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21. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (VIII)

    21. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (VIII)

    130. Nella frase “io conobbi questo”, tra “questo” che è ciò che si conosce, e l’“io”, in quanto agente della conoscenza, intercorre una relazione reciproca. Dove troviamo una distinzione dovuta a una relazione reciproca non può esserci simultaneità1.

    Quando quelle persone affermano “io ho conosciuto questo”, esse affermano che “questo” non è l’“io” e, di converso, che “io” non è “questo”. Laddove si riscontri questa distinzione tra aham idam, quella conoscenza non può essere atemporale e simultanea, perciò si tratta senza alcun dubbio di un atto conoscitivo dell’“io”.

    131. Inoltre, tre fattori dell’azione conoscitiva, ossia un agente, uno strumento e un oggetto, saranno necessari per percepire in sequenza ciascuno di essi, ossia il conoscitore, la conoscenza e il conosciuto. Quando il conoscitore sia impegnato a percepire se stesso, esso non sarà capace di percepire simultaneamente la conoscenza e il conosciuto.

    I fattori dell’azione conoscitiva sono un agente, uno strumento e un oggetto. Perciò per definire chi è il conoscitore si dovrà necessariamente usare i tre strumenti. Ma anche per definire quale è l’agente che deve definire il conoscitore si dovranno usare tre strumenti. Questo procedimento è viziato dall’errore logico del regressus ad infinitum (anavasthā), che qui sta a dimostrare che questa conoscenza non è la vera Conoscenza atemporale, ma soltanto una azione che si volge in una certa indefinità temporale. Questo spiega perché la mente non possa elaborare se non un pensiero alla volta. Se accade che quando si pensa a una cosa, un altro pensiero s’affaccia alla mente, quest’ultimo interromperà il filo del primo. Perciò i pensieri che corrispondono al conoscitore, alla conoscenza e al conosciuto devono forzatamente svilupparsi in tre fasi successive.

    132. Si conferma ulteriormente che un oggetto è ciò che un soggetto agente cerca di ottenere. Perciò un oggetto si relaziona con un soggetto agente e non con il Testimone che è tutt’altro che agente.

    Qualsiasi azione sia intrapresa dall’“io”, compresa l’azione di conoscere, ha come movente il desiderio e come scopo quello di includere l’oggetto dell’azione nel dominio del “mio” (mama). Perciò l’oggetto, essendo la meta dell’azione, dovrà per forza essere messo in una relazione di complementarietà con il soggetto agente e non con il Sākṣin che non è affatto agente.

    133. A colui che ancora non li conosce, gli oggetti si rivelano per mezzo della śruti, o della deduzione (anumāna), o con qualsiasi altro valido mezzo di conoscenza (pramāṇa), come la percezione sensoria (pratyakṣa), e in nessun altro modo.

    Il soggetto che intraprende l’azione di conoscere deve forzatamente essere considerato ignorante nei confronti dell’oggetto su cui desidera indagare. Egli, al fine di conoscere un oggetto, dovrà fare affidamento sui pramāṇa, gli strumenti di conoscenza riconosciuti dalla tradizione. Potrà usare il più autorevole pramāṇa, la śruti, per poi utilizzare in ordine decrescente d’importanza, l’anumāna, la deduzione logica, il pratyakṣa, la percezione ottenuta tramite i sensi, l’upamāna, l’analogia basata sulla comparazione, l’arthāpatti, l’ipotesi e l’anupalabdhi, la constatazione dell’assenza d’un oggetto. L’essere umano non ha a disposizione altri strumenti oltre a questi.

    134. L’esistenza del Testimone, che non è un oggetto, può essere provata per mezzo di un qualche pramāṇa oppure no? L’ignorante può essere messo al corrente dell’esistenza del Sé senza il supporto di un valido mezzo di conoscenza?

    135. Se si pensa che lo stesso Testimone cosciente sia ignorante della sua propria natura, allora [anche il Sākṣinavrebbe bisogno dei pramāṇa per sapere ch’egli stesso è Conoscenza. Se invece è qualcun altro, diverso dal Testimone, cioè l’ego, a ignorare che la natura del Testimone è la Conoscenza, altrettanto [erroneamente] si potrebbe pensare che questo ego avrebbe bisogno almeno di un pramāṇa [per conoscerlo].

    Sebbene il Sé non sia affatto dipendente da un pramāṇa che dia la prova della sua esistenza, si potrebbe pensare che uno strumento valido di conoscenza sarà invece utile all’ignorante per arrivare a conoscerne l’esistenza. Sarebbe però assurdo sostenere che con “ignorante” s’intenda il Testimone in quanto non conoscerebbe la sua propria natura. In tal caso si arriverebbe a pensare erroneamente che il Sākṣin debba far ricorso a degli strumenti empirici per compiere un azione conoscitiva volta a scoprire che egli è eternamente Coscienza-conoscenza per sua stessa natura. Se invece con “ignorante” si intende chi è diverso dal Testimone, ossia l’“io” individuale, che non sa che il Sākṣin è Coscienza-conoscenza, allora si potrebbe pensare altrettanto erroneamente che, per conoscerlo come se fosse un oggetto, possa essere utile all’indagine dell’ego almeno un pramāṇa.

    136. Cosa significa “essere provato”? Significa che dev’essere conosciuto? Oppure che viene a esistere? O vuol dire qualcos’altro? Se pensi che significhi che deve essere conosciuto, devi tenere a mente le due opinioni che abbiamo appena confutato.

    137. Se invece “essere provato” significa “venire all’esistenza”, allora ogni sforzo teso a questo scopo sarebbe inutile. Infatti tutti sanno che un oggetto viene all’esistenza dalle sue proprie cause spontaneamente, indipendentemente dallo sforzo che si fa per provarne l’esistenza tramite i pramāṇa.

    Essere provato significa diventare oggetto di una indagine conoscitiva tramite uno strumento di prova (pramāṇa). Se “essere provato” vuole dire la stessa cosa di “essere conosciuto”, allora si ricade nelle due opinioni già confutate. Ovvero; se il Sākṣin deve “provare” di essere tale, supponendo che sia ignorante di se stesso, allora questa idea è in contraddizione con il fatto che la conoscenza è la sua vera natura. Se, invece, si supponesse che sia l’“io” individuale che debba provare l’esistenza del Testimone, allora si entrerebbe in contraddizione con il fatto che il Sākṣin non può essere oggetto di conoscenza, e che perciò non può essere indagato tramite alcun pramāṇa.
    Se invece con “essere provato” s’intende far sì che un oggetto, che prima non c’era, venga a esistere, questo tipo di azione conoscitiva sarebbe del tutto inutile, in quanto un oggetto compare quando è manifestato dalla sua causa materiale e non dalla volontà di chi lo vuole conoscere per mezzo dei pramāṇa. Per esempio, non è che lo sforzo di veder meglio per mezzo di un lumino faccia venire in esistenza la corda. La corda c’era già da prima: lo sforzo ha avuto come risultato quello di far sparire il serpente illusorio. Così la conoscenza del Testimone non vuol dire affatto che da quel momento il Sākṣin sia venuto in esistenza.

    138. Per coloro che sostengono la teoria del conoscitore-conoscenza-conosciuto, “essere provato” significherà “essere oggetto di conoscenza”. In questo caso “essere provato” si riferisce sia alla conoscenza del Testimone sia di ciò che è testimoniato; ma per loro non significherà che [Testimone e testimoniato] debbano con ciò cominciare a esistere.

    Per i sostenitori della teoria secondo la quale la conoscenza è una azione, “essere provato” significa che la cosa da conoscere è un oggetto di una indagine basata sui pramāṇa; e questo indipendentemente che questa cosa sia il Testimone, o sia tutto ciò che può essere testimoniato, cioè il mondo della veglia e del sogno, oppure ogni singolo oggetto compreso in quei mondi2. Secondo questa teoria “essere provato” non può mai significare “venire in esistenza”.

    139. Se tu sostieni che “essere provato” significa che l’agente della conoscenza, l’atto di conoscere e l’oggetto da conoscere siano distinti, ti risponderemo che “essere distinti o indistinti” devono apparire tali a qualche entità cosciente che è da quelli differente.

    140. Un cieco non può distinguere un vaso per il fatto che non può vedere. Se agente, strumento e oggetto d’una azione conoscitiva devono essere distinti, ci dovrà forzatamente essere dietro di loro un Testimone che attesti questa distinzione.

    Chi sostiene che la frase “essere provato” vuol dire che la cosa da conoscere è un oggetto d’indagine basata sui pramāṇa, afferma necessariamente che c’è una distinzione di natura tra l’agente della conoscenza, l’azione del conoscere e l’oggetto. Infatti il soggetto dell’azione è un essere, l’oggetto un altro essere distinto e l’azione del conoscere non è un essere, ma una relazione di attività e quindi una modificazione dei due esseri. A costoro si risponde che chi giudica se questi tre siano distinti o indistinti deve essere forzatamente un essere cosciente, che non può che essere il Testimone. Un cieco non può vedere un vaso perché è impedito nello strumento della vista. Chi invece vede un vaso non può essere cieco, ma un vedente. Perciò chi testimonia se agente, strumento e oggetto siano o non siano distinti, non può essere che il Testimone.

    141. Obiezione di un buddhista vijñānavādin: “Spiegami perché hai bisogno di sostenere che l’esperienza empirica [oggetto di testimonianza] debba apparire a un Testimone che è differente da essa. Se sostieni che l’esperienza dipende da uno sperimentatore, noi ribattiamo che la stessa esperienza è lo sperimentatore.

    142. Ciò che è davvero indifferenziato, della natura della coscienza, sebbene sia una visione illusoria, appare come se fosse differenziato in conoscitore, conoscenza e conosciuto.​

    143a. Chi, come noi, sostiene che la coscienza è la sola realtà, afferma che la coscienza sola è sia l’atto sia tutti gli altri elementi dell’azione.

    I buddhisti vijñānavādin (o yogacāra) sostengono che l’esperienza empirica è una modificazione della coscienza individuale, la quale, come l’esistenza stessa, è affatto illusoria ed è composta da una mutevole serie di apparizioni istantanee in una sequenza temporale discontinua. Da questo punto di vista la coscienza individuale, la sua azione e il divenire cosmico sono indifferenziati e le distinzioni di conoscitore, conoscenza e conosciuto sono soltanto effetto di una visione del tutto illusoria del mondo. Perciò non esiste alcuna differenza tra sperimentatore ed esperienza. Non esiste alcun Testimone, ma solo l’illusorio mondo dell’esperienza, identico all’illusorio individuale.

    143b. Risposta del vedāntin: Non puoi sostenere che la coscienza è l’unica realtà e poi affermare che è anche soggetta a distruzione in ogni attimo, perché con questa ultima affermazione presupponi che ci sia un agente che la faccia venire in esistenza.

    Se la coscienza è l’unica realtà, allora essa deve essere immutabile (nirvikāra). Sostenere che la coscienza è anche soggetta a continue distruzioni tra un istante3 e l’altro, com’è affermato dalla concezione buddhista del tempo discontinuo, significa che è mutevole (vikāra), in palese contraddizione con quanto affermato sopra. Se a ogni istante la coscienza di cui parla l’obiettore viene rimanifestata, allora si dovrà ammettere che c’è un agente, a essa superiore, che la fa ritornare in esistenza.

    144. Se ribatti che quella coscienza individuale non richiede alcun agente che la faccia venire in esistenza, perché essa è priva di qualunque caratteristica reale, entri in contraddizione con te stesso che affermi la sua realtà nella sequela dei diversi momenti.

    145. Controbiezione del buddhista vijñānavādin: Le caratteristiche reali, come l’esistenza (bhava), consistono nella semplice assenza delle caratteristiche opposte, cioè la non esistenza (abhava).

    Risposta del vedāntin: Allora, in tal caso, non puoi provare la tua teoria secondo la quale quella coscienza è passibile di distruzione tra un istante [d’esistenza e il suo susseguente], perché sei tu che sostieni che è l’unica realtà.

    146. Tu sostieni che dopo un’esistenza momentanea ogni oggetto è distrutto. E spieghi la momentanea esistenza con un circolo vizioso, definendola “assenza di non-distruzione”. È come se definissi una vacca come la non esistenza di una non-vacca. Ma questo non vale a definire cos’è una vacca.

    147. Secondo te perfino l’istante (kṣaṇa) è soltanto l’inesistenza (abhāva) di ciò che gli è opposto, ossia del “non-istante”(akṣaṇa [l’attimo]). A questo punto forse sosterrai che non ci sono distinzioni nella non esistenza e pretenderai che le distinzioni vi sono introdotte dai nomi. Ma come può essere introdotta la molteplicità in ciò che tu stesso dichiari essere una unica non-esistenza? Forse per te questa molteplicità è solo basata su distinzioni puramente nominali?

    148. Se una parola significa soltanto la non esistenza di cose differenti da quella che essa indica, come la si può usare in casi particolari come quelli della vacca4? Una non esistenza non può apportare alcuna distinzione, né può essere considerata mai come un oggetto.

    Abbiamo tralasciato di commentare questi ultimi śloka in cui Śaṃkara si diverte a mettere in croce il Buddhismo vijñānavāda sul filo della logica (tarka), sia perché sono di scarsa importanza per la comprensione del Vedānta sia per la loro facile lettura in ragione della stringente e cristallina dialettica con cui sono redatti. Riprendiamo a commentare da questo punto perché Śaṃkara Bhagavatpāda incomincia a contrapporre la dottrina vedāntica alle concezioni dell’oppositore.

    149. Come le categorie di nome, specie, ecc. non si applicano alla Coscienza poiché quest’ultima non ha attributi specifici, così secondo te non c’è nessuna distinzione fra i vari oggetti: come, nel caso della vacca, il fatto d’essere una giovenca, d’essere bianca o maculata, con o senza corna.

    Le categorie che definiscono gli innumerevoli gradi e stati della manifestazione universale, come nome e forma, grossolano-sottile, singolare-collettivo, particolare-generale (ovvero individuo-specie), individuale-universale ecc., non possono applicarsi alla Coscienza pura poiché, essendo lo stesso Brahmātman, è assolutamente priva di attributi (nirguṇa). I vijñānavādin applicano agli oggetti dell’esperienza quotidiana questa nirguṇatā, negando così le categorie che distinguono stati e gradi d’esistenza. Perciò quei buddhisti, prendendo l’esempio d’una vacca, negano che esistano differenze tra essere un bovino o no, essere una vitella, una giovenca o una mucca, essere bianca o pezzata, con o senza corna, gibbosa o meno.

    150. Dato che ammetti l’uso della percezione sensoriale (pratyakṣa) e della deduzione logica (anumāna) nell’esperienza quotidiana, dovrai anche forzatamente riconoscere che si possono usare questi pramāṇa grazie alle differenze, come quelle che intercorrono tra le azioni, gli elementi dell’azione, l’agente, gli strumenti, l’oggetto dell’azione ecc.

    151. In questo modo devi almeno ammettere che blu, giallo, vaso ecc. sono autentiche qualità per il nostro pensiero e, inoltre, dovrai anche ammettere che è necessario avere qualcos’altro con cui sia possibile percepirle.

    I buddhisti ammettono l’utilità nell’esperienza quotidiana della percezione tramite i cinque sensi e l’uso conseguente della deduzione. Ora, non si possono usare questi pramāṇa se non si accetta anche che quei cinque sensi colgono precisamente le differenze tra gli oggetti delle loro percezioni. La facoltà della vista, per esempio, vede un oggetto nero che modifica progressivamente il suo colore virando al rosso. Avvicinando qualsiasi superficie del corpo a quell’oggetto, il tatto percepisce un calore insopportabile. Queste percezioni, ricondotte alla mente (manas), e da questa analizzate, inducono a dedurre che si tratta di un pezzo di ferro che sta arroventandosi al fuoco. Perciò questi due pramāṇa identificano l’oggetto, le sue modificazioni, l’agente di queste modificazioni ecc. In questo modo anche il buddhista eviterà di scottarsi.
    I colori, le forme (rūpa), i suoni, gli odori ecc. sono qualità del pensiero, o forme o figure (ākāra) di oggetti che i pensieri assumono come loro proprie modificazioni e che sono davvero distinte tra loro.Questi strumenti di valida conoscenza, però, devono presupporre anche l’esistenza di qualcos’altro che li possa utilizzare.

    152. Ciò che percepisce il colore e altri oggetti deve ovviamente essere differente da essi, in quanto l’uno è un soggetto che percepisce e gli altri sono oggetti percepiti: perciò il soggetto che percepisce gli oggetti empirici è differente da essi poiché li illumina, come fa la lampada che è evidentemente differente dalle cose che illumina.

    Quel qualcos’altro, che percepisce le modificazioni della mente come il colore e gli altri oggetti e assiste all’analisi che l’intelletto opera su quelle vṛtti, è il Sākṣin. Le percezioni sensoriali e le deduzioni mentali sono meri strumenti cognitivi empirici perciò necessariamente differenti dal Testimone, come gli oggetti illuminati sono differenti dalla luce della lampada che li illumina. E la luce è di natura differente dagli oggetti illuminati, perché se questi non fossero illuminati non sarebbero visibili, mentre la luce lo è sempre per sua natura.

    153. Quale relazione può esserci tra l’osservatore (adhyakṣa), che è il vedente (dṛś) e la cosa conosciuta, che è vista (dṛśya) se non che l’uno vede e l’altra è vista?

    154. Il conoscitore compie l’azione di vedere? Deve attivamente pervadere il suo oggetto? No, è che l’immutabile conoscitore non agente presta solo apparentemente un certo supporto all’atto cognitivo [compiuto dalla buddhi].

    Vedente (dṛś), nell’uso degli advaitin, è sempre sinonimo di Sākṣin. Ovviamente si deve intendere “vedere” in senso simbolico, perché, pur avendo una somiglianza con la percezione sensoria della vista (cakṣus), la “facoltà di percezione” del Sākṣin è in realtà la sua stessa natura di Coscienza-conoscenza. Qui Śaṃkara si chiede quale relazione intercorra tra il Vedente e ciò che è visto (dṛśya), o, se si preferisce, tra il Sākṣin e ciò di cui è testimone (sākṣimat). Chi vede, compie forse un’azione? La vista si diparte dal vedente e fuoriesce per avvolgere e pervadere l’oggetto che vuole vedere? No, la vista è una facoltà di conoscenza (jñānendriya) e non una d’azione (karmendriya). La facoltà della vista dà realtà all’oggetto percepito assumendone la forma. Quello che noi vediamo non è l’oggetto, è la forma che assume la vista. Esattamente come nell’esempio della lampada. Noi non vediamo gli oggetti, vediamo la luce della lampada che presta la sua realtà agli oggetti. Gli oggetti non illuminati, infatti, non sono visibili. Però l’intelletto, che non ha se non un riflesso della conoscenza, è convinto di vedere gli oggetti e non la luce che si riflette su di essi. Questa sua apparente conoscenza si basa sulla Coscienza-conoscenza dall’eterno, immutabile e non duale Sākṣin che è la luce che illumina ciò che si vede (dṛśya).

    155. Abbiamo già spiegato che questo supporto consiste nell’acquisizione da parte dell’intelletto di un riflesso di Coscienza. Dotato in questo modo di un riflesso di Coscienza, l’intelletto, come una lampada, pervade di luce gli altri oggetti.

    Si è già spiegato che la buddhi priva di coscienza, ma attiva per sua natura, appare come se fosse cosciente. Questa apparente coscienza è sostenuta dal che si riflette nell’intelletto. La buddhi , dotata così di un riflesso della Coscienza-conoscenza, sembra la lampada che pervade di luce vasi e altri oggetti, come se fosse essa stessa la luce che illumina gli oggetti. Invece la buddhi può essere paragonata alla luna che splende di luce riflessa e di notte pare inondare di una sua luce gli oggetti.

    156. Si può dire che un vaso posto al sole è avvolto dalla luce. Allo stesso modo si può dire che un oggetto posto nell’intelletto ne è avvolto. Essere avvolto significa essere pervaso dall’intelletto. Gli oggetti sono pervasi dell’intelletto uno dopo l’altro.

    Si può dire che un vaso posto al sole è avvolto dalla luce solare. Per esempio un vaso invisibile nelle tenebre della notte, viene avvolto man mano dalla luce dell’alba, finché ne è del tutto circondato e reso visibile quando è esposto alla luce del sole5. Allo stesso modo procede l’intelletto quando intraprende un’indagine conoscitiva su un oggetto. Man mano che ne analizza le caratteristiche, la buddhi sempre più pervade l’oggetto. Dopo aver conclusa quella indagine conoscitiva, l’intelletto può dedicarsi ad altri oggetti in successione. Come appare evidente dallo śloka sia la luce del sole, che rappresenta l’intelletto macrocosmico, Hiraṇyagarbha, sia la buddhi considerata a livello microcosmico, procedono agendo in successione temporale. Invece l’illuminazione dovuta al Sé auto luminoso è immediata, immutabile, eterna e della natura dell’attimo.

    157. La mente pervade un oggetto prendendone la forma quando l’oggetto si rivela grazie al riflesso del Sé. Prima c’è la pervasione del vaso da parte della mente e poi viene il sostegno del Sé nella forma del suo riflesso di coscienza apparente. Ma non si può pensare che l’unico Testimone di tutto partecipi al processo cognitivo [dell’intelletto] in una successione di tempo, spazio o di altri fattori di cambiamento.

    Riprendendo l’esempio tradizionale della lampada si può dire che la luce, ovvero il Testimone, l’Ātman, illumina gli oggetti riflettendosi in essi. Come si diceva innanzi, quello che si vede è luce, ma la mente invece percepisce la forma dell’oggetto tramite l’intermediazione dei sensi. Così ne registra le caratteristiche assumendone la forma come una sua modificazione (vṛtti). Successivamente interviene la buddhi a discriminare e analizzare queste percezioni, sostenuta da una sua apparente coscienza, che in realtà è dovuta al riflesso del Sé nello stesso intelletto. Non si potrà certo reputare che il Testimone unico e non duale di tutto ciò possa essere coinvolto nel processo mentale-intellettuale di investigazione, dato che quel processo si svolge nel tempo, nello spazio e in altre condizioni che comportano azione, successione e cambiamento.

    158. È sottoposto a cambiamento solo l’intelletto conoscente, giacché dipende da strumenti per compiere l’azione di conoscere gli oggetti, e che perciò arriva a conoscere in successione soltanto una limitata parte del conoscibile. Ma il Sé, in quanto Testimone, è la Conoscenza assoluta, non è un agente né è sottoposto a cambiamento.

    L’intelletto è mutevole perché acquisisce dati e informazioni che diventano sue modificazioni. Questo avviene perché non può conoscere direttamente, ma sempre per l’intermediazione dei pramāṇa, strumenti che necessitano di una successione temporale per offrire alla buddhi le informazioni necessarie. Poiché gli oggetti da conoscere in questo modo analitico sono in numero illimitato, l’intelletto non potrà che compiere una indagine limitata a una piccola parte del conoscibile. Invece il Sé, che non è sottoposto all’azione né al mutamento, è lui stesso la Conoscenza totale e assoluta.

    1. La vera simultaneità essendo non duale.[]
    2. Ciò che è testimoniato è così definito nella Māṇḍūkya Upaniṣad: “Il primo pāda [di Ātman] è Vaiśvānara, il cui dominio è lo stato di veglia, in cui egli conosce gli oggetti esterni […] Il secondo pāda [di Ātman] è Taijasa, il cui dominio è lo stato di sogno, in cui egli conosce gli oggetti interni” (MāU I. 3-4).[]
    3. Si ricordi che per il Vedānta l’attimo è non temporale, perciò è eterno e immutabile (nitya). Invece, nella dottrina del tempo della menzionata corrente buddhista, una sequela di attimi (akṣaṇa) interrompe il flusso del divenire: quindi ogni istante (o momento, kṣaṇa) è separato dal seguente da un attimo atemporale, formando così una successione temporale discontinua.[]
    4. Infatti la definizione “non vacca” non si oppone soltanto al concetto di vacca, ma anche di qualsiasi altro animale, uomo, pianta od oggetto inanimato, limitandoci con questa considerazione ai soli esseri corporei.[]
    5. Si potrà obiettare che la base del vaso che poggia a terra rimane invisibile. Ma questo difetto dipende dal punto di vista in cui si pone l’osservatore. Infatti, se il vaso fosse poi posto su un ripiano traslucido, sarebbe possibile vedere anche com’è sotto.[]