero, ma che, ad attento esame, si percepisce non essere vero ed è comprensibile come non vero, è chiamato mithyā. Tuttavia all’inizio appare vero. Quando al vyavahāra appare vero, ma è comprensibile al vicāra come non vero, questo è chiamato mithyā. Sinonimo di mithyā è asat: asat significa mithyā. Ciò che non c’è affatto è abhāva (inesistenza), è tuccham (vuoto), è atyanta abhāva (del tutto inesistente): atyanta abhāva significa che non c’è.

Lo stato di veglia sembra essere reale; lo stato di sogno sembra essere reale; lo stato di sonno profondo, preso come uno dei tre stati, sembra essere reale. La percezione sembra essere così reale, la non-percezione sembra essere così reale, la vita sembra essere così reale, la morte sembra essere così reale, ma con il vicāra sono tutti dissolvibili, non sono soltanto falsificabili. È evidente che hanno laya e, se è già evidente che hanno laya e che per mezzo del viveka possono essere compresi come falsi, laya è evidente. Se laya è evidente, la loro falsificabilità è evidente e tutto ciò che ha laya lo puoi immediatamente chiamare asat. Tutto ciò che può essere trasceso, tutto ciò che può essere oggettivato, ecc., tutto ciò che è oggettivabile ha laya e quindi è asat. Tutto ciò che è sostituibile è mithyā, tutto ciò che non è te è mithyā, tutto ciò che non ti qualifica è mithyā. All’inizio il discepolo deve osservare molti dettagli, ma man mano che acquisisce familiarità con il Vedānta capisce che tutto ciò che non è la propria esistenza è mithyā. Essere è satyam e tutto ciò che viene pensato, percepito, sentito è mithyā; l’intero dominio del pensiero è mithyā.

Il pūrvapakṣin dice che la Verità è sostituita da suṣupti. “Tu dici che l’essere cosciente è insostituibile, lo stato di veglia è sostituibile dal sogno, lo stato di sogno è sostituibile dallo stato di sonno profondo, ma l’essere cosciente non è sostituito da nessun altro stato. Il pūrvapakṣin dice che è vero che la veglia e il sogno sono sostituibili, ma anche l’Essere cosciente è sostituito dalla non-coscienza. Nella veglia si è coscienti, nel sogno si è coscienti, ma nel sonno profondo si perde la Coscienza, il che vuol dire che la Coscienza è sostituita dalla non-coscienza.

Il siddhāntin ribatte: No: in suṣupti la tua identità cosciente non se ne va, perché la stessa suṣupti è un’esperienza. non dire che in suṣupti stai sperimentando la Coscienza: suṣupti è essa stessa esperienza, l’anubhava. Se è anubhava, allora solo un essere cosciente ha anubhava: una cosa inerte non può avere anubhava. Perché dici che l’identità cosciente è presente nello stato di veglia? Devi rispondere “perché lo sperimento”. Tu sei lì come sperimentatore e lo stato di veglia è sperimentato da te, quindi sei cosciente. Perché sei cosciente nel sogno? Perché sperimenti lo stato di sogno. Allo stesso modo, perché sei cosciente nello stato di sonno profondo? Perché sperimenti anche lo stato di sonno profondo. “Ma non c’è alcun oggetto da sperimentare”! L’anubhava non dipende da alcun oggetto di esperienza, è anubhava svarūpam. Un oggetto è anubhava viṣayam. Ma, anche se non c’è alcun oggetto da illuminare con la luce, la luce c’è comunque, che è nirviśeṣam. Pertanto, quando davanti agli occhi non c’è una forma da vedere, la forma non c’è, ma la vista c’è. La vista cosciente non dipende da alcun oggetto. Perciò anubhava svarūpam non dipende da alcun anubhava viṣayam.

Ecco perché la śruti dice che la natura cosciente dell’essere cosciente non si perde mai; la relazione vedente-visto scompare. Questa è una relazione; quest’ultimo è inerte. ma non la coscienza, anche se appare come vedente di qualcosa. “Vedente di qualcosa” è chiamata relazione. Quella relazione può essere trascesa, ma l’identità cosciente di chi vede non può essere persa. Per tutte queste ragioni, tu non sei antaḥprājñam, non sei bahiṣprajña, non sei ubhayataprajñam, non sei prajñam, non sei aprajñam: quindi sei adṛṣṭam. Adṛṣṭam significa che non sei un oggetto, non sei una cosa oggettivata. Poiché non sei un oggetto, non puoi interagire con te stesso: nessuno può interagire con la Realtà.

Quando interagisci con altre persone, stai interagendo solo con il jīva. Non stai interagendo con la loro natura; la loro natura rimane intatta. Quindi non puoi interagire con ciò che non è oggettivabile. Le tue emozioni sono per il jīva: non puoi avere alcuna emozione per la Verità, Per Bhagavān in quanto tale non puoi avere alcuna emozione, per Bhagavān in quanto nirviśeṣam non puoi provare alcuna emozione; in quanto nirviśeṣam è libero da volontà. Quando provi sentimenti per Bhagavān come per qualcuno che ti ama, stai interagendo con la tua idea di Bhagavān, non con Bhagavān. Non puoi afferrare la Verità con le tue facoltà d’azione.


  1. Con queste frasi Svāmījī intende criticare la concezione di ‘pensiero corretto’ secondo Nāgārjuna, che si limita a un livello d’indagine semplicemente logico. Letteralmente, infatti, upāya bhūta significa ‘elemento (logico) strumentale’ e upeya bhūta ‘elemento (logico) conclusivo’. Il Vedānta, invece, per ‘pensiero corretto’ usa il termine vicāra, vale a dire l’indagine basata sul metodo discriminante tra Ātman e anātman [N.d.C.].[]
  2. Con questa affermazione Svāmījī si richiama alla Kārikā I.15 e, in particolare, al conseguente commento di Śaṃkara: “Il sogno è di colui che conosce in modo erroneo”, come avviene con la cognizione del serpente proiettata sulla corda negli stati di veglia e di sogno. Il sonno (nidrā, da non confondere con suṣupta), che è assenza di conoscenza della Realtà, è presente in tutti e tre gli stati. Poiché sogno (suṣupta) e sonno (nidrā) sono caratteristiche comuni di Viśva e Taijasa, questi due sono trattati come se fossero un solo stato.” Sogno e veglia possono essere, dunque, trattati come se fossero un unico stato allorché si considera che entrambi sono proiezioni della conoscenza errata (mithyā jñānam). Da questo punto di vista, la veglia appare come una parte e il sogno come l’altra parte di un medesimo stato. Invece lo stato di sonno profondo appare al vegliante come fosse assenza di conoscenza (jñāna abhāva) [N.d.C.].[]
  3. L’uomo comune pensa di percepire mentre guarda e di non percepire quando chiude gli occhi. In realtà, quando chiude gli occhi, egli percepisce l’assenza di ciò che è visibile, è semplicemente anupalabdhi, constatazione dell’assenza di oggetti di percezione. Suṣupta, invece, è libertà dalla percezione, è esperienza dell’Ātman libera dalla percezione dell’anātman [N.d.C.].[]