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Svāmī Prabhuddhānanda Sarasvatī Mahārāja

21. Commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda

Agama Prakaraṇa

Note sul Śaṃkara Bhāṣya riguardanti la Kārikā I.9

Un altro punto è molto importante: i sensi possono rimuovere la non conoscenza di un oggetto e questo si chiama rimuovere l’oscurità da un oggetto. Qualsiasi pramāṇa rimuove solo l’ignoranza di un oggetto. Qualsiasi pramāṇa può solo rimuovere l’ignoranza di un oggetto o correggere un errore sull’oggetto, ma l’evidenza di un oggetto non è resa evidente dal pramāṇa, è resa evidente dalla Verità stessa; è alla luce della Verità che tutto è evidente. L’universo è evidente alla luce della Verità. Quando usi i sensi, allora questa è una forma, questo è un suono e dici anche che i sensi solo differenziano i [loro] cinque oggetti1. L’evidenza del mondo è alla luce della Verità, è la Verità che illumina: solo ciò che illumina un oggetto lo rende evidente. Renderlo evidente significa, secondo te, che la luce rende evidente la forma, ma sia la luce fisica sia la forma sono rese evidenti alla luce della Verità. Quindi, la definizione di pramāṇa è prāma karaṇam pramāṇam, ciò che porta alla conoscenza di un oggetto. La conoscenza di un oggetto è creata da un pramāṇa, e conoscenza significa libertà dall’ignoranza su di esso, libertà dall’errore su esso: ma i pramāṇa non rendono evidente (siddhi) un oggetto; siddhi non è basata sul pramāṇa. Il pramāṇa può aiutarti a conoscere ciò che è evidente: l’evidenza è solo la Verità. Ciò che rende tutto evidente è la Verità: la forma è evidente alla luce della Verità e quando uso gli occhi arrivo a conoscerla. Perciò, essendo la conoscenza definita quale negazione dell’ignoranza, si usa la parola “conoscenza”. La conoscenza nasce dal pramāṇa, ma l’evidenza non nasce dal pramāṇa. L’evidenza è lì; e se non è già evidente, se non è nella mia esperienza, non posso conoscerla perché deve rientrare nella mia esperienza. I sensi possono aiutarmi a conoscere un oggetto se è già all’interno della mia esperienza. Perciò il jñānam è pramāṇa phalam. La libertà dall’ignoranza è pramāṇa phalam ma l’evidenza di un oggetto non è pramāṇa phalam. Se si usa un’ascia per dividere un tronco di legno in due pezzi, essa può ricavare solo due pezzi, non può ricavarne quattro perché non è usata per questo. Un pramāṇa non è usato per l’evidenza, un pramāṇa è usato per conoscere ciò che è evidente; l’evidenza è indipendente dal pramāṇa. Allo stesso modo, il pramāṇa del Vedānta rimuove l’ignoranza, rimuove l’errore su ciò che è autoevidente; pratyākṣa e gli altri pramāṇa rimuovono l’ignoranza degli oggetti che sono evidenti alla luce della Verità; sono resi evidenti, sono dimostrati. Il Vedānta pramāṇa rimuove l’ignoranza, rimuove l’errore dall’autoevidente; invece, l’autoevidenza non nasce dal Vedānta pramāṇa. La nostra esistenza non nasce dal Vedānta pramāṇa: la nostra esistenza è indipendente dal Vedānta pramāṇa, è svataḥsiddham, è autoevidente.

Le affermazioni correttive non portano all’evidenza, ma si limitano a correggere l’errore e non hanno altro compito, proprio come l’uso dell’ascia non ha altro compito se non quello di dividere il tronco di legno in due pezzi. Allo stesso modo la funzione di un pramāṇa si conclude quando ti dà la conoscenza di ciò che è già evidente. Tuttavia, la conoscenza non è il risultato del pramāṇa: l’evidenza è all’interno della mia esperienza. Gli oggetti non sono resi evidenti dai sensi, gli oggetti sono resi evidenti alla luce della Verità, l’universo è evidente alla luce del proprio essere. Allora cosa fanno i sensi? I sensi solo rimuovono l’ignoranza da esso: quando uso gli occhi vengo a conoscenza della forma e del colore, quella forma e quel colore che sono già all’interno del mio campo. Infatti, tutto ciò che è passibile di conoscenza è già evidente. È già evidente, mentre gli esseri umani tendono a pensare che sia la conoscenza a renderlo evidente. Noi conosciamo ciò che è già evidente. Pramāṇa janya jñānam [il pramāṇa produce conoscenza] non rende evidente il fatto, il pramāṇa rimuove solo l’ignoranza su un fatto. Perciò il mondo è immerso nella luce del tuo essere, non è immerso nella luce dei sensi, la materia di cui è fatto non è i sensi, il suo cuore e la sua anima non sono i sensi: i sensi solo ti aiutano a conoscere gli oggetti, i sensi non rendono il mondo evidente. Allo stesso modo il Vedānta non fa esistere la nostra esistenza, il Vedānta non dà esistenza al nostro essere, non ci rende evidenti; quindi non possiamo dire “non solo il Vedānta corregge l’errore ma crea anche un pensiero di conoscenza”. No, la stessa rimozione dell’ignoranza è conoscenza, la stessa correzione dell’errore è conoscenza. La conoscenza non è qualcosa che si aggiunge alla rimozione dell’ignoranza, la conoscenza non è qualcosa che si aggiunge alla correzione dell’errore, perché il pramāṇa solo rimuove l’ignoranza, la non-conoscenza è rimossa dal pramāṇa, l’errore è corretto dal pramāṇa, ma non crea un’altra conoscenza circa l’autoevidente; riguardo l’autoevidente puoi solo essere libero dall’errore su te stesso. Non puoi avere un pensiero su te stesso, come nello stato di sonno profondo puoi essere libero dal pensiero in generale e non puoi avere un pensiero sulla libertà dal pensiero: la libertà dal pensiero non può essere un altro pensiero. Perciò il Vedānta solo rimuove l’ignoranza e l’errore del Sé.

La questione è la seguente: la comprensione non è un’aggiunta alla rimozione dell’ignoranza, la conoscenza non è un’aggiunta alla rimozione dell’ignoranza, la conoscenza non è un’aggiunta alla correzione dell’errore. La conoscenza non è un risultato ulteriore, il pramāṇa ha solo un risultato. Non voglio dire che il pramāṇa ti dà la conoscenza; qualunque sia la natura di questa conoscenza, è rimossa l’ignoranza, la non-conoscenza, l’incomprensione, il non-capire. Se il cakṣu pramāṇa [la vista]) fosse inteso a dare una conoscenza oltre alla rimozione dell’ignoranza, sorgerebbe un dubbio: “chi rimuove l’ignoranza?”. Se il pramāṇa ha lo scopo di dare la conoscenza, allora chi rimuove l’ignoranza? Il pramāṇa non procura due fenomeni, il pramāṇa ha solo lo scopo di rimuovere l’ignoranza. La stessa libertà dall’ignoranza è chiamata conoscenza, è chiamata jñānam. Perciò l’evidenza di un oggetto non è il risultato di jñānam. Al contrario, la conoscenza è il risultato dell’evidenza, è vastu tantram, cioè si conforma all’evidenza, la comprensione è sempre in accordo con l’evidenza. L’evidenza non è in accordo con il jñānam, ma il jñānam è in accordo con l’evidenza. “Svāmījī, perché non consideriamo jñānam ed ‘evidenza’ come sinonimi?” No, perché l’evidenza può esserci anche senza jñānam. Anche prima di conoscere la legge di gravitazione quest’ultima era evidente; tutti i fatti scientifici sono già presenti ancor prima di conoscerli; la fattualità di un fatto è presente anche prima che lo si riconosca. Perciò pratyākṣa e gli altri pramāṇa creano sì la conoscenza, ma in accordo con l’evidenza; non è la conoscenza a creare l’evidenza. Perciò anche il Vedānta pramāṇa solo rimuove l’ignoranza. “Io non sono la forma”, è quello che non sai. Il fatto sconosciuto di te stesso è “Io non sono la forma”, il fatto sconosciuto di te stesso è “Io non ho nascita e morte”, il fatto sconosciuto di te stesso è “Io sono libero da tutte le relazioni, io sono nirviśeṣam”, il fatto sconosciuto di te stesso è “Io sono non-duale”. Questo fatto che ti è sconosciuto è evidente e il Vedānta pramāṇa ti dà la conoscenza della tua fattualità sconosciuta. Ma l’evidenza della tua esistenza c’è anche prima che tu la riconosca, non devi aspettare di riconoscerla perché sia evidente, perché ogni comprensione presuppone un’evidenza. Se si tratta di un oggetto, è evidente alla luce della Verità; se si tratta dell’universo, è evidente alla luce della Verità e la Verità è autoevidente. La creazione è resa evidente, mentre l’origine è autoevidente. Perfino la relazione origine-creazione è una parte della creazione: anch’essa è resa evidente, mentre il nirviśeṣam è autoevidente. Perciò si è nirviśeṣam anche prima che lo si riconosca. Il pūrvapakṣin critica il Vedānta perché usa solo frasi correttive e non usa frasi affermative sulla Realtà. Ma non puoi avere un pensiero corretto sulla Realtà, sulla Realtà puoi solo correggere il pensiero sbagliato. Se usi gli occhi vieni a conoscenza del vaso, i tuoi occhi possono dare la conoscenza del vaso; i tuoi occhi non creano l’evidenza del vaso. Esso si trova lì, all’interno della tua esperienza: l’esperienza è nella forma dell’esistenza stessa del proprio Sé, quindi gli oggetti sono resi evidenti alla luce dell’esistenza del tuo proprio Sé. Quindi “quello è un oggetto di esperienza” (anubhava viṣayatvam), è un’affermazione diversa da “gli oggetti sono conosciuti attraverso i sensi”. Quando si dice “il mondo è anubhava viṣayam”, è nella luce della Verità: questa è la sua implicazione. L’universo è illuminato dalla tua esperienza, l’universo è illuminato dall’esperienza e quest’ultima non è altro che la Coscienza, che è la natura della Verità. Allora, cosa fanno i sensi? I sensi ti danno solo la conoscenza di ogni oggetto, i sensi sono i pramāṇa, pratyākṣa pramāṇa, ecc. I sensi ti danno la conoscenza degli oggetti, la logica (tarka) ti dà la conoscenza degli oggetti e śābda pramāṇa ti dà la conoscenza degli oggetti. Tutti i pramāṇa hanno lo scopo di darti la conoscenza degli oggetti; ma gli oggetti sono già evidenti alla luce della Verità. Anche se diciamo ‘sono evidenti ai sensi, ecc.’, sono solo anubhava viṣayam. Ma quando parliamo dell’evidenza, questa è resa evidente dalla Verità.

I sensi non rendono evidenti gli oggetti; i sensi solo ti aiutano a conoscere gli oggetti che sono già evidenti, che rientrano nella tua esperienza. Non solo il vaso in quanto vaso è conosciuto attraverso i sensi, ma anche il vaso, in quanto diverso dal suono, è qualcosa di visibile, è anch’esso una percezione sensoriale, è una cognizione e il fatto che sia un vaso è un riconoscimento. I sensi hanno la funzione di conoscere un oggetto e di riconoscere un oggetto, ma la sua evidenza non è nei sensi, l’evidenza dell’oggetto è nella verità; essi sono falsi (mithyā), sono dei mithyā nella verità, sono evidenti nella verità. Possono essere mithyā, ma sono nella verità. Per quel che riguarda la propria esistenza, neanche essa può essere conosciuta né riconosciuta come un oggetto. Può essere riconosciuta come un non-oggetto; come un non-oggetto perché viene scambiata per un oggetto, quindi il riconoscimento di sé stesso è che “io non sono un oggetto”. Un oggetto è riconosciuto come oggetto, mentre il Sé è riconosciuto come non-oggetto e, oltre a riconoscere il Sé come non-oggetto, tu sei lì, ma non sei un oggetto: oltre a riconoscere il Sé come non-oggetto, non puoi più riconoscerlo come oggetto di pensiero. Se lo riconosci come oggetto del pensiero di nuovo significa che lo riconosci come oggetto; ma tu non lo riconosci come oggetto. Che il mondo sia riconosciuto come oggetto, significa che è oggettivabile: tutto ciò che può essere oggettivato è chiamato oggetto. Invece, tutto ciò che non può essere oggettivato, ma che è sentito come essere, evidente come essere, quello è il soggetto. Tu non puoi oggettivare te stesso, ma è evidente che sei. Tutto ciò che è evidente a te si chiama oggetto e colui al quale è evidente è il soggetto. La conclusione che “tutto ciò che non è un oggetto non c’è” non è corretta perché essere è evidente e non puoi concludere che sia inesistente. Pertanto, oltre alle affermazioni correttive della Verità, nessun’altra affermazione è valida. Perciò l’intero Vedānta è pratiṣedhika śāstram, è una scrittura correttiva. Il pūrvapakṣin si sente a disagio in questa situazione che afferma solo che “non è questo, non è questo”. D’accordo, ma allora cos’è? La Verità non può essere descritta come qualcosa che è, non può essere descritta in termini positivi. Anche se lo dici, significa solo che “non è materiale, non è materia”. E, ovviamente, se dici “è illimitato” significa “non è limitato”. Ogni affermazione riguardante la Verità può essere interpretata solo come un’affermazione correttiva. “È infinito” è un’affermazione correttiva. Sull’infinito puoi forse fare delle affermazioni descrittive? Puoi fare delle affermazioni descrittive sul silenzio? Puoi solo dire che è libero dal suono, libero dal colore, libero da questo e da quello, “neti neti”. Sull’incolore? Per favore, fa’ delle affermazioni descrittive sull’incolore! Non puoi farlo. La Verità non può essere descritta tramite affermazioni. Se è descritta da un’affermazione descrittiva, allora questo è un errore. “Sono un pensatore”, è un’esperienza affermativa, ed è un errore; “sono sposato”, questa è un’esperienza affermativa, ed è un errore. Quando pensi allo stato di sonno profondo, lo stato di sonno profondo non è un’esperienza affermativa: è libero da tutto, “neti neti”. Libero da tutto, libero dalla creazione, libero dal tempo, libero dallo spazio, libero dal pensiero: è un’esperienza correttiva.

Il pūrvapakṣin si sente a disagio e contesta: «Tu sai solo dire ‘non è questo, non è questo’. D’accordo, ma, che cos’è ‘questo’? Quelli che dicono “neti neti”, in risposta alla domanda su cosa sia ‘questo’ rispondono “Tu sei Brahman”.» Questo è sbagliato; anche in “Tu sei Brahman” c’è solo una correzione. Che “tu” sia paricchinam (separato, individuale) è corretto dalla tua identità con “Quello”, e l’idea che “Quello” sia trascendente (parokṣa) è corretta dall’identità con il tuo Sé intimo. Ciò che pensavi fosse lontano è te, ciò che pensavi fosse illimitato è te; “il limitato è illimitato”. Che affermazione è mai questa? È affermativa o correttiva? È correttiva: ciò che pensavi fosse lontano non è lontano, è te. C’è solo l’affermazione correttiva, perciò è sbagliato dire che il Vedānta si riferisca affermativamente alla Verità. Ecco il perché: allorché la Taittrīya Upaniṣad dice che “Quello” è “satyam jñānam anantam”, anche se questi sembrano termini affermativi, il Bhāṣyakāra spiega che satyam significa non-materia, non-forma; è satyam, non è la forma. Jñānam significa che non è privo di coscienza (jaḍam). E anantam significa che non è paricchinam”.

Anche le affermazioni, se le osservate con attenzione, altro non sono che correttive. Persino il termine affermativo “Sākṣin”, invero significa “non-pramata”. “Tu sei il Sākṣin” significa che tu non sei un pramata. Sākṣin significa che non sei all’interno di un determinato stato, ma che sei il Sākṣin di uno stato; tu non sei situato in alcuno stato, la tua esistenza non è situata in alcuno stato. Tuttavia, la parola Sākṣin appare come un termine affermativo; ma è affermativo? Quando capisci che tutti i termini affermativi sono termini correttivi, allora sei un grande Vedāntin. Non è possibile dare una descrizione affermativa della Verità, non si può fare una descrizione affermativa del silenzio. Sull’albero si possono fare innumerevoli affermazioni: “l’albero è alto”, che è affermativo; “ha molti rami”, che è affermativo, ecc. Tutti i sostantivi sono descritti per mezzo di aggettivi, e queste sono tutte descrizioni affermative. “Sono padre, sono madre”, sono descrizioni affermative, sono ruoli affermativi. Tutte le esperienze affermative su se stessi sono adhyāsa.

“Essere” significa essere liberi da tutto; anche che tu sia solo essere sembra affermativo: è un insegnamento che significa che non sei un agente, che sei akartā. Akartā, essere non-agente, è affermativo o correttivo? È correttivo: Essere è che tu solo sei, non sei un agente. Quindi, il disagio del pūrvapakṣin è ingiustificato; tu stai solo dicendo “neti neti” la verità è libera da questo, la verità è libera da questo e allora, per quello che riguarda che cosa sia “questo”, il suo disagio è ingiustificabile perché la Verità non può essere descritta in termini affermativi. I sostantivi possono essere descritti con gli aggettivi in termini affermativi, ma la Verità, il Sé, non può essere descritta in termini affermativi: può essere descritta solo in termini correttivi. Anche quando si dice “Dio è la causa dell’universo”, “L’Ātman è l’origine dell’universo”, sembra un’affermazione; ma a ben guardare ciò ti sta comunicando che non è una parte della creazione; è origine della creazione non una parte della creazione, dunque, è una esperienza correttiva. Sākṣin implica che non sei situato nelle avasthā, non sei confinato in nessuna avasthā; il fatto che tu sia il Sākṣin dei tre stati vuol dire che tu non sei confinato in nessuno stato. Che cos’è questo? È una correzione; la parola Sākṣin è correttiva, come anche è correttiva la parola causa del mondo (jagat kāraṇam); che si tratti di adhyāropa dṛṣṭi o di svarūpa dṛṣṭi, non si può formulare alcuna frase circa la Verità se non come affermazione correttiva. “È origine della creazione” significa che non è una parte della creazione. Ecco perché il Bhāṣykāra dice di non prendere Satyam per un termine affermativo: non è qualcosa di non vero (anṛtam), non è una parte della creazione, non è un determinato particolare della creazione, non è qualcosa di inerte (jaḍam) che si chiama [erroneamente] jñānam, non è un determinato pensiero. È jñānam perché anche una vṛtti (modificazione della mente) è jaḍam. Tutto ciò che può essere oggettivato è jaḍam, un oggetto è jaḍam, anche un pensiero è jaḍam e jñānam significa tutto ciò che è diverso da ciò che è inerte. Quindi, il pūrvapakṣin si sentirà a suo agio se capirà che la Verità non deve essere descritta in alcun termine affermativo. Se nell’esperienza affermativa ci fosse beatitudine (ānandam), allora perché dovresti trascendere ogni cosa per ottenere l’ānandam nel sonno profondo? In realtà ogni tua esperienza affermativa è un’esperienza particolare, è un fatto scontato, mentre in quanto libero da tutto sei completo: come padre sei limitato, come madre sei limitato, come impiegato sei limitato, come forma sei limitato; invece, libero da tutte le forme e da tutte le funzioni sei completo: questa è la natura della Realtà. La Realtà per natura è piena, quindi non sentirti a disagio con il ‘neti neti‘. Infatti parlare della Realtà in termini correttivi è la gloria degli Śāstra: se si parla della Verità in termini affermativi, allora la Verità diventa limitata: ogni esperienza affermativa è limitata. La parola nirviśeṣam è un termine correttivo o affermativo? È un termine correttivo, vuol dire libero da ogni differenziazione (viśeṣa). Non si può usare alcun termine per la Realtà se non come termine correttivo. Sebbene sembri un termine positivo, il senso sottinteso (dhvani) è un termine correttivo. Anche un termine positivo deve essere inteso come termine correttivo: il senso sottinteso è correttivo. Ciò che è chiamato dhvani è Sākṣin; ma il dhvani è che non è situato nello stato: il termine è che “è l’origine dell’universo”, ma il senso sottinteso vuole indicare che non è una parte della creazione. Quindi la Verità non può essere descritta con alcun termine positivo. Tutte le esperienze affermative sono adhyāsa e tutte le esperienze affermative sono negate, cosa che si chiama correzione. “Io sono il corpo (deha)” è una sensazione affermativa a cui si risponde “tu non sei la forma”. “Io sono un individuo”: no, tu non sei un individuo. “Io sono limitato”: no, tu non sei limitato. In realtà ogni esperienza affermativa è negata e tutto ciò che l’uomo sente di sé in termini positivi, tutto ciò che l’uomo sperimenta di affermativo su di sé deve essere corretto. Una volta fatta la correzione tu non puoi alterare la Verità. Allo stesso modo, una volta trasceso il pensiero, non puoi interferire con il tuo Sé: puoi solo Essere; ogni interferenza è solo pensiero, idee dedotte. Ogni idea è un’idea affermativa e l’intera scienza è insegnamento affermativo. Ogni aparavidyā è un insegnamento affermativo, mentre il Vedānta è un insegnamento correttivo: “tu non sei questo, non sei questo”. Tutto l’insegnamento affermativo corrisponde alla tua ignoranza (adhyāsa): “io sono il deha (corpo)” è affermativo. Descrivi te stesso in modo affermativo dicendo “io sono un individuo”, “io sono questa forma”. Ti vedi come un sostantivo con aggettivi e ogni sostantivo è descritto in termini di aggettivi perché la descrizione è sempre in termini affermativi: “l’albero è alto” è un termine affermativo, “è verde” è un termine affermativo, ma quando si dice “l’Ātman è e tu sei l’Ātman”, ciò implica che “tu non sei il deha”.

Quando diciamo “è pieno di pace” (śānta), significa che è libero da ogni turbamento; la Realtà è sempre intesa in termini di “libera da tutto”, mentre la conoscenza non-suprema (aparavidyā) è sempre intesa in termini di sostantivi e aggettivi. Perciò al di là della correzione, oltre alla correzione, non si può intaccare la Realtà. “Sono un vegliante” è un termine affermativo; “sono un sognatore” è un termine affermativo, “sono uno sperimentatore dell’ignoranza” è un termine affermativo; ma in suṣupti, suṣupti, in quanto sperimentata, è libera da tutto. Quindi, suṣupti deve essere considerata in due modi: suṣupti in quanto uno dei tre stati è pensata nello stato di veglia, ma suṣupti durante suṣupti non è pensata come uno dei tre stati; quindi suṣupti quand’è sperimentata è libera dallo stato di veglia, libera dallo stato di sogno, libera anche dallo stato di sonno profondo considerato come uno dei tre stati. Si pensa al sonno profondo come uno dei tre stati solo in stato di veglia, il che significa che lo “stato” di sonno profondo è una parte dello stato di veglia. Invece l’esperienza del sonno profondo è libera dalla veglia e dal sogno; perciò quando si sperimenta lo stato di sonno profondo, quella è un’esperienza non duale in cui non c’è alcun riferimento allo stato di veglia, nessun riferimento ad antaḥprajñatvam [coscienza interiorizzata, ossia lo stato di sogno], nessun riferimento a suṣupti quale uno dei tre stati che, come tale, non è libero dai tre stati.

Pertanto, quando la Verità trascende i tre stati, è libera dai tre stati; perciò, come puoi descrivere lo stato di sonno profondo? Tu descrivi in termini affermativi, ma non puoi formulare un’espressione affermativa sullo stato di sonno profondo, non è proprio possibile. Se dici “lo stato di sonno profondo è pieno di pace” significa “è libero da tutti i turbamenti”, cioè il dhvani è che “è libero da tutti i turbamenti”. Descrivendolo ulteriormente, esso è libero dall’identità della veglia, dall’identità del sogno, dall’idea dell’ignoranza, dall’idea della comprensione. È uno stato di essere la Verità. Non è uno stato di comprensione della Verità: è uno stato in cui si è la Verità. Perciò la natura della Verità può essere descritta solo in termini correttivi, non in termini affermativi. Con la correzione dell’errore si corregge anche l’errore “io sono un individuo”. Con “tu non sei un vegliante”, il Bhāṣykāra intende dire “tu non sei un individuo che veglia”. Libertà dalla veglia significa libertà dall’individualità della veglia. Quando si è liberi dall’individualità si è illimitati: l’illimitatezza non è un’altra dimensione, la libertà dalla dimensione è l’illimitatezza, libera dalla dimensione limitata, libera dalla limitazione. La limitazione e l’illimitatezza non sono una coppia di opposti (dvandva), la limitazione e l’illimitatezza non sono antinomiche; la relazione tra l’illimitatezza e la limitazione è quella tra satya (vera esistenza) e mithyā bhāva (falsa esistenza); una è la Verità, l’altra è un errore su essa; una è apparenza, l’altra è realtà. Non si può descrivere l’illimitato in termini affermativi, nemmeno il linguaggio lo permette. Quando dici che puoi descrivere l’illimitato in termini affermativi come “grande”, allora grande è una dimensione, “più grande” è una dimensione e anche “grandissimo” è una dimensione; invece, l’illimitato è libero dalla dimensione. Per descrivere la Verità non è affatto possibile usare un termine positivo, un termine affermativo, un termine non correttivo, un termine qualificativo. “Sono alto” è un termine qualificativo, è un aggettivo. Qualsiasi affermazione positiva è un’espressione affermativa.

Quando la śruti corregge “na bahiṣprajña, na antaḥprajña” (non cosciente dell’esterno né cosciente dell’interno), vuol dire che non sei un individuo che veglia, non sei un individuo che sogna, non sei un individuo, non sei un individuo che dorme, sei libero da tutti e tre gli stati, sei libero dalla triplice individualità, Questa triplice individualità è anādi (senza inizio); la veglia non si raggiunge nel tempo, il sogno non si raggiunge nel tempo, il sonno non si raggiunge nel tempo: non è sādi (con inizio temporale). L’uomo nasce con uno stato di veglia, di sogno e di sonno profondo, che si chiama jīvatvam, anādi jīvatvam (individualità senza inizio). “Sono un individuo che veglia, sono un individuo che sogna, sono un individuo che dorme” è anādi jīvatvam. “Sono il presidente di un Rotary Club è sādi; divento un genitore nel tempo, ecc.; queste sono tutte etichette sādi, tutte etichette sādi che cambiano continuamente. L’anādi jīvatvam non cambia. Quando si corregge l’individualità del vegliante, quando si corregge il modo di conoscere (pramātritvam) del vegliante, allora si corregge il senso di limitazione. Tutto ciò che deve essere corretto è corretto. Quando si trascende lo stato di veglia si trascende l’incorporazione, si trascende il senso di limitazione.

In questa Upaniṣad si dice che se l’Ātman è advitīyam, allora che ne è del Maestro, del discepolo e della scrittura? Ci sono tre cose, ma si parla di unità. Io dico che se si comprende questa unità, si comprende che anche questa relazione è mithyā. Se si comprende il dvaitam, allora non c’è dvaitam. Senza mantenere l’unità come concetto nella tua mente, avrai sempre dei dubbi sulla realtà. L’Advaita è il tuo essere, non è un pensiero nella tua mente. Ogni concetto è un concetto determinato; l’acqua non è un concetto, l’acqua è la verità dell’onda. Non c’è forma, l’onda è solo una nozione, tutto ciò che esiste è acqua. Allo stesso modo, se l’Advaita è capito come il proprio Essere e non come un concetto determinato nella propria mente, anche il rapporto Maestro-discepolo è una nozione: una nozione che è riconosciuta in quanto nozione. La corretta conoscenza non rimane parallela alla verità dopo che si è corretto l’errore; dopo aver corretto l’errore non c’è conoscenza, infatti entrambi si dissolvono allo stesso tempo. La tigre del sogno mi sveglia, e mentre mi sveglia anche la tigre del sogno si dissolve; quando il sogno è falsificato, anche tutto ciò che c’è nel sogno viene falsificato. Quando il Vedānta mi risveglia, dopo aver falsificato l’incorporazione e il jagat, anch’esso è falsificato: la conoscenza corregge l’errore e si falsifica a sua volta: la ninna nanna ti addormenta e scompare. Quando tu trascendi la veglia, trascendi anche la ninna nanna. Usi una barca per raggiungere l’altra sponda del fiume e, raggiunta l’altra sponda, lasci la barca. La profonda via della comprensione è la giusta conoscenza che, avendo corretto l’errore, non può fare altro che dissolverlo, perché la conoscenza corretta presuppone sempre la conoscenza sbagliata. La conoscenza corretta presuppone una conoscenza errata della verità e, dopo averla corretta, la conoscenza errata stessa non c’è e ciò che rimane è solo la Verità meno l’errore, e non la Verità più la conoscenza. Nel momento in cui dici che “c’è la Verità più la conoscenza”, allora stai pensando un pensiero, non c’è nessun “più”; c’è la Verità meno l’errore, sei solo un essere in pace. Tu sei solo la presenza meno l’ignoranza. La tua presenza meno lo stato di veglia, la tua presenza meno lo stato di sogno, la tua presenza meno lo stato di sonno profondo. La tua presenza meno l’ignoranza è il Non-duale. Non c’è un “più”, c’è il meno: meno l’errore. Quando una persona diventa istruita è meno ignorante. Come individuo possiamo dire di lui “è un individuo più l’istruzione”. Ma come Verità egli è “la Verità meno l’analfabetismo, la Verità meno l’ignoranza”. La conoscenza corretta non esiste nemmeno per un secondo dopo aver rimosso l’errore. Non ha alternativa, come la tigre del sogno che ti sveglia dal sogno e si dissolve da sola. Una ninna nanna mi fa addormentare ed è trascesa.

Solo le espressioni correttive, cioè la conoscenza correttiva, ti liberano da tutti gli anartha (le cose inutili); quello che deve essere compreso è ciò che non sei, “non sono questo, non sono questo”. La Verità non può essere descritta come “è questo, è questo”: la Verità può essere descritta solo in termini di ciò che non sei.

L’indesiderabile è solo una cosa; l’indesiderabile è solo il senso di incorporazione, la limitazione. Puoi avere un’incorporazione molto piacevole, puoi avere una famiglia piacevole, puoi avere un’attività molto piacevole, puoi avere una vita molto piacevole, ma in confronto alla tua infinità la tua limitata situazione piacevole è nulla. Perciò anche ciò che c’è di meglio è inferiore alla tua natura. Si dice, per esempio, di una persona che sia un principe, istruito, giovane e che abbia a disposizione l’intera terra con tutta la prosperità che contiene, che la sua felicità è solo una goccia nell’oceano. Invece è la propria natura di Verità è che è l’oceano. Questo può darti un’idea di come il finito, anche il migliore finito, non sia paragonabile all’infinito. Il bene è finito, il meglio è finito, anche l’ottimo è finito, l’infinito non può essere qualificato. Capisci che il ricco è finito, il povero è finito, i tuoi piaceri sono finiti, come anche i tuoi dolori sono finiti; tutti i jīva sono ugualmente finiti. Ogni jīva è finito in quanto jīva, ma ogni jīva è infinito per natura.


  1. I cinque oggetti che corrispondono ai sensi sono gli elementi (pañcabhūta): alla vista (cakṣus) corrisponde il fuoco (agni), all’udito (śrotra) l’etere (ākāśa), al tatto (tvak) l’aria (vāyu), al gusto (rasanā) l’acqua (ap) e all’olfatto (ghrāṇa) la terra (pṛthvī) [N.d.C.].[]