Il metodo tradizionale per dibattere sulla dottrina
Il metodo tradizionale per dibattere sulla dottrina
Śrī Śrī Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Mahārāja
[Con questo contributo] si vuole esaminare cos’è corretto e cos’è errato nel dubbio che si pone preliminarmente e nella risposta che ne consegue, come sono stati fin qui presentati. Prima, però, si specificherà in che ordine le argomentazioni dovranno essere impostate [per un dibattito]. Infatti, si riscontra che di solito le persone al giorno d’oggi, nel corso di un dibattito, introducono argomenti o citazioni che sostengono le loro opinioni senza seguire alcuna regola procedurale. Di due contendenti, il primo esporrà il suo pensiero, a cui l’altro risponderà dal proprio punto di vista, evidenziando un qualche difetto in ciò che il primo oratore ha sostenuto, ma lo farà partendo dal suo particolare angolo di visuale. Su questa base discordante, nessuno dei due punti di vista può reggere né si può determinare alcunché che sia una critica costruttiva. Quindi si deve stabilire come regolare le argomentazioni per un dibattito.
L’oppositore [del Vedānta] potrà chiedersi se definire ciò sia davvero necessario. Chi nutre un simile dubbio sosterrà che ciò su cui si dibatte è la riflessione sugli insegnamenti delle Upaniṣad: tutto ciò a cui ci si dovrà attenere è determinare quale sia il messaggio essenziale che esse comunicano. I testi dei Veda sono eterni e di origine sovrumana. Sono privi dei caratteristici difetti umani come la negligenza e l’inganno. Poiché trattano un argomento che è al di là della portata degli altri mezzi di conoscenza (pramāṇa), il loro insegnamento deve essere accettato come autorevole e vero. In un dibattito tra due avversari, quindi, si dovrà accettare il principio per cui può essere esatto solo il punto di vista il cui argomento concorda con le Upaniṣad, mentre il punto di vista discordante dell’altra persona non sarà corretto.
Ciò potrebbe essere valido se ci fosse accordo tra i saggi su ciò che si intende per eterno e ciò che sarebbe di origine umana o sovrumana. Ma su questo punto ci sono stati pareri discordanti sia nei tempi antichi sia in quelli moderni. Così, al giorno d’oggi sentiamo lamentare che l’argomento per cui i Veda sono eterni è circolare1: vale a dire che il Veda stesso è l’unica autorità per sostenere l’eternità del Veda, e che la prova dell’autorevolezza del Veda dipende dalla sua eternità.
Anche per quanto riguarda l’origine umana c’è un problema. Una dottrina deve essere giudicata falsa solo perché è attribuita a un essere umano? Oppure si deve dimostrare che non è autentica alla luce di qualche altra autorità? La mera trasmissione di una dottrina attraverso un essere umano non può minarne l’autorità. Solo per il fatto di riconoscere unanimemente che gli stessi Veda sono stati trasmessi per mezzo di grandi veggenti come Vāmadeva ecc., dovremmo forse supporre che una scrittura possa essere respinta solo alla luce di un’altra? Adottando questa posizione, lo studioso dei Veda si pone davvero a difendere il campo del suo avversario; infatti, egli ha accaniti avversari nei cristiani, i quali ritengono che gli autori della Bibbia fossero grandi santi ispirati da Dio, e parlano sull’autorità della Bibbia di questioni come il cielo ecc., che sono al di là della portata dei mezzi validi di conoscenza (pramāṇa).
Supponiamo, a titolo d’esempio, che si stia dibattendo con certi saggi che in qualche modo sono d’accordo sull’eternità e sull’origine sovrumana dei Veda. Anche in questo caso, si dovrà spiegare come una discussione tra due di loro sulla natura della Realtà possa essere risolta esclusivamente su questa base. Come abbiamo già affermato, colui la cui argomentazione concorda con i Veda deve essere senza dubbio nel giusto. Tuttavia, anche tale affermazione non è di per sé sufficientemente corretta finché non si stabilisce su quale punto di vista sia veramente d’accordo con i Veda. Per stabilirlo, infatti, sarebbe appropriato precisare che “questo punto di vista e solo questo è sostenuto dai Veda”. Ma quale potrà essere il criterio accettato unanimemente quando c’è un dubbio su quale delle due opinioni sia realmente in accordo con i Veda? C’è ancora oggi una discussione sulla natura della Realtà tra coloro che riconoscono la necessità di aderire all’insegnamento delle Upaniṣad, ma seguendo le interpretazioni discordanti di Śaṃkara, piuttosto di quelle di Bhāskara, di Śrīkaṇṭha, di Rāmānuja, di Vijñāna Bhikṣu, di Madhva, di Vallabha, di Baladeva o di altri. Chi è l’arbitro per deliberare in questi casi quale sia il vero insegnamento delle Upaniṣad? Chi si potrebbe riconoscere capace di decidere al di sopra delle controversie quali siano esattamente le opinioni di ognuno di questi grandi fondatori di scuole? Chi studia certe opere eclettiche come il Siddhānta Leśa Saṃgraha (di Appaya Dīkṣita) trova che spesso c’è la più grande divergenza di opinioni tra i seguaci di quegli autorevoli maestri.
Nemmeno si può sostenere che la varietà delle umane opinioni non influenzi l’interpretazione dei Veda, e ciò poiché il vero significato di questi ultimi deve essere stabilito (non da speculazioni umane private, ma) da una valutazione delle caratteristiche dell’esegesi tradizionale, come l’apertura di un nuovo argomento o la conclusione di un’argomentazione tramite una ricapitolazione finale. Questo parere vorrebbe indurci a credere che i fondatori delle grandi correnti dottrinali possano differire tra loro solamente su dettagli, pur concordando sull’essenziale. Dopo tutto, ognuno dei grandi commentatori stabilisce la sua dottrina attraverso l’applicazione dei sei criteri esegetici2 per l’interpretazione delle Upaniṣad, e afferma che la sua è la vera dottrina dei Veda com’è anche sostenuta dai Dharma Śāstra, dai Purāṇa e dagli Itihāsa (Rāmāyaṇa e Mahābhārata).
Tuttavia, seppure i seguaci delle diverse correnti potrebbero sembrare d’accordo sul messaggio essenziale, costoro dichiarano che ciò può essere valido solo seguendo il loro metodo, e quindi si lanciano reciprocamente recriminazioni, il che ci induce ancora a interrogarci su quale possa essere il vero metodo per stabilire la dottrina upaniṣadica.
Passiamo a valutare un’altra credenza diffusa. Si sostiene avventatamente che i maestri classici dell’Advaita, Gauḍapāda, Śaṃkara e Sūreśvara, volevano solo stabilire l’identità di ognuno con il Sé; per questo s’appoggiavano su ciò che poteva essere conosciuto attraverso l’esperienza diretta. Non attribuivano alcuna importanza alle varie teorie a cui si arrivava per vuoto ragionamento. Per loro, secondo questa avventata opinione, non c’era alcuna contraddizione reciproca tra sistemi diversi. Quindi, come disse un’antica autorità come Sūreśvara: “È valido qualsiasi metodo di insegnamento che porti gli uomini alla realizzazione del Sé più profondo. Non c’è una regola fissa al riguardo” (Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad Vārtika, I.4.402). Le parole di Śrī Sūreśvara “Non c’è una regola fissa al riguardo” significano (sempre secondo questa affermazione avventata) che ci sono vari sistemi diversi di uguale validità. Così l’affermazione secondo la quale ci sarebbe disaccordo tra i vari seguaci dell’Advaita potrebbe essere fatta soltanto da chi parla a vanvera nel delirio, non avendo capito quanto gli antichi maestri si elevarono al di sopra del punto di vista dell’esperienza pratica quando esposero l’insegnamento da diversi punti di vista.
Chi parla in questo modo dovrebbe essere capace di dimostrare perché e in quali circostanze non si debba prestare attenzione alle questioni viste dalla prospettiva dell’esperienza pratica. Altrimenti i discepoli non capiranno il segreto della distinzione tra la prospettiva dell’esperienza pratica e il punto di vista della verità finale. Si chiederanno com’è che vari sistemi diversi possano tutti proclamare una sola verità. Per loro le contraddizioni tra i vari metodi di esposizione saranno evidenti. Sarà per loro chiaro che i maestri trovano difetti in ciò che non va d’accordo con la loro dottrina. E poiché la sensazione che “è sbagliato, perché non è (come dico io)” è applicabile ovunque ed è difficile da sostenere, è ovvio che essi arriveranno alla convinzione che “nessuna delle diverse esposizioni dell’insegnamento (upaniṣadico) può essere del tutto affidabile”, perché tra tutti i vari metodi tra loro contraddittori ci può essere una sola via per la corretta conoscenza. Come è stato detto: “Il sentiero che conduce all’oceano orientale non si dirige a ovest. C’è una sola via per la Liberazione. Ascoltate me fin nei minimi particolari” (MBh XII.266.4).
Invece, si consideri la questione da questo punto di vista. Supponiamo che un estraneo dica: “Questi polemisti, adottando tesi e contro-tesi, non fanno che proclamare che tutte le vie proposte sono sbagliate”. Chi potrebbe confutarlo? Né mancano tali osservatori. Anche solo qui in India ci sono centinaia di persone che adottano Cristo o Maometto o Zoroastro o Jina o Buddha e così via come loro autorità. Si aggrappano con fede ostinata agli insegnamenti dell’uno o dell’altro, per poi cercare di convincere anche gli altri che la loro è l’unica verità, ed espongono centinaia di argomenti a sostegno delle loro opinioni.
Poi ci sono quelli che propagandano il libero pensiero e seguono la guida di pensatori occidentali come Spencer, Huxley, Hume, Berkeley o Bergson. Essi, ovviamente, sono disinteressati alle minuzie delle dispute su punti secondari tra i seguaci dei Veda e non sono disposti ad accettare alcun punto che possa rovesciare i metodi di indagine propri del libero pensiero.
Su questo argomento si potrebbe opinare che non si dovrebbe prestare attenzione a queste persone dato che sono al di fuori della tradizione vedica. Domande sulla natura della schiavitù e della Liberazione possono essere risolte solo attraverso l’insegnamento upaniṣadico, perciò non possono essere risolte da coloro che ne sono al di fuori. I razionalisti dovrebbero essere totalmente esclusi dalle discussioni sulla Liberazione, perché i sapienti hanno giudicato la vuota razionalizzazione non basata sulla tradizione vedica per mancanza di qualsiasi fondamento solido (BSŚBh II.1.11).
Su questo punto dovremmo soffermarci. Sappiamo che anche i vicārin che sono posseduti dalla śraddhā sono colti da dubbi. Quando si sa che anche i grandi fondatori di sistemi non sono d’accordo tra loro, come possiamo essere sicuri che noi stessi conosciamo la corretta interpretazione dell’insegnamento vedico? Così stando le cose, spetta a coloro che sono attivi (ādarair, zelanti) nel promuovere la riflessione sul significato dei Veda dimostrare la fallibilità del pensiero non vedico3.
A questo proposito citiamo i seguenti versi della Sūta Saṃhitā: “O brāhmaṇa, grandi sforzi devono essere fatti per provare questo sentiero tramite ragione. Quando il sentiero vedico è stato provato, tutto quello che vale la pena è stato stabilito. È ferma conclusione delle Upaniṣad che non sarebbe una colpa uccidere la persona illusa che era capace di provare la via vedica tramite la ragione, ma che ha omesso di farlo. Colui che, preso da sacro ardore (śraddhā) si sforza di giustificarlo con la ragione anche se non ha la capacità di farlo, è sollevato dal demerito di tutte le sue colpe, e raggiunge la conoscenza metafisica diretta e immediata” (Sūta Saṃhitā II.20.54-56).
Ci sono casi in cui anche le menti dei fedeli, influenzate dalle argomentazioni dei razionalisti estranei alla tradizione vedica, sono sprofondate nel dubbio e hanno cominciato a chiedersi: “Qual è la difesa contro queste critiche ai Veda fatte da estranei?” Perciò coloro che sono ben ferrati nel pensiero vedico devono certamente esaminare anche i sistemi non vedici per smascherare la loro infondatezza, a protezione dei loro stessi allievi. Così anche i darśana non vedici, come quello dei Logici (naiyāyika)4, devono sicuramente essere confutati per il bene degli allievi che seguono i Veda. Altrimenti, perché i commentatori sopra menzionati avrebbero confutato le dottrine dei buddhisti, dei jainisti e degli altri, nei punti in cui reputavano che queste ultime contraddicessero la dottrina vedica? Perciò dobbiamo indagare per capire qual è il metodo corretto per determinare il significato dei testi vedici.
1. L’ordine con cui si deve ricorrere ai testi, alle argomentazioni e all’esperienza personale (śābda, yukti, anubhava)
A questo proposito è evidente che quando non c’è in accordo se i testi vedici siano o meno un mezzo autorevole di conoscenza, il disputante che riconosce il Veda deve presentare al suo avversario anche argomentazioni razionali e non può appellarsi esclusivamente all’autorità testuale. Così, nel suo commento ai Brahma Sūtra (BSŚBh II.2.24) Śrī Śaṃkara anzitutto dice: “L’etere è conosciuto come realtà sull’autorità dei testi vedici come “L’etere sorse dall’Assoluto” (TU II.1)”, per poi aggiungere: “Tuttavia, a coloro, che non accettano il Veda (cioè buddhisti e altri) dobbiamo dire che l’esistenza dell’etere deve essere dedotta dal fatto che esso è il veicolo del suono”.
Altresì, è diverso il caso in cui ci sia accordo sull’autorità dei Veda: la controversia, allora, riguarda soltanto la sua interpretazione. In questo caso la decisione deve essere presa secondo i metodi degli esegeti vedici, facendo appello a quei criteri che includono “l’implicazione indiretta” (liṅga), “il contesto” (prakaraṇa) e così via5, e all’altra serie che include “l’esposizione di tutta l’argomentazione compresa tra una premessa e una ricapitolazione finale come costituenti d’un unico soggetto” e così via6. Questa era la regola accettata dai ritualisti nei tempi antichi, sebbene sia stata modificata da Śrī Śaṃkara. Quest’ultimo scrisse: “Nel caso dell’indagine sul rituale vedico, i testi vedici e altri testi tradizionali sono l’unico criterio. Ma non è così nel caso dell’indagine sull’Assoluto. In questo caso gli stessi testi sono autorevoli, ma con l’aggiunta dell’esperienza immediata nel caso dei testi puramente metafisici, perché la conoscenza dell’Assoluto richiede di culminare nell’esperienza immediata (sadyo anubhava), e, a differenza delle parti dei Veda che trattano di ingiunzioni e divieti, ha per oggetto una realtà già esistente” (BSŚBh I.1.2)7.
Ma quando lo scopo non è solo di interpretare il significato dei testi vedici, ma anche quello di raggiungere la conoscenza del loro contenuto nell’intuizione immediata, come è il caso dell’indagine puramente metafisica sulla vera natura del Sé, allora il riferimento all’anubhava deve prevalere su quello ai testi, proprio perché l’indagine deve culminare nell’esperienza immediata. Nel caso dei cieli e di altre realtà, la cui esistenza può essere conosciuta solo attraverso il Veda, l’esperienza immediata non può derivare da esperienze relate al corpo in questa vita presente. Ma non è corretto dire che di conseguenza, allo stesso modo, le esperienze individuali di una persona ancora in vita non possano portare alla conoscenza della vera natura del proprio Sé, poiché tale affermazione non è conforme all’evidenza. Come dice Śrī Śaṃkara: “Nel caso dell’azione, la ricompensa, come il cielo, non è immediatamente evidente e ci può essere il dubbio se verrà o meno. Ma il risultato della conoscenza dell’Assoluto è immediatamente evidente, perché i Veda parlano dell’Assoluto in quanto immediatamente e direttamente evidente” (BU III.4.1) e insegnano “tu sei Quello” (ChU VI.8.7) come un fatto già compiuto (BSŚBh III.3.32; MV, p. 210, 447, 573).
Ne consegue che, dato che la riflessione sulle Upaniṣad è finalizzata all’esperienza immediata, nel corso di tale riflessione, nulla, che sia meramente basato sull’autorità delle parole, può essere accettato, qualora contraddica l’esperienza immediata. Così, nel commentare le Upanisad, la Gītā e i Brahma Sūtra, il venerato Commentatore si è basato sul principio che le parole danno sì informazioni, ma non hanno efficacia causale; e insegnava che le parole non possono stabilire nulla che possa contraddire l’esperienza immediata. Ne consegue che nelle argomentazioni si deve esporre solo un ragionamento che non contraddica l’esperienza immediata.
A volte i testi sono citati per sostenere il ragionamento o il ragionamento è usato come una conferma subordinata ai testi. Il principio da osservare è che un semplice testo può essere contraddetto da un testo che lo supera in autorevolezza. Ma quando l’avversario s’appella solo al ragionamento e all’esperienza (e non alla śruti), allora la parte dell’argomentazione che è oggetto di obiezione deve essere confutata sulla sola base della ragione e dell’esperienza. A questo si riferiva il venerato Commentatore nella sua introduzione al secondo capitolo del secondo libro dei Brahma Sūtra (BSSBh II.2.1), quando spiegava come le dottrine dei sāṃkhya e di altri fossero state confutate nel capitolo precedente (cioè al BSSBh II.1.1) con l’aiuto di citazioni vediche (mentre sarebbero state confutate su base puramente razionale nel capitolo successivo, BS II.2.1). Le sue parole erano: “I sāṃkhya e le altre scuole non vediche citano i testi dei Veda per sostenere le loro posizioni e li interpretano alla luce dei loro punti di vista. Finora il nostro impegno è stato volto a dimostrare che quelle interpretazioni sono false. D’ora in poi confuteremo questi oppositori su basi puramente razionali senza tener conto dei testi vedici. Questa è la differenza di come ci regoliamo in questo capitolo e come ci siamo regolati in quello precedente”.
Il punto da capire qui è il seguente. Dove si ricorre irragionevolmente ai testi vedici come prova o dove c’è una dimostrazione logica non accompagnata da una corretta comprensione dei testi vedici, tale citazione o ragionamento deve essere scrupolosamente confutato. Quando i testi vedici sono stati impropriamente citati come autorità, questa confutazione deve essere effettuata senza compromettere l’autorevolezza dei testi stessi. In tal caso ci si può appellare ad altri testi vedici di maggiore autorità (secondo quanto è stabilito dai criteri esegetici tradizionali). Ma quando l’avversario si è limitato all’argomentazione logica, non è corretto tirare in ballo i testi vedici.
2. Differenza tra la scrittura e il ragionamento combinato con l’esperienza
Non c’è nulla che impedisca a chiunque sia impegnato in una discussione di ricorrere a qualsiasi strumento di prova che sia stato da tempo accettato dagli esperti qualificati in quel campo. È quindi evidente che le scritture possano essere usate nell’argomentazione, poiché gli esperti le hanno accettate come autorevoli. Ma non bisogna dimenticare che anche gli esperti più competenti non sono d’accordo sull’interpretazione dei testi sacri. Questo è in larga misura vero sia per i maestri antichi sia per quelli moderni. I seguaci della dottrina vedica ortodossa (āstika) accettano come autorevole solo ciò che sembra loro vero. Ma anche gli esperti si contraddicono l’un l’altro su temi come se il Veda sia eterno o meno, se sia di origine non umana o meno, o quale sia più autorevole in caso di controversia tra la scrittura da un lato oppure la ragione combinata con l’intuizione dall’altro. Si deve concludere che non si dovrebbe affatto iniziare una discussione se i contendenti non possono essere d’accordo su questi punti fermi per svolgere un dibattito. Quindi, nessun cercatore ha negato né potrebbe mai negare che la ragione e l’esperienza siano rilevanti al di là delle semplici citazioni dai testi vedici. E infatti tutti fanno uso del ragionamento sia quando indagano sulla natura delle realtà esistenti sia che accettino o meno l’intera varietà degli altri pramāṇa tradizionalmente accettati.
Noi non accettiamo quel punto di vista secondo il quale il ragionamento in quanto tale sarebbe da escludersi per mancanza di un fondamento solido. Perché tutto ciò che gli antichi asserivano era che soltanto un ragionamento basato su una vuota speculazione non sostenuta dall’esperienza universale non poteva contraddire la ragione dotata di tale supporto. Non si può stabilire che il ragionamento come tale sia senza fondamento, poiché la prova di un tale parere dipende essa stessa dal ragionamento. Questo confuta coloro che citano testi come “Questa comprensione non può essere ottenuta attraverso la logica” (KU I.2.9), “non per l’esperto di logica” (MBh XII.238.17), “colui che si appella all’inutile scienza della logica” (MBh XII.173.45) e “non si dovrebbero nemmeno menzionare gli scettici o gli ipocriti” (Viṣṇu Purāṇa, III.18.99) per invalidare qualsiasi ragionamento. Infatti, è solo il ragionamento vuoto non basato sull’esperienza universale che è così denunciato, come è dimostrato dall’uso invariabile di termini come ‘mero ragionamento’ (BSŚBh II.1.11, ad init.). Se si adottasse il punto di vista che respinge ogni ragionamento, non si potrebbe affrontare l’indagine metodica sul senso delle Upaniṣad, poiché si tratta di un’indagine basata sul pensiero logico. Quindi, il ragionamento non è escluso del tutto.
L’esperienza immediata deve certamente essere accettata da tutti, altrimenti sarà impossibile accertare la natura della Realtà. Śrī Sūreśvara dice: “I rappresentanti delle varie scuole non sono in disaccordo sulla presenza del Sé come esperienza immediata. Se ci fosse disaccordo su questo, a cos’altro ci si potrebbe appellare in alternativa?” (BBV I.4.1398); e “Tutte le scuole prendono posizione sulla sola esperienza” (Naiṣkarmya Siddhi (NS), II.59, introd. in prosa). La parola ‘realtà’ (tattva) significa infatti “essere un oggetto secondo l’esperienza”. Ecco perché i teorici e gli investigatori ricorrono ai validi mezzi di conoscenza in accordo con l’esperienza immediata.
Non si può obiettare che “anche l’esperienza immediata non è totalmente uniforme”, altrimenti non ci sarebbe differenza tra errore e corretta conoscenza. Infatti, l’esperienza immediata accettata da entrambe le parti in un dibattito è il grado d’appello finale che non può essere contraddetta da alcun’altra forma di esperienza. La natura di questa esperienza diventerà chiara più avanti nella presente esposizione (cfr. §§ 71 e 121).
Si è così stabilito che anche l’esperienza immediata (oltre alla ragione) è accettata da tutti i cercatori, mentre la scrittura vedica è accettata solo da alcuni. Perciò si prenda nota che diversi disputanti hanno differenti opinioni sul Veda, ma tutti si basano necessariamente sul ragionamento e sull’esperienza immediata. Da questi due punti consegue che nell’argomentazione si deve ricorrere principalmente al ragionamento basato sull’esperienza immediata.
3. Il posto da assegnare alla citazione dei testi nell’argomentazione
Quando si pone un problema dottrinale, è allora opportuno citare le scritture, purché siano riconosciute da entrambe le parti. È vero che una volta che un punto sia conosciuto i testi vedici diventano inutili, poiché non c’è più niente da indagare tramite loro. Persino quando (il problema da discutere) non sia stato ancora deciso, anche allora l’appello ai testi vedici può rivelarsi inutile per le ragioni spiegate sopra e, dunque, la citazione dei testi potrebbe apparire superflua sia prima sia dopo averlo deciso. Ma, di fatto, ci sarà spazio per loro a controversia finita. Infatti, se vengono citati, essi alleviano l’avvilimento del perdente, espresso dalla sensazione di “essere stato sconfitto da questo avversario”. La mente del perdente comincerà a rappacificarsi per la sua sconfitta e penserà: “questa dottrina non è stata pensata solo dall’avversario che mi ha vinto. È una dottrina sostenuta dai Veda ed è stata condivisa dai sapienti dei tempi antichi. Quindi non c’è motivo che mi senta infelice”. Così Śrī Śaṃkara dice nel suo Commento alla Bṛhadāraṇyaka: “Ciò che è sancito dalla tradizione vedica e dalla ragione deve essere accettato con certezza, poiché in tal caso non ci può essere deviazione dalla verità” (BUŚBh. IV.5.1, intro).
Anche nel mezzo dell’argomentazione non è totalmente esclusa la citazione di testi vedici. Ci sono casi in cui la discussione avviene tra due persone che seguono il metodo in accordo con la tradizione vedica. Sūreśvara, tuttavia, ha detto: “Questa ben nota dottrina del Vedānta che abbiamo esposto, sebbene debba essere appresa dai testi autorevoli con l’aiuto e la grazia di un maestro, non dipende affatto dall’aiuto e dalla grazia del maestro, ma esiste e si afferma come vera di per sé’ (NS IV.19, introd. in prosa). Tutto quello che stiamo dicendo qui è che se, nel corso di un’argomentazione, citiamo un testo vedico o le parole di qualche autorità umana, non dovremmo attribuire alcuna colpa all’avversario per averlo o non averlo accettato come autorevole (cioè un avversario ha il diritto, ma non il dovere di accettare come autorevoli le nostre citazioni vediche). A questo proposito Sūreśvara ha detto: “Non sosteniamo per nulla che la ragione per la fede riposta nel Veda stia nel fatto che è di origine sovrumana (BU II.4.10); la ragione è (non la semplice pretesa, ma) l’impossibilità per il Veda delle solite cause psicologiche di invalidità delle affermazioni (di origine umana)”, (BBV II.4.325, MV p. 325). Qualunque cosa affermi il rivale, che si trovi o meno in qualche fonte autorevole, dovrebbe essere aperta all’esame critico dell’avversario per vedere se si regge o meno sulla ragione. Altrimenti chiunque potrebbe avanzare qualsiasi cosa senza prove e una vera discussione sarebbe impossibile. Così, nel corso di una disputa dottrinale, si dovrebbe riconoscere come cattiva quell’argomentazione che si basa esclusivamente su citazioni degli insegnamenti del Signore, di testi vedici, di autorità umane, o di mantra e formule segrete derivanti dalla pratica yogica, senza tenere in debito conto la ragione basata sull’esperienza universale.
4. Come tuttavia la scrittura vedica sia un mezzo autorevole di valida conoscenza
Ma ciò non significa forse che la scrittura vedica di argomento metafisico è una mera riaffermazione di ciò che è già noto attraverso la ragione, e che quindi non è un valido mezzo di conoscenza? E ciò non vale anche per le parole del maestro qualificato? Se la realtà può essere conosciuta preliminarmente solo attraverso la logica, come potrebbero i testi upaniṣadici avere una qualche autorità se vengono in secondo luogo?
Noi rispondiamo che possono averla, perché il ragionamento (nel campo della metafisica) deve essere conforme ai Veda. L’argomentazione che deve decidere su un punto di dottrina deve essere in armonia con i Veda: i Veda non sono una semplice conferma della ragione. Le antiche autorità si sono servite della ragione per interpretare il significato delle allusioni indirette nei testi vedici. Śaṃkara Bhagavatpāda scrisse: “Perché nel presente contesto si può ricorrere solo a quegli argomenti che sono sanciti dai Veda, e solo come supporto al raggiungimento dell’esperienza diretta” (BSSBh II.1.6, MV p. 73). E Sūreśvara lo ha seguito, aggiungendo: “Solo il testo sacro, in quanto sostenuto dal ragionamento per mezzo del metodo dell’accordo e della differenza (anvaya-vyatireka), trasmette la conoscenza di quel Sé che non è espresso da nessuna frase” (NS III.39, introd. in prosa). Quindi non è corretto eliminare le scritture vediche come prive d’autorità (in nome della ragione indipendente), poiché nelle questioni metafisiche la ragione stessa, correttamente concepita, si basa sul Veda.
È ugualmente scorretto dire che, se il ragionamento venisse accettato, ciò minerebbe l’autorità dei testi vedici. Perché un mezzo di conoscenza è propriamente tale solo quando è stato comprovato per mezzo della ragione. Come disse il commentatore dei Nyāya Sūtra: “La vera conoscenza sorge dal potere intrinseco di un mezzo di conoscenza, dopo che il ragionamento per confermarlo è stato comprovato e trovato convincente” (Nyāya Bhāṣya I.1.40)8.
Ma la dialettica di questo tipo è un semplice mezzo accessorio di tutti gli altri tipi di conoscenza. Sūreśvara dice: “Anche in altre discipline9 il ragionamento ausiliario è descritto come un’autorità più debole di qualsiasi mezzo di conoscenza a cui fa da supporto. Perciò non può confutarli con il suo proprio potere intrinseco” (BBV III.1.7). Così nessun mezzo di conoscenza può essere screditato semplicemente dalle argomentazioni usate nella riflessione su di esso, poiché il ragionamento così usato è subordinato a tutti quelli senza eccezione. Sūreśvara ha anche detto: “La validità indipendente dei Veda non può essere minata dai ragionamenti usati a loro sostegno, poiché i ragionamenti ausiliari hanno un soggetto diverso da quello dei pramāṇa ai quali fanno da supporto argomentativo (e non sono essi stessi mezzi di conoscenza validi nel campo specifico dei pramāṇa che sostengono, poiché un dato mezzo di conoscenza è l’unica autorità nel suo campo” (BBV III.1.6). Così, la riflessione sulla śruti è (solo di ausilio e) non è un mezzo di conoscenza (propriamente indipendente). Essa non è quindi in grado di abbassare i mezzi di conoscenza a cui fa da supporto a semplici conferme delle proprie scoperte indipendenti. Ciò che mina l’autorità di una cognizione è sempre il fatto di non produrre alcuna conoscenza o di produrre una conoscenza dubbia o una conoscenza errata, non il fatto di richiedere che sia sostenuta da un ragionamento ausiliario. Il Veda non è in alcun modo contraddetto come autorità nel suo proprio campo se dipende (per l’interpretazione e la giustificazione) dalla ragione. Nessuna obiezione potrebbe sorgere dall’inferenza usata come mezzo indipendente di conoscenza, perché il suo scopo, proprio in quanto mezzo indipendente di conoscenza, non comprende ciò che è il dominio specifico dei Veda come pramāṇa, (cioè l’intuizione metafisica diretta della vera natura del Sé). Quindi il Veda non è privato della sua autorità solo perché dipende dalla ragione (per l’interpretazione e la spiegazione).
Per quanto riguarda il fatto che la scrittura richiede di culminare nell’esperienza immediata, questo non è in alcun modo una ragione per supporre che i Veda siano privi di autorità: i pramāṇa sono autorevoli proprio perché conducono all’esperienza immediata della Realtà. Infatti, come dice Sūreśvara, l’istituzione propria di qualsiasi mezzo di conoscenza dipende dall’esperienza immediata. Le sue parole sono le seguenti: “Gli stessi mezzi di conoscenza empirica riposano e dipendono dalla Pura Coscienza” (NS I.89, intro. in prosa). Śrī Śaṃkara afferma: “Poiché essi conducono a un’esperienza immediata del Sé, gli autorevoli testi vedici che lo comunicano non possono essere confutati o contraddetti” (BSŚBh I.1.4). Nel campo della conoscenza metafisica né i Veda né il maestro (ācārya) possono essere autorevoli se ciò che insegnano non è basato sull’esperienza immediata o è in contraddizione con essa, poiché il loro insegnamento richiede di culminare nell’anubhava immediato. Sūreśvara dice: “Prima che sorga l’intuizione di ciò che è insegnato nei Veda ci deve essere la riflessione (manana) su di esso e sulle parole del maestro (ācārya). L’intuizione diventa stabile quando c’è la cooperazione dei tre fattori, l’ascolto dei testi (śrāvaṇa), la riflessione (manana) assieme al maestro e la propria esperienza (nididhyāsana)” (BBV I.4.219). Nella smṛti ci sono le seguenti affermazioni: “Molti sono gli argomenti e i trattati menzionati dai diversi saggi. Si deve meditare solo su quello che è stato esposto dai Veda com’è interpretato dalla ragione e dai veri maestri” (MBh XII.203.20). Nella Sūta Saṃhitā è detto: “Ti giuro tre volte che solo quelle persone che raggiungono la conoscenza metafisica arrivano, attraverso un corretto ragionamento, a vedere l’identità del proprio Sé come è qui descritto (per mezzo del “tu sei Quello” interpretato tradizionalmente) e il Signore come è qui definito; questo attraverso la propria esperienza immediata e l’adeguata istruzione del Guru” (Sūta Saṃhitā, IV.12.36-37). Quindi non si può obiettare che i Veda siano non autorevoli per il fatto che richiedono di essere sostenuti dal ragionamento e dalla successiva esperienza immediata.
5. Riassunto della nostra dottrina circa i testi vedici
Perciò in un’argomentazione si deve ricorrere prima alla ragione sostenendola con citazioni dai testi vedici e dalla smṛti. Non si può sostenere o confutare una tesi senza ragionamento o semplicemente denigrando l’avversario. Se si è in grado di citare soltanto i nomi di famosi fondatori di scuole o i titoli di libri sacri, si dimostra semplicemente di essere privi di argomentazioni e di esperienza personale, dando ragione così alle parole dell’avversario.
In tal modo abbiamo esposto in termini generali le regole con cui citare l’autorità dei Veda e della smṛti nel corso di una discussione. Limitandola così, non è nostra intenzione sminuire l’autorità della citazione dei testi vedici. Ma il lettore intelligente capirà che la nostra intenzione è quella di dimostrare che ciò che è garantito dall’autentica esperienza non può essere seriamente annullato dalla mera forza dei testi citati.
Come dicono i versi tradizionali: “Un testo gridato a gran voce solo per la sua elevatezza non è una prova, anche se fosse citato da Indra in persona”. “Se un’idea è pura e vera, libera dal dubbio e da conoscenza insufficiente, non contaminata da alcun sospetto di errore, derivante dalla pienezza dell’esperienza e chiarita da un potente ragionamento, in tal caso i Veda la confermano come una prova autorevole”.
- Anyonyāśrayadoṣa, errore logico consistente nella dipendenza reciproca dell’effetto e della causa, ovvero circolo vizioso. Leggasi l’esempio che segue anche in questi termini: “Questo testo sacro è stato rivelato da Dio”. “Dove si trova questa affermazione?” “Nello stesso testo sacro” [N.d.C.].[↩]
- I sei criteri sono: (1) un commentatore dovrebbe salvaguardare l’unità del tema che si trova nei passaggi di apertura e di chiusura di un argomento; (2) dovrebbe tenere conto dell’enfasi implicita nelle ripetizioni; (3) nel giudicare ciò che è significativo e ciò che è subordinato (secondario), dovrebbe seguire il principio che ogni insegnamento significativo ha la caratteristica di non essere disponibile altrove; (4) dovrebbe osservare il principio che ogni insegnamento significativo ha utilità; (5) non ci deve essere un’interpretazione letterale dei passaggi di elogio o di condanna; (6) le interpretazioni dovrebbero avere coerenza logica. I termini sanscriti pertinenti sono riportati nel mio Method of Vedānta, V. p.11. Vedi anche Sadānanda, ed. Col. Jacob, sezione 30. Questi sono i criteri generali per l’interpretazione dei testi, da distinguere dai criteri usati dai ritualisti per stabilire l’importanza relativa nei casi di apparente conflitto tra i testi, che sono: relazione diretta (śruti), implicazione indiretta (liṅga), connessione sintattica in una frase (vākya), contesto (prakaraṇa), posizione (sthāna) ed etimologia dei nomi (śābda). Vedi Laugākṣi Bhāskara, pp. 9-20 e MV p.23. Anche Śaṃkara fa riferimento a questi criteri in BSSBh III.3.25, e Gambhīrānanda fa riferimento a Jaimini, PMS III.3.13 (v. Śabara, Śabara Bhāṣya on the Pūrva Mīmāṃsā Sūtras, Ganganath Jha, Gaekwad Oriental Series, Baroda, 3 voll., 1973).[↩]
- Altrimenti gli studiosi dei Veda non sicuri di se stessi potrebbero essere tentati dai sistemi secolari di allontanarsi dal sentiero vedico (BSŚBh II.2.1).[↩]
- Il Nyāya è infatti di tradizione smārta e non śrauta.[↩]
- Questi sono: relazione diretta (śruti), implicazione indiretta (liṅga), connessione sintattica nella frase (vākya), contesto (prakaraṇa), posizione (sthāna) ed etimologia dei nomi (śābda). Vedi Laugākṣi Bhāskara, pp. 9-20 e MV p.23. Anche Śaṃkara fa riferimento a questi criteri in BSSBh III.3.25, e Gambhīrānanda fa riferimento a Jaimini, Pūrva Mīmāṃsā Sūtra III.3.13 (v. Śabara).[↩]
- V. p. 2, n. 1.[↩]
- Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī, The Method of Vedanta (MV), Delhi, Motilal Banarsidass, 1989, p.72)[↩]
- Nell’ed. di Ganganath Jha. p.54, si legge lakṣanād ūhā.[↩]
- Logica ecc.; il commentatore Ānandapūrṇa si riferisce a Nyāya Vārtika, I.1.40.[↩]