Svāmī Prabhuddhānanda Sarasvatī Mahārāja
19. Commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda
Agama Prakaraṇa
Note sul Śaṃkara Bhāṣya riguardanti la Kārikā I.7-9
Quindi il Sé è sia paramārtha sia aparamārtha; è ciò che si può chiamare trascendente e immanente, il che significa che è sia il vedente sia ciò che si vede. L’origine è sia l’origine sia la creazione, perché se l’origine è fatta dall’origine allora l’origine è sia l’origine sia la creazione; è il nirviśeṣam che è insegnato sia come origine sia come creazione, ma il significato (tātparyam) dell’origine è che è per natura nirviśeṣam. Che sia l’origine è prakriyā, insegnamento: è insegnato come origine, ma è nirviśeṣam. Ciò che è percezione prodotta dall’ignoranza (avidyā kalpitam) è la percezione universale (sarvaloka kalpitam), mentre śāstra kalpitam è l’insegnamento. Quindi queste sono le due immaginazioni (kalpanā): avidyā kalpitam e śāstra kalpitam. Ciò che chiamiamo śāstra kalpitam è l’insegnamento: ossia il nirviśeṣam visto come jīva è avidyā kalpitam. Gli śāstra dicono che la Realtà non è qualcosa che sta al di là di tutto, ma che è la fonte di tutto. Avidyā kalpitam è “io sono un individuo e Dio è altro da me”, mentre śāstra kalpitam insegna che l’infinito non è altro da te, è l’origine dell’intera creazione, compresi i tuoi pensieri e persino il senso di incarnazione, che è un pensiero. Perciò, proprio partendo dal senso dell’incorporazione la Realtà appare come origine; è insegnata come origine, ma è nirviśeṣam. Come s’insegna che la corda, che è libera dal serpente, sta all’origine del serpente, così appare la relazione origine-creazione, perché tutti sperimentiamo i tre stati. Ciò che sperimentiamo sono i tre stati e noi stiamo lì come sperimentatori. Tuttavia, anche la relazione sperimentatore-sperimentato deve essere messa a confronto con ciò che è sperimentato, La relazione non è la natura di chi sperimenta, tuttavia il nirviśeṣam è visto come colui che sperimenta il corpo di veglia e il mondo di veglia, colui che sperimenta l’individualità di veglia e il mondo di veglia, colui che sperimenta l’individualità di sogno e il mondo di sogno, colui che sperimenta la dissoluzione (laya): questo è chiamato avidyā kalpitam. Avidyā kalpitam è che ti trovi come sperimentatore del mondo della veglia, dello stato di veglia, dello stato di sogno e del sonno profondo; ti vedi come sperimentatore dei tre stati. Quando sperimenti il terzo stato (suṣpta) concludi “lì non conosco nulla”. “Conosco lo stato di veglia”, questa è un’esperienza. “Conosco lo stato di sogno”, questa è un’altra esperienza, “non conosco nulla nello stato di sonno profondo” è un’altra esperienza. Ora, questo senso di divisione tra sperimentatore e sperimentato, è una relazione. Che la si chiami relazione o divisione, in ogni caso questa relazione non fa parte dello sperimentatore. La relazione tra sperimentatore e sperimentato appartiene allo sperimentato perché anche quella relazione è sperimentata; come l’oggetto della relazione appare e scompare, così anche la relazione appare e scompare. Come i tuoi figli li vedi o non li vedi, così vedi la relazione oppure non la vedi; perciò tutte le relazioni devono essere messe a confronto con ciò che sperimenti: la relazione non è la tua natura. Allo stesso tempo, l’esperienza non è qualcosa di separato da chi la vive; la veglia è oggetto d’esperienza, il sogno è un altro oggetto d’esperienza e il sonno profondo è un altro stato d’esperienza, mentre chi la vive è colui che è contato come Quarto, per non dire che sei tu; lo sperimentatore è dentro e in mezzo alle esperienze. Supponiamo che lo stato di veglia sia il primo stato, che lo stato di sogno sia il secondo, che lo stato di sonno profondo sia il terzo e la Realtà sia il Quarto; se è così allora si dica “lascia perdere i tre stati e concentrati sul Quarto”. Di fatto, non si può lasciar perdere il Quarto perché i tre stati sono avidyā kalpitam e il Quarto è la Realtà. Supponiamo che ci sia qualcuno che dica che la Realtà è il Quarto in quanto è diverso dai tre. Poiché, a parte i tre stati, null’altro è evidente, la tua Esistenza non è evidente se separata e lontana dai tre stati. Cioè la tua Esistenza è sperimentata solo se è correlata ai tre stati e non è provata se non è in relazione. Sì, è vero che c’è non relazione nel sonno profondo, cioè che essa non è mai vista, non è distinta, è libertà dai tre stati; chi sperimenta è diverso dai tre stati, ma non è al di là dei tre stati. Se fosse al di là dai tre stati, la śruti direbbe “dimentica i tre stati e guarda ciò che è al di là dai tre stati”. Ma al di là dei tre stati nulla ci è evidente: quindi se la Realtà fosse al di là dei tre stati dovrebbe essere accettata come inesistente. Non è al di là dei tre stati: è dentro e in mezzo ai tre stati senza essere qualificata dai tre stati. Al di là non significa uno stato al di là dei tre stati perché non c’è nulla di evidente al di là dei tre stati; si sperimenta il pensiero e si sperimenta la libertà dal pensiero. Infatti, anche i tre stati possono essere ridotti a due soli stati: ossia il pensiero e la libertà dal pensiero. Se la Realtà fosse qualcosa che è al di là del pensiero e della libertà dal pensiero, allora tale Realtà non sarebbe evidente; tanto varrebbe accettare śūnyam, il nulla. È come parlare di un sesto elemento non evidente: invece, si deve dire che esso è un elemento inesistente, che è una tua immaginazione. Quindi la Realtà non è al di là dei tre stati: i tre stati sono nella forma del pensiero e la Realtà non è al di là dal pensiero, ma è l’origine stessa dei tre stati. Ecco perché la śruti descrive sempre la Realtà come origine. Se non la si pensa come origine, la si pensa come qualcosa che è al di là, come quella montagna è al di là di questa montagna. Un al di là spaziale e, allora, ci sarà un altro al di là. Perciò non si può accettare che sia al di là dei tre stati: deve essere intesa come l’origine stessa dei tre stati, la fonte dei tre stati.
Il prossimo verso parlerà della Realtà come origine dei tre stati e tuttavia libera dai tre stati. Non è oltre i tre stati: è la Realtà dei tre stati e tuttavia non è qualificata dai essi. “Non qualificata” significa “libera da”. Perciò la Realtà può essere trasmessa solo dicendo che è l’origine dei tre stati e che, tuttavia, non ne è qualificata. È la Realtà di essi e tuttavia è libera da essi, come la corda è la realtà del serpente e, tuttavia, è libera dal serpente. La sostanza è la realtà della forma e tuttavia non è qualificata dalla forma; l’oro è la realtà del gioiello, il gioiello è l’aspetto, ma l’aspetto non qualifica l’oro. L’oro è l’origine del gioiello e, tuttavia, non è qualificato dall’aspetto del gioiello. L’Ātman è la Realtà dei tre stati, di tutto ciò che sperimenta; e la śruti insegna che chi sperimenta i tre stati ne è l’origine. Finora si è detto che è l’origine. Il primo mantra dice che è Virāṭ, il nirviśeṣam appare come Virāṭ. Il secondo mantra dice che il nirviśeṣam sembra il sogno, il terzo mantra dice che è Virāṭ e il quarto mantra dice che è Hiranyagarbha. Il quinto e il sesto mantra dicono che è Īśvara, l’origine. Si dice che è l’origine, ma il significato (tātparyam) è diverso; ossia, ciò che è insegnato è diverso da ciò che si vuole intendere. Ciò che è detto è una cosa, ma, in ciò che viene detto, e per suo mezzo, c’è qualcosa che deve essere inteso. Tale significato è detto tātparyam. Cosa sia ciò che si dice (uktaṃ) e cosa sia ciò che si deve capire (vivakṣitam), sono concetti che ti devo chiarire. La śruti afferma che l’acqua è l’origine dell’onda; ma con ciò vuole intendere che l’acqua è libera dal rapporto tra origine e creazione, che essa non crea qualcos’altro con cui si relaziona; cioè significa che è libera da qualsiasi relazione. Il settimo mantra, infatti, parla della libertà da tutte le relazioni. È origine di tutto e, insieme, libera da tutto. Perciò la Realtà può essere compresa solo tramite lo strumento della correzione. Non posso iniziare a dire che non è cosciente degli oggetti interni (antaḥprajñam) né degli oggetti esterni (bahiṣprajñam): dopo aver detto che “è l’origine di tutto”, si deve dire che “non è qualificato da quel tutto”; è l’origine, ma non è qualificato da quel tutto; è l’origine della veglia, ma non è qualificato da essa; è l’origine del sogno ma non è qualificato da esso. Che sia l’origine del sonno profondo è il pensiero dell’ignoranza. Infatti, nello stato di veglia il sonno profondo è considerato come il pensiero di uno stato di ignoranza. Qualsiasi cosa sia origine dello stato di veglia è anche origine del pensiero dell’ignoranza, ossia il pensiero che il sonno profondo sia uno dei tre stati. Dopo aver detto che è l’origine, si deve dire “ma non è qualificato da esso”. Quel “non è qualificato da esso” è la correzione: che sia l’origine si chiama adhyāropa dṛṣṭi e che non sia qualificato da esso è la correzione, l’apavāda. Che la corda sia l’origine del serpente è adhyāropa dṛṣṭi. In base alla relazione con l’origine, si tratta della relazione origine-creazione, si tratta della relazione verità-errore. La corda è la verità e il serpente è l’errore, e così si accetta ancora la relazione verità-errore. Invece l’affermazione della sua reale natura (svarūpa vākya) dice che la corda non è qualificata dal serpente, è libera dal serpente ed è non duale (advitīyam). Così l’Ātman può essere descritto come la sorgente dei tre stati ed essere libero dai tre stati. Il settimo mantra parla di apavāda. Apavāda significa affermazione correttiva. Na antaḥprajñam, la Realtà non è qualificata dal sogno, la Realtà non è un sognatore; che “io sia un sognatore” è avidyā kalpitam, che la Realtà sia l’origine del sogno è śāstra kalpitam e il tātparyam è che è nirviśeṣam, libero sia da avidyā kalpitam sia da śāstra kalpitam. L’avidyā kalpitam è negato dallo śāstra kalpitam e lo śāstra kalpitam è negato dallo stesso śāstra. Lo śāstra kalpitam, la relazione origine-creazione, è negata dallo stesso śāstra, perché la Realtà è libera dalla relazione origine-creazione. “Sei un sognatore” è avidyā kalpitam, mentre lo śāstram dice “non sei un sognatore, sei l’origine del sogno”: questo è śāstra kalpitam. L’insegnamento dice “sei l’origine di qualcosa”, ma intende dire che “ciò di cui sei origine non ti qualifica”: ciò che si vede non qualifica il vedente e la stessa śruti dice che sei libero dalla relazione origine-creazione; questo è chiamato apavāda, cioè il svarūpa vākyam. Così avidyā kalpitam è negato dallo śāstra kalpitam, e lo śāstra kalpitam è negato dallo stesso śāstram. Questo processo è chiamato adhyāropita apavāda: dapprima lo śāstra dice che sei l’origine e poi l’apavāda dice che sei del tutto libero dalla relazione origine-creazione. È come se prima ti dicessi “tu sei una madre” e poi dicessi “non sei una madre, sei la verità di quel ruolo”. Il fatto che tu sia una madre è un ruolo e tu sei la verità di quel ruolo che è lo svarūpam: sei persino libero dalla relazione verità-ruolo. In definitiva, l’adhyāropa dṛṣṭi culmina senza possibilità di scelta nel svarūpam, nel vero senso (tātparyam): ti si insegna che sei l’origine, ma l’origine, una volta compresa, è nirviśeṣam. La verità, quando è compresa, è nirviśeṣam. “Na antaḥprajñam”, vuol dire “tu non sei un sognatore” e “na bahiṣprajñam”, “tu non sei un vegliante”: il Sé non è un vegliante, perché è l’origine dello stato di veglia. La parola ‘origine’ non deve creare problemi. Non è molto difficile che una corda venga scambiata per un serpente; ma non è che la corda debba fare uno sforzo per essere l’origine del serpente. Allo stesso modo, il vedente non deve fare alcuno sforzo per vedere ciò che deve essere visto, proprio come il vedente del sogno non deve fare alcuno sforzo per essere l’origine del sogno. Colui che vede la forma ne è l’origine in quanto la vede. Pertanto, che tu sia un vegliante è avidyā kalpitam, che l’Ātman ne sia l’origine è l’insegnamento degli śāstra e il tātparyam è che è libero dall’essere l’individuo vegliante e che è anche libero dalla relazione origine-creazione. Si può, dunque, capire perché lo śāstra kalpitam neghi avidyā kalpitam e lo śāstra kalpitam sia a sua volta negato dallo śāstram stesso.
Non sei un cercatore del decimo uomo, tu sei la verità della cerca. La cerca è solo un errore, la cerca è solo avidyā kalpitam. Che tu sia la Realtà è l’insegnamento, che tu sia il decimo uomo è l’insegnamento. “Ma sono obbligato alla cerca!”. No, tu sei libero dal rapporto verità ed errore; come decimo uomo, essendo il decimo uomo, allora non sei qualificato da nessuna cerca. Non essendo qualificato da alcuna cerca, sei nirviśeṣam, sei advitīyam. In questo modo c’è avidyā kalpitam che è negato dall’insegnamento dello śāstram; e lo stesso insegnamento dello śāstram è considerato come śāstra kalpitam, che vuol dire che non fa parte della Realtà. Non sei in nessuno dei due stati di coscienza (na ubhayata prajñam), sei libero dall’essere un sognatore, sei libero dall’essere un individuo che veglia, sei libero anche dall’essere antarāla. Antarāla significa colui che, in certe circostanze, né sogna né veglia o che è un po’ in sogno e un po’ in veglia. Se qualcuno immagina qualcosa del genere, rispondo a questa sua immaginazione così: “Non sei né l’individuo che veglia né l’individuo che sogna né un individuo intermedio. Non sei un individuo, non sei una combinazione di sogno e veglia. Nemmeno sei lo stato non manifestato di tutte le percezioni, che si chiama ghanaprājña (prajñānaghana). I vari componenti di un albero sono indistinguibili nel seme; esso è detto ‘inviluppato’ (avyakṛtam) e ‘uniforme’ (ghanatvam), perché in quello stato non sviluppato non si possono discernere tutti i particolari. Śaṃkrācāryajī lo spiega con il seguente esempio: quando c’è luce si vedono tanti oggetti e quando c’è oscurità non si vede nulla. È tutto uniforme perché gli oggetti sono invisibili e questo è chiamato non manifestato; ci sono, ma non si vedono, non li si distingue. La Realtà non è affatto lo stato non manifestato del mondo, la Realtà è la presenza della coscienza: ecco perché è detto na antaḥprajñam, na bahiṣprajñam, na ubhayata prajñam, na prajñānaghana: lo stato non manifestato è negato, non è percezione in generale né pensiero in generale né assenza di pensiero in generale. Si può pensare: “Io sono un individuo che veglia; oppure sono un pensatore che veglia, un pensatore che sogna e un pensatore del non manifestato; oppure sono una combinazione di un pensatore che veglia e di un pensatore che sogna; o un pensatore in generale; oppure sono un non pensatore in generale”. Ma la Realtà non è né un pensiero che veglia né un pensiero che sogna né una combinazione di pensieri né una combinazione di entrambi né una presenza di pensiero né un’assenza di pensiero. L’uomo pensa “io vedo me stesso”. Questo è avidyā kalpitam perché l’Io, il Sé, non può mai essere visto: ecco perché è adṛṣṭam, non visto, è avyavahāryam, è qualcosa che non è oggetto di percezione o di pensiero o di azione; non è oggetto di vyavahāra, non è oggetto di memoria o di piacere o di dolore, non è né oggetto di strumenti di indagine (pramāṇa viṣayam) né oggetto di azione (karma viṣayam) e nemmeno è oggetto di conoscenza (jñāna viṣayam). E, anche se diciamo “è oggetto di conoscenza” non è un oggetto: è il soggetto della conoscenza, non un oggetto. Non è qualcosa che può essere oggettivato dai sensi, dal pensiero, dalla memoria, ecc., non è afferrabile (agrāhyam). Che cos’è avidyā? Guardi te stesso come percepibile, sei capace di toccarti, vederti, ricordarti, di godere di te stesso, di soffrire di te stesso; guardi te stesso come oggettivabile e questo ti rende conoscibile. Invece la śruti viene a dirti: “Tu non sei conoscibile (grāhyam), tu non sei percepibile (alakṣaṇam)”: non esiste alcun indizio della tua esistenza. Il fumo è indizio del fuoco, ma la Realtà non ha alcun indizio e la prova della sua esistenza non dipende da alcun indizio. Così anche la prova della tua esistenza non dipende da alcun indizio. La tua esistenza è acintayam, non è un oggetto di pensiero. La tua esistenza non è qualcosa che può essere insegnata (avyapadeśyam). Ciò che può essere insegnato, non è la tua natura. La Realtà è insegnata per mezzo dell’errore su di essa. Quindi, anche l’insegnamento sulla Realtà deve essere accompagnato dall’errore, perché non è insegnabile per sua natura. È proprio come per suṣupti: non puoi parlare di suṣupti perché è la tua natura. Nello stato di veglia si può parlare di suṣupti; ma tutto ciò che si può dire di suṣupti durante la veglia può essere messo in relazione solo con lo stato di veglia, non con il sonno profondo. Incredibile! Tutto ciò che usi per descrivere suṣupti lo usi solo nello stato di veglia. Tutto ciò di cui parli in stato di veglia è parte dello stato di veglia e lo stato di veglia non è una parte di suṣupti; quindi, la Realtà che può essere insegnata in veglia non è la sua natura. Può, sì, essere insegnata dal punto di vista dell’errore, ma le parole usate possono solo correggere l’errore. Quelle parole sono per insegnare, possono solo indirizzare il mio pensiero, ma non possono descrivere la natura della Realtà. Ciò che fa parte della creazione non può descrivere l’origine increata. Come la materia non può raggiungere l’origine così le parole della veglia non possono esprimere cos’è il sonno profondo. Se parlo della Realtà nello stato di errore anche quelle parole sono parte dell’errore, non qualificano la Realtà: se non la qualificano allora diciamo che la sua natura non è disponibile a essere descritta a parole. Per questo motivo, possiamo dire che l’insegnamento dato dagli śāstra è solo una parte dell’errore.
Nell’Adhyāsa Bhāṣyam si dice che tutti i pramāṇa, come anche il Vedānta, presuppongono l’ignoranza (adhyāsa) e tutto ciò che presuppone l’adhyāsa è anch’esso parte dell’adhyasa. Ciò significa che anche se nega l’adhyāsa non qualifica la Realtà (Vastu). Ma, allora, se non qualifica il Vastu, che cosa qualifica? Qualifica l’errore. Tutto ciò che l’uomo pensa della Realtà è un’immaginazione della Realtà. Lo śāstra fa solo insegnamento, guida solo il nostro pensiero: tutte le sue parole guidano il nostro pensiero, correggono il nostro pensiero, lavorano sul nostro pensiero, ma non possono realmente descrivere la natura della Realtà. La natura della Realtà non può essere descritta e, in questo senso, è avyapadeśyam, non insegnabile. Tieni a mente quanto detto: il linguaggio che usiamo per descrivere lo stato di sonno profondo mentre si è in veglia, quel linguaggio è parte dello stato di veglia, non descrive né qualifica il sonno profondo. La natura della Realtà non è alla portata di alcuna spiegazione. Il ‘tu’ che era in sonno profondo è sveglio, il ‘tu’ sveglio e sognante è in sonno profondo: con il pensiero sei tu, senza pensiero sei sempre tu. Questa evidenza della propria esistenza, la presenza insostituibile della propria esistenza è l’unica evidenza disponibile. O, per dir meglio, l’unica evidenza è la presenza della Realtà; l’evidenza della Realtà non è qualcosa di diverso dalla Realtà, l’evidenza della Realtà è la Realtà. L’evidenza del fuoco è il fumo, cioè qualcosa di diverso da esso, il suo effetto. L’effetto diventa l’indizio dell’evidenza del fuoco, l’indizio della presenza del fuoco; lo chiamo indizio, ma per il resto è un’evidenza, un’evidenza deducibile. Invece, l’evidenza della Realtà non è qualcosa di diverso dalla Realtà. L’evidenza della Realtà è la Realtà e, la Realtà in questo senso è evidente. La prova della tua esistenza è la tua esperienza del tuo esserci, il che è evidente. La prova della tua esistenza è l’esperienza, quindi la tua propria presenza è la prova della tua presenza. Non puoi ignorare la tua esperienza, non la puoi evitare, non puoi intrometterti nell’esperienza della tua propria esistenza, non puoi allontanare l’esperienza della tua esistenza perché ogni esperienza soggettiva si può allontanare; la soggettività si può allontanare, ma l’esperienza della tua propria esistenza non la puoi allontanare. Nessuno può intromettersi nell’anubhava che riguarda la propria esistenza. Puoi chiudere gli occhi sull’oggetto che si intromette, puoi chiudere gli occhi su ciò che è deducibile, puoi chiudere gli orecchi al suono, puoi chiudere i sensi rivolti al mondo, ma non puoi interdire l’evidenza della tua esistenza. La propria esistenza non può essere ignorata, non si può negare la propria esistenza. Anche quando dici “non faccio esperienza di me stesso nel sonno profondo”, intendi dire che non sperimenti la tua individualità da vegliante. Lì non sperimenti questa forma, non sperimenti “io sono il signor così e così”, non sperimenti il pensiero su di te: tuttavia, lì non ti è possibile essere privo dall’evidenza della tua esistenza. Comprendi, quindi, l’insegnamento: la tua esistenza non può mai essere evitata, perciò lì non puoi negare la tua esistenza, non puoi negare la tua presenza, perché anche per negare la tua presenza è necessaria la tua presenza. Questo è ciò che si chiama “certezza d’esistere e di essere unico” (ekātma pratyaya sāram). L’anubhava è l’unico pramāṇam, è l’evidenza innegabile della tua esistenza, è l’unica evidenza: la Realtà è l’unica evidenza della Realtà. La prova della tua esistenza è l’unica prova della tua esistenza. L’Ātman è l’unica prova dell’Ātman e l’Ātman è l’intuizione non soggettiva della tua esistenza (anubhava siddham). Perché non è soggettiva? Perché non si può evitare, non si può ostacolare l’esperienza della propria esistenza. L’inevitabile evidenza della tua esistenza è l’unica evidenza disponibile. Gli śāstram non sono l’evidenza della Realtà e nemmeno il jagat è evidenza della Realtà: infatti, l’evidenza della Realtà non dipende da null’altro dal Sé, solo il Sé è l’evidenza della sua esistenza. È in questo senso che il Sé è detto ‘autoevidente’; è evidente di per sé. Non è qualcosa che può essere dedotto per mezzo di qualcosa, non deduci la tua esistenza per mezzo di qualcosa. Non puoi dire “sto vedendo il mondo quindi sono”; ti capita di vederlo, ma la tua esistenza è lì sempre presente, non la deduci mai. Si tratta dell’esperienza indubitabile della propria esistenza. L’esperienza non è un pensiero soggettivo e non è affatto un pensiero; non è né un pensiero soggettivo né un pensiero oggettivo, è indipendente dal pensiero, è la tua propria esistenza. Questo è il significato della formula “ekātma pratyaya sāram”. In verità, l’unico pramāṇa è l’anubhava che “io sono me stesso”. In tutte le esperienze io sono me stesso. C’è l’esperienza relativa alla propria esistenza, ossia quando dici che “io pur vedo il mondo”: ma tu sei lì, l’esistenza di te stesso ti è evidente, mentre il mondo è lì come solo visto da te, come oggettivato da te. La presenza di te è lì senza essere oggettivata. Anche il sogno è lì solo in quanto oggettivato da te, ma la tua esistenza è lì senza essere oggettivata. In questo modo, l’unica evidenza della Realtà è l’evidenza della Realtà. Perciò l’evidenza della Realtà non è corroborata, non è confermata attraverso qualcosa, la tua esistenza non è confermata per mezzo di qualcos’altro. Non cercare mai di confermare la tua esistenza, cerca di capire cosa sei, ma non cercare mai di confermare quel “io sono”. La śruti dice che la tua esistenza è eterna, non è una forma; la śruti dice che la tua esistenza è evidente per te, ma quell’esistenza che è auto-evidente per te, quell’esistenza sentita da te non è una forma. E l’identità cosciente che senti inevitabilmente non è limitata: questo è tutto ciò che dice lo śāstra. Sì, l’esistenza è evidente, ma è evidente la tua esistenza. Non cercare mai di confermare la tua esistenza attraverso qualcos’altro dal tuo Sé, perché la tua esistenza non è una forma. Questo è l’insegnamento. Non cercare mai di confermare la tua identità cosciente, che tu sia cosciente o meno; non cercare mai di averne conferma tramite qualcun altro, perché la tua esistenza è evidente. Tutto ciò che la śruti dice è che la tua idea “io sono una coscienza limitata” è sbagliata: la tua identità cosciente è libera dall’essere limitata. Non ti insegna la Realtà, ti fa indagare su ciò che pensi di te stesso. Questa indagine non aggiunge nulla alla tua esistenza né toglie nulla alla tua esistenza e nemmeno può intromettersi nella tua esistenza, ma può solo correggere il tuo pensiero su te stesso, istruirti sul tuo Sé. Perciò non cercare mai di confermare la tua identità cosciente, e non cercare mai di confermare che “io sono lì” per mezzo di qualcuno. Ciò che non si sente mai bisogno di confermare è evidente; per confermare se ci sono oggetti o no devi usare gli occhi, devi confermare con gli orecchi se c’è questo o quel suono, ma non devi usare i sensi per confermare la tua esistenza. Per confermare la tua esistenza non puoi nemmeno usare la logica. Tu pensi erroneamente alla tua esistenza. Lo śāstra viene e ti dice: “Mio caro Signore, la tua esistenza è evidente e non è una forma”. Lo śāstra, dunque, non solo dice che la tua esistenza è evidente, ma anche che il tuo non essere una forma è evidente. Il tuo essere non-duale è evidente, il tuo essere cosciente è evidente, e questa autoevidenza è il significato della frase “ekātma pratyaya sāram”. “Ekātma pratyaya sāram” significa che il mahāpramāṇa della Realtà è la sua stessa esistenza. L’evidenza della tua esistenza è l’evidenza della tua esistenza; nessuna altra cosa è l’evidenza della tua esistenza, la tua esistenza è l’evidenza della tua esistenza, la sensazione della tua esistenza è l’evidenza. Tale sensazione non è una sensazione soggettiva, è una sensazione inevitabile: la sensazione della tua esistenza che non puoi evitare è l’unico pramaṇām. Anche se la chiami esperienza, è un’esperienza ineludibile. “Ekātma pratyaya sāram” è libero dal mondo (prapañca upaśamam). Perché non diciamo “è il punto di dissoluzione del prapañca”? Sì, è il punto di dissoluzione del mondo, nel senso che è libero non solo dal prapañca, ma è anche libero dalla relazione chiamata punto di dissoluzione; ossia è anche libero dalla relazione dissolutore-dissoluto. Essere liberi da un oggetto significa anche essere liberi dalla relazione vedente-visto. Essere liberi dal mondo significa essere liberi da ogni relazione con il mondo. Il Sé ha come propria identità quella di essere pacifico, essendo la serenità la sua natura. Auspicioso (śivam) è ciò che è più desiderabile; ognuno ama il proprio Sé, lo śivam. Śivam significa libero da sofferenza (duḥkham). Che sia libero da duḥkham non è la sua natura: che sia libero da duḥkham è insegnamento, è l’insegnamento correttivo in quanto la natura della Realtà è libera da qualsiasi riferimento a duḥkham. La Realtà è libera anche da quell’insegnamento “che è libero da duḥkham”. In suṣupti sei libero dallo stato di veglia, ma in verità, quando arriva suṣupti, sei libero anche da quell’insegnamento, dall’espressione “io sono libero dalla veglia”: sei libero dalla dualità. “Caturtham manyanty”, la gente lo considera Quarto, ma in realtà non è il Quarto, non è qualcosa che si possa enumerare. È l’uno non seguito dal due. Non è l’uno aritmetico, perché l’uno aritmetico è seguito da due, tre, quattro: è solo un numero. La Realtà non è un numero. È l’errore a essere triplice: l’errore della veglia, l’errore del sogno, l’errore del sonno profondo. La Realtà di tutti e tre è considerata ‘il Quarto’. Tu la vedi come un serpente, io la vedo come una ghirlanda e, invece, non vedere che è una corda è il terzo. Terzo significa che la corda è la realtà sia della ghirlanda sia del serpente. Così, che sia il Quarto non significa che sia diverso dai tre: il Quarto è altra cosa rispetto ai tre. Ricorda questa frase: “la Realtà stessa dei tre stati è il Quarto, la Realtà dei tre pensieri è il Quarto. L’intero stato di veglia è sotto forma di pensiero (pratyaya), l’intero stato di sogno è pensiero e anche il lo stato di non percezione è un pensiero intrattenuto nello stato di veglia. Perciò, lo stato di veglia è una percezione che è stata fatta, lo stato di sogno è una percezione che è stata fatta e lo stato di sonno profondo, come non percezione, è un pensiero che è stato fatto. Invece la propria esistenza non è un pensiero che sia stato fatto, è Essere. Quindi l’Essere non è Quarto, l’Essere è la Realtà dei tre tipi di pensiero, l’Essere è la Realtà dei tre stati; e soltanto perché è la Realà dei tre è chiamato Quarto. “Caturtham iti manyanty”, alcuni pensano che sia il Quarto ma non è il Quarto, è ekameva advitīyam, è uno non seguito da alcun secondo. L’uno matematico è seguito dal due, ma l’uno non-duale non è seguito da alcun due, perché non esiste alcun secondo: l’infinito è uno non seguito da un secondo, l’illimitato è uno non seguito da un secondo. È questo il significato di “la gente proprio così pensa che sia il Quarto” (Caturtham iti manyanty). Ci sono tre onde e l’acqua è la Realtà delle tre onde. Può essere considerata come un quarto fatto, non una quarta esperienza. Il Quarto fatto è la Realtà dei tre, ma, allo stesso tempo, è la Realtà dei tre non qualificata dai tre. Questo è chiamato il riassunto del l’intero adhyāropa apavāda nyāya. È allo stesso tempo l’origine del jagat e non qualificata dal jagat; è allo stesso tempo la fonte delle tre onde e non qualificata dalle tre onde. È nirviśeṣam, è la tua esistenza, è ciò che deve essere capito; non è upāsyam, qualcosa da meditare, non è qualcosa da adorare, non è qualcosa da immaginare, è qualcosa da capire. Quando la tua esistenza è evidente, ciò che è evidente non può essere oggetto di credenza; ciò che è al di là può essere oggetto di credenza. Ma ciò che è te stesso, la tua stessa esistenza, non può mai essere oggetto di credenza, non può essere oggetto di adorazione, non è oggetto di alcuna relazione (vyavahāra). È una questione di comprensione di ciò che è allo stesso tempo l’origine e che è non qualificato dal jagat. Il vedente è allo stesso tempo sorgente degli oggetti inerti, ma non è qualificato da ciò che è inerte. È qualcosa che devi comprendere.