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Svāmī Prabhuddhānanda Sarasvatī Mahārāja

20. Commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda

Agama Prakaraṇa

Note sul Śaṃkara Bhāṣya riguardanti la Kārikā I.9

Lo stato di veglia è chiamato Virāṭ perché nell’ottica della śruti è un essere cosciente; è il nirviśeṣam che si chiama Virāṭ in quanto si presenta in quanto vegliante e universo della veglia. Il nirviśeṣam che appare in quanto sognatore e universo sognato si chiama Hiraṇyagarbha. Il nirviśeṣam che è insegnato come origine è chiamato Īśvara. Il pūrvapakṣin pone ora una domanda: “Se c’è un Quarto, il Quarto deve essere diverso dai tre. Perché devi evidenziare che il Quarto è diverso dai tre?” Perché devi dire che “la mucca non è un cavallo”. Il Quarto è diverso dai tre, quindi quando è chiaro che il Quarto è diverso dai tre, allora non devi dire che “il Quarto è diverso dai tre”. Poiché il Quarto è nei tre ed è presente attraverso i tre. È il Quarto che osserva il primo, osserva il secondo, osserva il terzo, e Quello è il Quarto; è il quarto che guarda Virāṭ. Il nirviśeṣam è il Quarto che osserva il primo, osserva il secondo e osserva il terzo che è il Quarto. Quindi fa una distinzione tra “è la corda che sembra il serpente” ed “è la corda”; tra “è l’acqua che sembra l’onda” ed “è l’acqua”. Quindi, dove c’è conoscenza distintiva (vipṛkta jñānam), c’è errore. L’unico approccio è: “non è ciò che sembra”, “non è parallelo a ciò che sembra”, “è la realtà di ciò che sembra”. È solo negando gli errori come il serpente (sarpa), ecc., che si può comprendere la corda (rajju), ecc. Se il rajju fosse qualcosa di diverso dal serpente, come quando si dice “questo è un cavallo e questa è una vacca”, allora puoi ignorare la vacca e conoscere il cavallo o ignorare il cavallo e conoscere la vacca; ma non puoi ignorare il serpente e conoscere la corda; non si può ignorare l’errore nel conoscere la Verità, perché la Verità è qualcosa che comprende l’errore. La Verità è l’origine dell’errore, è la Verità dell’errore e, tuttavia, essa non è qualificata dall’errore.

Si sperimenta la propria esistenza come sperimentatore dei tre stati: tu sei lo sperimentatore della veglia, lo sperimentatore del sogno, lo sperimentatore del sonno, in quanto sperimentatore dei tre stati. E, come sperimentatore degli stessi tre stati che la śruti vuole trasmettere come Quarto, proprio quale sperimentatore dei tre stati, tu sei il Quarto. Se il Quarto fosse qualcosa di diverso da te che sperimenti i tre stati, allora potresti ignorare tutto ciò che è sperimentato, potresti ignorare chi sperimenta e potresti rivolgere l’attenzione a qualcosa che è diverso da te, a quel Quarto che è diverso dai tre. La vacca è diversa dal cavallo; e non solo è diversa dal cavallo, è anche altra dal cavallo. Il Caturtham è diverso dai tre, ma non è altro dai tre; è diverso da Virāṭ, ma non altro da Virāṭ; è diverso da Hiraṇyagarbha, ma non altro da Hiraṇyagarbha; è diverso dall’origine, dalla relazione origine-creazione, ma non altro da essa. Quando è diverso, ma non è altro, allora la correzione è l’unico metodo. L’acqua è diversa dall’onda, ma non è altra dall’onda, non è lontana; non c’è un divario tra l’acqua e l’onda.

Chi sperimenta i tre stati, sperimenta i tre stati e porta con sé il senso che “sono un individuo” e questo senso di individualità. La non-individualità è diversa dall’individualità, ma non è altro dall’individualità. Il senza forma è diverso dalla forma, ma non è altro dalla forma; non è parallelo alla forma, ma non è qualcosa di altro dalla forma. Comprende la forma e, tuttavia, non è qualificato dalla forma. Il fatto che sia comprensivo della forma lo rende illimitato; il fatto che non sia qualificato dalla forma lo rende nirviśeṣam. La corda non è qualificata da alcuna parte, nemmeno la più piccola, del serpente. Il fatto che non sia qualificata dal serpente la rende nirviśeṣam. E il fatto che sia comprensiva del serpente la rende più grande del serpente. Colui che vede la forma è diverso dalla forma, ma è anche comprensivo della forma. Il soggetto è comprensivo dell’oggetto pur non essendo qualificato dall’oggetto. Questa frase è il cuore stesso del Vedānta. La corda è origine del serpente, perché senza la corda non potresti commettere l’errore del serpente; quindi, la corda è il fatto e il fatto è comprensivo dell’errore. La sabbia è comprensiva dell’acqua del miraggio che vedo; il fatto è comprensivo dell’errore, ma non è qualificato dall’errore.

Colui che vede l’universo comprende l’universo, il che lo rende illimitato; il vedente del tempo è più grande del tempo perché comprende il tempo. Il vedente dello spazio è comprensivo dello spazio e quindi è più grande dello spazio. Lo sperimentatore dei tre stati è più grande dei tre stati perché è comprensivo dei tre stati. Lo sperimentatore del mondo non è un individuo che sperimenta il mondo; ha l’aspetto di sperimentatore, ma in realtà è colui che illumina. Tutto ciò che sembra esterno rientra nel soggetto sperimentatore, quindi il soggetto che sperimenta è comprensivo di ciò che è sperimentato, e ciò lo rende illimitato. E, poiché lo sperimentatore non è qualificato da ciò che sperimenta, ciò lo rende nirviśeṣam. Lo sperimentatore non è qualificato dallo stato di veglia: tu non sei qualificato dallo stato di veglia, non sei qualificato dallo stato di sogno, non sei qualificato nemmeno dalle tenebre del sonno profondo: questo ti rende nirviśeṣam. E cos’è che rende lo sperimentatore non duale? Egli è comprensivo di tutto in quanto se stesso; se è comprensivo di tutto in quanto se stesso, allora è non duale. È onnicomprensivo, ma non qualificato. Generalmente includiamo qualcosa che ci qualifica, ma un fatto include l’errore. Ciò significa che non c’è uno scarto tra il Fatto e l’errore: il Fatto include l’errore ma non è qualificato dall’errore. La śruti vuol far capire che lo stesso sperimentatore dei tre stati è il Quarto. Se la śruti avesse detto che (il Quarto) è qualcosa di altro da chi sperimenta i tre stati, non ci sarebbe alcuna prova che qualcun’altro sperimenti i tre stati. Non sperimenti la tua esistenza come parallela ai tre stati, sperimenti te stesso in quanto sperimentatore dei tre stati. È proprio lo sperimentatore dei tre stati che la śruti vuole indicare; il quale non è lo sperimentatore della veglia, non è lo sperimentatore del sogno, non è un individuo che sperimenta l’oscurità. Non è un individuo, è diverso da essere un individuo e, tuttavia, È; è comprensivo dell’individualità, ma non qualificato dall’individualità. Nell’ignoranza ti vedi come qualificato dall’individualità, ma in verità l’individualità non ti qualifica. “Tu sei Brahman” significa che non sei qualificato dall’individualità né dalla relazione origine-creazione. Tu sei nirviśeṣam.

La nostra esistenza non è evidente se parallela ai tre stati. La nostra esistenza non è evidente in quanto parallela ai tre stati: la nostra esistenza è evidente solo in quanto sperimentiamo i tre stati. Perciò la śruti vuole trasmettere l’insegnamento che proprio questo evidente sperimentatore dei tre stati è libero dai tre stati, non è qualificato dai tre stati. La nostra esistenza non sarebbe evidente se fosse parallela ai tre stati, se fosse qualcosa di altro dai tre stati: perciò, se la śruti dicesse che la nostra esistenza è al di là dei tre stati, la nostra esistenza non sarebbe evidente. Supporre che la corda sia percepita per errore come serpente, questo si chiama vikalpa (fantasia), questo si chiama kalpanā (immaginazione). Kalpanā significa vedere qualcosa in modo diverso, sbagliato, è una percezione errata. Se vedi la terra piatta, non è una visione diversa: è una visione sbagliata. Allo stesso modo, se vedo la corda come fosse un serpente, quella è una visione sbagliata: la corda è un fatto e che sia un serpente è una visione sbagliata. Vedere qualcosa in modo sbagliato è chiamato kalpanā o vikalpa. Anche la creazione è chiamata kalpanā: tu vedi qualcosa in modo sbagliato. Non lo fai deliberatamente, ma ti ritrovi con un’idea sbagliata. Quindi “io sono un individuo” è kalpanā. Il fatto che tu sia un individuo della veglia è una kalpanā. Il fatto che ti veda come un individuo che sogna è una kalpanā e la kalpanā degli Śāstra è che “Brahman è l’origine di tutto”. “Atman è l’origine di tutto” è l’insegnamento degli Śāstra, ma anche questo è una kalpanā che manca di Verità: è il modo in cui la Verità è insegnata, ma non è la Verità così com’è. Come la corda, ecc., è immaginata (kalpita), così anche nirviśeṣam è kalpitam: è percepito erroneamente come colui che veglia e come colui che dorme. Si può conoscere il Fatto solo correggendo l’errore. Quando si corregge il Fatto che la tua esistenza non è un vegliante, un sognatore o un dormiente in sonno profondo, la tua esistenza è solo Essere. Che “tu sia una forma” è una kalpanā; che “tu sia una forma di veglia” è una kalpanā; che “tu sia una forma di sogno” è una kalpanā; e che “tu scompaia quando la forma scompare” è anche questo una kalpanā.

Quando non vedo è oscurità, è kalpanā. Anche l’oscurità è un’idea sbagliata e quindi, nella correzione dell’errore il risultato della correzione è completo, ha il suo culmine e la Verità sola è: la Verità non è più oggettivata. Quando correggo l’oggettivazione dell’errore, quando correggo l’errore, la Verità non diventa oggettivata, ma è solo la Verità. Questo è il phalam: il frutto del vicāra è solo la Verità. Nel caso della corda, è vero che quando correggo la percezione del serpente, la corda è oggettivata. Ma qui, quando correggo il senso dell’individualità, l’illimitatezza non si oggettiva e solo È; come quando trascendi il pensiero della veglia, non oggettivi il sonno, non c’è alcun pensiero di oggettivazione del sonno e rimani senza il pensiero. Essere senza errore si chiama correzione dell’errore, si chiama essere liberi da errore. La correzione dell’errore è il fine. Non si deve pensare “Bene, ora che l’errore è corretto conoscerò il Fatto”. Questo è un pensiero sbagliato, perché il fine è solo la correzione dell’errore; non puoi oggettivare la tua propria esistenza. Puoi essere senza errore e quando l’errore è corretto la tua esistenza È senza errore. Quando l’errore è corretto il Fatto è libero dall’errore. Non puoi oggettivare il Fatto se non che il Fatto È. E per arrivare a Turīyam non c’è altro sforzo da fare oltre a correggere l’errore. Per comprendere Turīyam non si deve fare altro sforzo; al di là della correzione dell’errore non c’è bisogno di un altro pramāṇam, non c’è bisogno di altra sādhanā per conoscere se stessi. Per addormentarsi non è necessario fare null’altro che trascendere la veglia; oltre a trascendere il pensiero non è necessario fare alcunché: è uno stato al di là del pensiero, non è un pensiero che oggettiva il sonno profondo. Dopo aver trasceso il pensiero della veglia, non devi avere un pensiero di sonno perché il sonno non è pensato, non è oggetto di pramāṇa (pramāṇa viṣayam).

Il sonno è anubhava svarūpam, e non è affatto un oggetto di anubhava (anubhava viṣayam); non è né anubhava viṣayam né pramāṇa viṣayam, ma è anubhava svarūpam. Come l’acqua è jala svarūpam, ossia è della natura dell’acqua (jalam). Perciò, per addormentarsi non è necessario fare nulla oltre a trascendere lo stato di veglia, oltre a trascendere il pensiero. E, oltre a trascendere il pensiero, non devi fare alcuno sforzo per essere nirviśeṣam; non è necessario oggettivare il nirviśeṣam, ma essere nirviśeṣam; non c’è alcuna necessità di oggettivare la pace, ma c’è necessità di essere pace. Perciò la correzione dell’errore culmina solo nell’Essere. La correzione dell’errore è il punto culminante: dopo aver corretto l’errore c’è solo la Verità meno l’errore; tu resti senza l’errore, come nel sonno resti senza il pensiero; resti senza la memoria, resti senza l’incorporazione, resti senza pensiero del futuro, resti senza pensiero del passato. Così, oltre a trascendere il pensiero, per addormentarti non fai nient’altro. Allo stesso modo, per essere Brahman non fai nient’altro che correggere l’idea che “io sono una forma”.

Quando il serpente è capito come falso, solo la corda è. Che non sia serpente, che possa essere corda o che possa essere qualcos’altro, non è importante: ma che non sia serpente è conclusivo per la comprensione della falsità del serpente e l’evidenza della corda. La corda non è illuminata dagli occhi [dalla vista], la corda è illuminata dalla coscienza (cit): ciò che illumina è la Verità (sat). Quando guardi da vicino, i tuoi occhi ti aiutano a correggere la tua percezione. E l’evidenza della corda? L’evidenza della corda non è facilitata dagli occhi, l’evidenza degli occhi è facilitata dalla Verità stessa: è la coscienza che illumina la corda, ciò che illumina è cit. Quindi, la luce che getto sul serpente e i miei occhi mi fanno solo vedere che non è un serpente, ma l’esistenza della corda non è illuminata dal lume perché anche il lume è illuminato; ciò che è reso evidente non può rendere evidente un’altra cosa. La luce fisica è resa evidente dal vedente, è resa evidente dalla Coscienza e ciò che è reso evidente non può rendere evidente un’altra cosa; la corda non è resa evidente dagli occhi o dalla luce fisica. La luce fisica e gli occhi ti aiutano solo a vedere che il serpente non è vero e, all’istante, arrivi a capire che è corda. Ma cos’è che rende evidente la corda? Ciò che rende evidente la corda è solo la Coscienza, l’evidenza della corda è nella luce della Verità. Quindi, è al di là della correzione della sua ofidità. Tra conoscere il falso come falso e conoscere la Verità come vera non c’è divario. Dopo aver conosciuto il falso come falso, c’è solo la Verità: è corda, non è serpente. Quindi la correzione dell’errore è conclusiva.

[Dirai:] “Svāmījī, non è vero che oltre a conoscere il falso come falso devo anche intrattenere il pensiero della Verità?” No, non puoi intrattenere il pensiero della Verità: puoi solo esserlo, non puoi pensarlo. L’errore è pensato, ma la Verità non è pensata. Tu sei la Verità con l’errore su te stesso di essere un individuo. Che “io sia un individuo” è un pensiero, la libertà dall’individualità non è un pensiero: tu sei la libertà dall’individualità, tu sei la libertà dal tempo. Quindi Essere non è un altro pensiero. Il Bhāṣyakāra dice che oltre a correggere l’errore sul sé non c’è alcuno sforzo aggiuntivo da fare o alcun pramāṇa aggiuntivo da cercare. Quando apri gli occhi sul vaso, gli occhi rimuovono solo l’ignoranza del vaso, che fino ad allora era sconosciuto; ma il vaso è reso evidente dalla Verità. Gli occhi non rendono evidente la Verità, l’evidenza è sempre nella luce della Verità; ciò che rende evidente il vaso è la Verità. “Allora cosa fanno i miei occhi?” I tuoi occhi rimuovono solo la non conoscenza del vaso. Quando lo vedi, l’oscurità, l’ignoranza sul vaso è rimossa. Ecco perché ciò che conosci è causa di conoscenza (pramā kāraṇam pramāṇam); perché crea soltanto la conoscenza del vaso, ma questa conoscenza non è altro che la rimozione dell’ignoranza: l’esistenza del vaso è resa evidente dalla Verità stessa. È come quando tu proietti la luce che soltanto rimuove l’oscurità. Sebbene abitualmente dici “La luce fisica rende evidenti gli oggetti”, non è così: gli oggetti sono evidenti nella luce della Coscienza. Questa è l’evidenza.

Il vaso come vaso è evidente nella luce della Verità. Il vaso come vaso in quanto qualcosa di distinto da tutti gli altri oggetti che “non conoscevo”, quell’ignoranza, è rimossa dagli occhi. Oltre a rimuovere l’ignoranza del vaso, gli occhi non rendono evidente il vaso. Questo è un punto molto, molto importante: l’evidenza del vaso è nella Verità; e anche gli occhi sono resi evidenti nella luce della Verità. Dici “Ho gli occhi”. Qual è l’evidenza? È la tua conoscenza e questa è la Verità; ciò significa che è nella luce della tua Coscienza che essi sono evidenti. Gli occhi sono resi evidenti dalla Coscienza, e anche il vaso è reso evidente dalla Coscienza. Gli occhi in cosa contribuiscono alla conoscenza del vaso? Gli occhi solo ti liberano dall’ignoranza sul vaso e, oltre a rimuovere l’ignoranza sul vaso non fanno null’altro: il vaso è evidente. L’evidenza del vaso non è creata dagli occhi. Chi pensa che gli occhi facciano di più che rimuovere l’ignoranza del vaso è come colui che che vuole tagliare in due pezzi un grosso tronco in modo che diventi più sottile, e prende un’ascia. Il colpo d’ascia si conclude tagliando l’unico tronco in due pezzi: il suo lavoro (vyāpāra) non continua per tagliare ciascuna delle due metà in altri due pezzi. Dopo la conclusione del taglio non c’è vyāpāra. È come quando vai a dormire e trascendi il pensiero, e ciò è conclusivo. È come quando gli occhi vedono la forma e l’ignoranza della forma sparisce, il che non serve a rimuovere anche l’ignoranza del suono. È un punto d’arrivo che si chiama conclusione finale (parisamāpti): un pramāṇam arriva solo a rimuovere l’ignoranza su un fatto, correggendo l’errore su un fatto. Dopo la conclusione (samāpti) non si fa alcun altro sforzo, non si cerca un altro pramāṇam; ugualmente, quando si è trasceso il pensiero non si fa un altro pensiero per dormire. Se fai un ulteriore sforzo ciò significa che non stai dormendo. La volontà di fare uno sforzo fa parte dello stato di veglia, ma non si fa nessuno sforzo dopo aver trasceso il pensiero.

Coloro che pensano che la funzione di un pramāṇa sia qualcosa che si aggiunge alla rimozione dell’ignoranza di un fatto e che ci sia qualcosa in più da fare, e che non solo la non conoscenza (ajñātatvam) sia rimossa, e con uno sforzo aggiuntivo anche l’oggetto sia reso evidente, costoro sono come quelle persone che pensano che il colpo d’ascia destinato a tagliare un tronco in due pezzi tagli anche i due pezzi in quattro. Non è così: quel colpo si conclude facendo il tronco in due pezzi, come gli occhi culminano nel rimuovere la non conoscenza di un oggetto. Cos’è dunque che rende evidente l’oggetto? L’oggetto è reso evidente nella Verità (Satya), nella Coscienza. L’esistenza dell’oggetto è evidente nella luce della Verità e i sensi rimuovono soltanto l’ignoranza. Questo è il principio del Vedānta. Allo stesso modo, quando si tratta di conoscere la propria esistenza, l’intero Vedānta pramāṇa aiuta a rimuovere l’ignoranza della propria esistenza, l’errore sulla propria esistenza, l’incomprensione della propria esistenza. E, quando l’incomprensione è scomparsa, ciò che esiste è solo la propria esistenza senza l’errore, senza incomprensione.

Non dire “Ciò che rimane è la Verità (Satya) più la comprensione”: non è la Verità più la comprensione, è la Verità meno la non comprensione. È come se il sonno profondo non fosse la tua esistenza più il diventare te stesso: il sonno profondo è te stesso meno l’individualità. Non è te più l’illimitatezza: sei tu meno la limitatezza, è l’esistenza meno la limitazione. Quindi il Vedānta culmina ossia conclude facendoti capire cosa sei; e farti capire cosa sei significa correggere l’errore su ciò che non sei. Il Vedānta rimuove la non comprensione del tuo Essere e la non comprensione del tuo Essere, oltre a rimuovere l’incomprensione del tuo Essere non può fare altro. L’incomprensione del tuo Essere non ha attività (vyāpāra), perché un pramāṇam agisce solo sul tuo pensiero, rimuove la tua ignoranza, ossia rimuove l’errore. Un pramāṇam non agisce sul fatto. Nemmeno i tuoi occhi agiscono sull’oggetto, sulla forma; i tuoi occhi rimuovono solo l’ignoranza su di esso. I tuoi orecchi solamente rimuovono l’ignoranza sul suono, non agiscono sul fatto.

Ma cos’è che rende evidenti gli oggetti? I sensi non rendono evidenti gli oggetti. A volte dici “I sensi non rendono evidenti gli oggetti di senso”: ma in realtà, a rigore di termini, solo eliminano l’ignoranza sugli oggetti. Invece, ciò che rende evidenti gli oggetti è la Verità, è l’intuizione degli oggetti (anubhava viṣayam), che sono tutti resi evidenti dalla Verità. Il vaso reso evidente dalla Coscienza non è il risultato degli occhi, l’oggetto non è il risultato dei sensi (pramāṇa phalam): pramāṇa phalam è solo rendere noto l’ignoto. La non conoscenza è rimossa, e tu ne vieni solo a conoscenza, non lo rendi evidente. I sensi non lo rendono evidente e la conoscenza dell’oggetto non è creata dagli occhi, la conoscenza è sempre nella forma del tuo proprio Essere.

Conosci il vaso. In questo, la conoscenza del vaso è conoscenza dell’incondizionato (nirviśeṣa jñānam) che appare come conoscenza del vaso (ghaṭa jñānam); e cosa fanno i tuoi occhi? Eliminano semplicemente la tua ignoranza dal vaso. E cos’è che rende evidente la forma del vaso? La conoscenza. “Questa conoscenza non è forse il risultato degli occhi?” No, è il nirviśeṣa jñānam che sembra conoscenza qualificata (saviśeṣa jñānam); è l’eterno jñānam che appare come saviśeṣa jñānam. Non è creato: la conoscenza non è creata dai sensi, è solo l’ignoranza che è rimossa. È come la luce che solo rimuove l’oscurità. La luce non crea gli oggetti, la luce non rende evidenti gli oggetti, la luce fisica non evidenzia gli oggetti. Tu pensi che la luce renda evidenti gli oggetti, ma non è vero: la luce solo rimuove l’oscurità. Cos’è allora che li rende evidenti? Solo la conoscenza. Allora tu ne hai conoscenza. La tua conoscenza li rende evidenti, non è la luce fisica che li rende evidenti, perché anche la luce fisica è resa evidente, è conosciuta da te. È la conoscenza della luce fisica che rende evidente la luce; è la conoscenza dell’oscurità che rende evidente anche l’oscurità. Anche qui, il Vedānta usato come pramāṇam rimuove la non comprensione del tuo essere, e ciò che rimane è solo l’Essere auto-evidente meno la non comprensione, libero dall’incomprensione; come pure in sonno profondo trascendi il pensiero e rimani come natura dell’esperienza, sei lì meno il senso di individualità, la Verità senza il senso dell’individualità. Oltre a correggere il senso dell’individualità non devi sforzarti a praticare alcun metodo (sādhanam), proprio come per addormentarti non devi fare nulla oltre a trascendere il senso dell’individualità. Ciò che è evidente è autoevidente e tutto ciò che è reso evidente dal Sé o è anubhava viṣaya o anubhava svarūpam: o è reso evidente dal Sé o il Sé è autoevidente. Un oggetto è reso evidente dal Sé, è la tua conoscenza. “La luce lo rende evidente, i sensi lo rendono evidente”: così dici, ma, a rigore, non sono i sensi a rendere evidente l’oggetto. I sensi solo rimuovono l’ignoranza degli oggetti. Per questo sono chiamati pramāṇam, perché rimuovono l’ignoranza degli oggetti.

La vista non crea l’evidenza della forma, l’udito non crea l’evidenza del suono; i sensi non creano l’evidenza degli oggetti, solo rimuovono l’ignoranza degli oggetti. Allo stesso modo, il Vedānta pramāṇam rimuove la tua ignoranza di te stesso, corregge l’errore su di te, ma non crea alcuna evidenza. Il Vedānta pramāṇam non crea alcuna evidenza del Sé perché il Sé è auto-evidente, libero dall’ignoranza di un oggetto, solo È senza la non comprensione, solo è il Sé libero da fraintendimento. Quindi, tra l’uso del Vedānta pramāṇam, il suo culmine e la soluzione del problema non c’è alcuna separazione; il lavoro del pramāṇam è concluso nel momento stesso in cui rimuovi l’ignoranza della corda.

Quando si comprende il Vedānta, la non comprensione e il fraintendimento del tuo Essere sono rimossi dal Vedānta pramāṇam, proprio come i sensi rimuovono l’ignoranza degli oggetti. Chi rende evidenti gli oggetti è la Realtà stessa. Chi rende evidente il Sé? È autoevidente. Il pramāṇam non è un’evidenza, il pramāṇam non rende evidente nulla, il pramāṇam serve solo a conoscere il non conosciuto. Conoscere il non conosciuto significa conoscere l’evidente. È evidente, ma non lo conosco. La forma è lì; chiudi gli occhi e non la vedi, apri gli occhi e la vedi: la forma è resa evidente nel tuo stesso Essere.

Oltre correggere dell’errore, il Vedānta pramāṇam dà accesso alla Realtà. Il Vedānta pramāṇam dà accesso alla Realtà, soltanto correggendo l’errore e rimuovendo l’ignoranza: una volta rimossa la confusione sul Sé, il Vedānta pramāṇam non esiste nella Realtà; come lo sforzo per addormentarsi non dà accesso al sonno, se non trascendendo il pensiero. È come la ninna nanna che, oltre ad acquietare e a trascendere il pensiero, non conduce al sonno. Allo stesso modo il Vedānta pramāṇam, oltre a rimuovere l’ignoranza del tuo Sé e l’incomprensione di te stesso, non conduce alla tua esistenza; l’eterno non permette a nessun particolare della creazione di penetrarlo. Nessun suono può qualificare il silenzio; né il suono può qualificare il silenzio, né il creatore del suono può qualificare il silenzio e neppure il pensiero di creare il suono può qualificare il silenzio. Il silenzio non è qualificato dal suono né da chi produce il suono. Allo stesso modo il Vedānta pramāṇam presuppone l’adhyāsa: nessuna particella di adhyāsa può qualificare il Sé e nemmeno il Vedānta pramāṇam, presupponendo l’adhyāsa, può qualificare il Sé. Come nessun analfabetismo qualifica il Sé, nemmeno alcuna istruzione può qualificare il Sé; l’istruzione rimuove solo l’analfabetismo. C’è solo una differenza: l’analfabetismo è reso evidente. Vengo a sapere che non sono istruito solo alla luce della Verità e anche l’idea che “sono istruito” è resa evidente alla luce della Verità. Che cosa fa l’istruzione? L’istruzione solo rimuove l’analfabetismo. L’evidenza è diversa dalla comprensione. Il pramāṇam rimuove solo l’ignoranza: il pramāṇam è inteso come comprensione di ciò che è evidente. Un pramāṇam non fornisce prove a nulla, è solo alla luce della Verità che tutto ciò che è evidente è evidente. Distingui, quindi, tra comprensione, pramāṇam e prova. Come la legge di gravitazione è evidente alla luce della Verità, ma la si comprende attraverso l’istruzione, l’osservazione, cioè attraverso la riflessione. Uno scienziato comprende la legge di gravità attraverso la riflessione, l’analisi basata sui dati sensoriali, ma la legge di gravitazione è evidente alla luce della Verità. L’evidenza è sempre la Verità.

L’intera creazione è resa evidente alla luce della Realtà, che non è frutto d’una prova (pramāṇa phalam). E cos’è pramāṇa phalamPramāṇa phalam è solo la rimozione di ajñatātvam, la non comprensione. La non conoscenza è rimossa, la non comprensione è rimossa da un pramāṇam, ma cos’è che la rende evidente? Tu vieni a sapere che c’è: è resa evidente alla luce della Verità; l’evidenza è solo alla luce della Verità. Conosci solo ciò che è evidente, non puoi conoscere ciò che non è evidente e non esiste alcuna cosa chiamata “qualcosa che c’è, ma non è evidente”. Il Bhāṣyakāra dice che solo ciò che è evidente è accettato in quanto Essere. E ciò che è autoevidente è la Realtà. Ciò che è Essere evidente lo si chiama universo. E tu discrimini solo tra ciò che è evidente e ciò che è autoevidente; discrimini tra l’autoevidente e l’evidente e questo lavoro di discriminazione è svolto dal pramāṇam. Un pramāṇam ti aiuta a capire ciò che è evidente, ma ciò che è evidente è evidente alla luce della Verità e Satya è autoevidente. Perciò devi comprendere la differenza tra il lavoro di un pramāṇam e l’evidenza. Il compito di un pramāṇam è quello di aiutarci a capire ciò che è già evidente. La comprensione è diversa dall’evidenza.