Svāmī Prabhuddhānanda Sarasvatī Mahārāja

15. Commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda

Agama Prakaraṇa

Kārikā I.6-9

Riprendendo con la Kārikā I.6, è vero che i nomi e le forme appaiono e scompaiono, che talora si vedono e talaltra non si vedono. Questo è evidente, ma che sia una creazione è una tua conclusione. La parola ‘creazione’ è una conclusione, non un’evidenza: è evidente solo che ora vedi il mondo, ora non lo vedi, che ora appare e altre volte non appare, ora ti trovi a vederlo e certe altre ti trovi a non vederlo. Non decidi tu di vederlo, non decidi tu di non vederlo; semplicemente yi accade, ti trovi sveglio e di nuovo ti trovi addormentato. L’apparizione e la scomparsa sono evidenti, la percezione e la non-percezione sono evidenti. Sulla base di queste diverse esperienze, le persone fanno speculazioni diverse. “È una creazione…” e una volta che si usa la parola creazione si immagina il Creatore; una volta che si immagina il Creatore si immagina la sua volontà, poi la sua necessità, poi il suo desiderio e l’immaginazione elabora così tante speculazioni. Tuttavia, l’evidenza non può innescare alcuna speculazione, sono le conclusioni elaborate dalla mente che innescano ogni tipo di speculazione.

Pravāha significa sorgente. Tutto ciò che appare e scompare ha una sorgente, un’origine, ma ciò che appare e scompare non deve necessariamente essere una creazione. Il Vedānta accetta l’origine, accetta la sorgente. Perciò anche per un sogno c’è un’origine, ma con questo non s’intende che il sogno sia una creazione. Il sogno è una percezione e anche la percezione ha un’origine; l’apparenza ha un’origine, ma accettare l’origine è diverso dall’accettare che sia tutto una creazione. Anche se si accettasse che si tratta d’una creazione, non vuol dire che sia una creazione nata da una volontà, che sia qualcosa di deliberato. Allora cos’è? È apparenza di creazione (māyika sṛṣṭi); la si chiama creazione, la si chiama māyika sṛṣṭi, ma è solo percezione. Ma, che la si chiami creazione, percezione o apparenza, ciò che il Vedānta accetta è che l’origine è la sola Realtà, mentre ciò che si vede, ciò che appare, ciò che si vede apparire è tutto falso, non reale (mithyā); solo l’origine è vera, è reale: l’origine di tutti quei dettagli che sembrano reali. Questa è la dichiarazione finale del Vedānta: tutte le apparenze hanno un’origine e la Realtà è l’origine di tutto. Se la Realtà è qualcosa di non correlato a ‘questo’ (idam, il mondo), allora il ‘questo’ rimane inspiegabile. È correlato a questo anche se è libero da qualsiasi relazione. Un fatto è sempre in relazione con l’errore, anche se è libero dall’errore. La visione del Vedānta è che tutte le apparenze hanno un’origine e l’origine ‘agevola’ l’apparenza.

In questo passaggio, Prāṇa significa Parameśvara, la vita di tutto che è la origine di tutto. La mente è legata alla sua origine; la mente non è parallela alla sua origine, è un tutt’uno con la sua origine, quindi la sorgente ‘agevola’, nel senso che la sua presenza è necessaria perché le apparenze appaiano, la corda ‘agevola’ la percezione del serpente; ‘agevolare’ non implica l’uso d’una volontà, ma che la presenza di un fatto è necessaria perché to lo percepisca anche se lo fraintendi. Se il fatto non c’è non può essere frainteso ed è frainteso quando è non capito. In un senso molto implicito, in un senso molto profondo, un fatto ‘agevola’ un’apparizione, l’origine ‘agevola’ l’apparizione come l’acqua ‘agevola’ l’apparizione dell’onda. Ciò significa che perché l’onda appaia deve esserci l’acqua, la forma dell’onda si forma nell’acqua, perciò deve esserci l’acqua. Quindi, l’origine soltanto ‘agevola’, non vuole; la sua sola esistenza ‘agevola’ le percezioni. Così anche l’Essere cosciente illimitato ‘agevola’ le apparizioni di tutti i jīva, di tutte le creature. Ogni creatura è chiamata cetomukhaḥ, un frammento di coscienza; in realtà è Coscienza, ma ha l’aspetto di un frammento a causa delle sovrapposizioni limitanti (upādhi). La Coscienza non può essere descritta in termini di dimensioni piccole o grandi, in quanto per natura è illimitata. Perciò anche tutti i jīva sono ‘agevolati’ dall’illimitato, ed è l’illimitato che ‘agevola’ la comparsa della limitazione. L’Essere illimitato ‘agevola’ l’apparizione, ma quando usiamo il verbo ‘agevolare’ immaginiamo ci sia una volontà, mentre la volontà non può esserci se non c’è una qualche necessità. Tuttavia, necessità non può esserci se non c’è un senso di limitazione; se l’origine è già illimitata non ha alcun bisogno e dunque non ha volontà: è solo Essere. È difficile per l’essere umano pensare alla Realtà come qualcosa che è solo Essere. Noi pensiamo sempre alla Realtà come se fossimo coinvolti nel mondo, ma la creazione è ‘agevolata’ dall’illimitato grazie alla sua presenza, non alla sua volontà, non al suo bisogno, non a una sua qualsiasi limitazione: nient’altro che alla sua presenza. Non è la volontà della corda che ‘agevola’ l’apparizione del serpente, è la sua presenza non capita. Se non capisco che è una corda, allora mi sembra un serpente, ma se non ci fosse la corda non potrei scambiarla per il serpente; quindi non c’è alcuna volontà da parte della corda, non c’è alcuna necessità da parte della corda, non c’è alcun desiderio da parte della corda. Essa solo è. Infatti l’esempio della corda è perfetto perché la corda è solo presente: non decide di creare un serpente, non vuole, non pensa nulla. Eppure posso dire che la corda ‘agevola’ la percezione del serpente perché per te deve esserci la corda affinché ci sia la percezione sbagliata del serpente. In questo modo, in un senso molto, molto profondo, la corda ‘agevola’ la percezione del serpente, esattamente come la Realtà illimitata facilita la percezione di esseri viventi, dei cinque elementi, dell’universo intero.

L’infinito è visto come l’universo sconfinato, l’universo illimitato; l’indiviso è visto come diviso; il non correlato è visto come correlato, l’illimitato è visto come limitato: questo si chiama ‘agevolare’, altrimenti si crea un conflitto nella mente delle persone: “In continuazione Svāmījī sta parlando di creazione, creazione, creazione, perché Bhagavān ha creato”. Una volta per tutte devi capire che ‘agevolare’ non è un’azione, è essere, è la sua presenza. Se non è compresa, è percepita diversamente e, allora, è chiamata ‘agevolare’. La Realtà non fa nulla se non esistere: la presenza non è un’azione come pensare o parlare. Essere non è un’azione, e non ci può essere un’azione senza l’Essere contrastante; cioè, se ci deve essere un’azione ci deve essere per contrasto l’Essere, come se c’è un limitato deve esserci un illimitato per contrasto, se c’è un cambiamento deve esserci un immutabile per contrasto. Vedere questo contrasto tra la propria esistenza e il resto, è lo stesso tipo di contrasto che intercorre tra l’illimitato e il limitato, il cosciente e l’inerte, il privo di forma e la forma, il silenzio e il rumore, tra l’immutabile e il mutevole.

Viveka significa contrasto. Vedere il contrasto tra la propria esistenza e il corpo, vedere il contrasto tra la propria esistenza e l’universo è ciò che si chiama riflessione. Non devi creare il contrasto, il contrasto c’è già, devi solo osservare il contrasto che c’è tra l’esistenza e l’apparenza. Sì, noi la chiamiamo “creazione”, ma la sua sorgente è libera dalla volontà, dalla necessità e dal senso di limitazione. Non si può volere qualcosa solo quando se ne ha bisogno; posso sentire necessità solo quando ho un senso di limitazione. L’illimitato non ha alcuna necessità: è il senso di limitazione che fa scattare il bisogno e il bisogno fa scattare la volontà di raggiungere qualcosa. Perciò le domande del tipo “Perché ha creato?” non hanno alcun significato perché l’origine è libera dalla volontà, è libera dal pensiero. L’origine non capita diventa incomprensibile e questo è ciò che viene chiamato creazione: noi la chiamiamo “creazione” ma invece è solo una percezione errata.

Il Vedānta segue il satkāryavāda in questo senso: ogni apparenza ha una sorgente. Questa dottrina si chiama satkāryavāda. I buddhisti seguono l’asatkāryavāda, secondo cui le cose appaiono nel vuoto. Ora c’è da definire il vuoto, se è un vuoto conosciuto o un vuoto sconosciuto. Se è un vuoto sconosciuto non si può giurare sulla sua esistenza. Nessuno può dire “effettivamente c’è il vuoto”; nessuno può giurare che ci sia qualcosa chiamato vuoto, a meno che non sia conosciuto. Se non si conosce non si può giurare, ma se si conosce allora si è la Realtà. Chi conosce è la Realtà stessa, la sua natura è quella di Essere, mentre il vuoto è solo un pensiero. Il vuoto è un pensiero: ci può essere un pensiero di una forma e un pensiero dell’assenza della forma. La tua identità non è in forma di un pensiero: un pensiero si crea in te, ma tu sei solo Essere, sei presenza. Poiché i buddhisti parlano nell’ottica dell’asatkāryavāda, le cose appaiono nel vuoto. Il Vedānta nega questo punto di vista, noi seguiamo il satkāryavāda, che afferma che tutte le apparenze hanno una origine. Ma qual è questa origine? Le persone formulano speculazioni diverse: “L’origine pensa e crea”, “L’origine desidera e crea”, “Solo l’Essere-origine è i tutto intento (tātparyam) [a creare]”. È in questo modo che l’origine non capita viene fraintesa. A coloro che sono scarsamente qualificati (mandamadam adhikārin) e che non riescono a capire ciò che percepiscono, noi diciamo: “È una falsa creazione, è apparenza illusoria (māyā sṛṣṭi), è una percezione errata, è una conoscenza rovesciata (viparīta jñānam). Un profano non può capire come possa esserci viparīta jñānam della Realtà. Ogni fatto non compreso può essere frainteso. Allo stesso modo, è un fatto che è la Realtà è la tua stessa esistenza, ma se ciò non è compreso diventa un fraintendimento. Non si può nemmeno presupporre che questo fraintendimento sia dovuto al tempo, perché il tempo stesso fa parte di questo fraintendimento, l’intera creazione deriva da questo fraintendimento. È in questo modo che il Vedānta segue il satkāryavāda.

I.7. Vibhūtim prasavam tvanye manyante sṛṣṭi cintakā ǁ
Svapnamāyāsarūpeti sṛṣṭiranyairvikalpitā 

Tuttavia altri, convinti delle teorie sulla creazione, considerano la manifestazione come una estrinsecazione della potenza (del Signore), mentre altri ancora immaginano che la creazione sia paragonabile al sogno o alla magia (dell’illusionista).

I.8. Icchāmātram prabhoḥ sṛṣṭirityanye sṛṣṭau viniścitāḥ ǁ
Kālātprasūrti bhūtānām manyante kālocintakāḥ 

Per quanto riguarda la creazione, alcuni hanno la ferma credenza che sia creata per mera volontà del Signore, mentre quelli che sono legati alle speculazioni sul tempo ritengono che la nascita degli esseri sia prodotta dal tempo.

I.9. Bhogārtham sṛṣṭirityanye trīḍārthamiti cāpare ǁ
devasyaiṣa svabhāvu ayamāptakāmasya ka spṛhā 

Alcuni affermano che la creazione avviene perché (il Signore) ne fruisce e altri ancora dicono che è il suo divertimento. Invece è proprio la natura stessa dell’Essere autoluminoso, (perché) quale desiderio può avere Colui la cui volontà è eternamente appagata?

Alcuni sostengono sempre l’ipotesi che “questa è la vibhūti di Dio, è la gloria di Dio”. Vibhūti significa gloria, splendore. La gloria di Dio non è la creazione, la gloria di Dio è la libertà dalla creazione. Questa è la sua natura, la sua natura è la sua gloria; l’universo non è la sua gloria. I creazionisti (sṛṣṭi cintaka) sono ossessionati dall’idea che tutto questo sia una creazione, una creazione nata dalla volontà di Dio, una creazione nata dal desiderio di Dio, una creazione nata dalla necessità che Dio prova. Il Vedānta dice che questo universo non è la gloria di Dio, è un errore proiettato su Dio, è viparīta jñānam, la forma è un errore proiettato sul privo di forma (arūpin), l’oggetto è un errore proiettato sul soggetto.

L’uomo inizia a immaginare “è la gloria di Dio, ci deve essere uno scopo, ecc.” e allora assume una religiosità infantile; invece, tutto questo è solo un sogno. Questa creazione è come un sogno ed è māyā: sembra esserci ma non c’è, sembra essere parallela a Dio, ma non è parallela a Dio, non è separata dalla sua origine; per questo il sogno è l’esempio che possiamo prendere seriamente in considerazione. E la veglia è come il sogno, che non è una creazione nata dalla mia volontà, non sono io che lo voglio. La libertà dalla sofferenza (duḥkham) è un mio bisogno, ma vedere un sogno non è un mio bisogno, non nasce da un mio bisogno, non nasce dalla mia volontà, non nasce da niente, nasce solo dal mio senso di limitazione. Come individuo percepisco, è anche nella veglia mi trovo a percepire l’universo a causa del senso di limitazione. Si tratta di un senso di limitazione scorretto, ma finché il senso di limitazione rimane senza essere corretto, continua ad esserci. Alcuni pensano che la veglia sia la volontà di Dio di creare, il bisogno e il desiderio di Dio di creare, ma in realtà è solo una percezione errata: è māyā.

Māyā non è semplice magia, māyā significa falsa percezione. La veglia è come il sogno, è come māyā. Ciò che chiamiamo sṛṣṭi non è altro che percezione. È tutto qui. Nel vyavahāra lo chiamiamo ‘creazione’ ma in realtà è percezione. Il sogno può essere chiamato creazione, ma in realtà è percezione. Al risveglio lo possiamo chiamare creazione, ma in realtà è percezione. La creazione non è la volontà di Dio, la creazione si riferisce alla presenza di Dio, non alla volontà di Dio. Non è il desiderio di Dio, non è la volontà di Dio, la “creazione” sta a indicare la presenza di Dio. Il serpente indica la presenza della sua origine, la corda. Il pensiero indica la presenza della sua origine. La ragione di tutta la percezione errata è la presenza non compresa, la non comprensione dell’origine ne è la ragione.

Alcuni cavillando sostengono che “è la volontà di Dio, il bisogno di Dio, il desiderio di Dio ecc.”. Noi Vedāntin diciamo di no, è una percezione in Dio, la propria individualità è una percezione in Dio, come l’individualità del sogno è una percezione in se stessi, allo stesso modo anche l’incarnazione nella veglia è una percezione in se stessi; tu non stai percependo l’incorporazione lì, stai percependo l’incorporazione nel tuo Essere. “Sono l’incorporato” significa che stai vedendo l’incorporazione in te stesso, stai vedendo la limitazione in te: sei limitato, sei un saṃsārin. Anche il sogno è percepito in te, gli oggetti del sogno sembrano fuori di te ma sono percepiti in te, i pensieri appaiono in te, sebbene sembrano apparire davanti a te. Trattieni il pensiero in te stesso, ma esso appare davanti a te e allora la sorgente del pensiero si erge a soggetto del pensiero. La materia stessa di cui è fatto il pensiero, diventa la mente che si erge a osservatore del pensiero-oggetto; essa viene descritta come colei che vuole il pensiero, colei che pensa il pensiero, colei che osserva il pensiero, colei che è testimone del pensiero e colei che permane anche in assenza del pensiero. Tutte queste descrizioni vengono fatte ma la cosa cruciale è che tu pensi in te stesso anche se ciò che pensi sembra fuori di te.

Sogni in te stesso e ciò che sogni sembra fuori di te; non è possibile vedere nulla al di fuori di Sé perché non è possibile che ci sia un fuori del Sé, non si può pensare a un fuori del Sé, non c’è un fuori del Sé. Come non c’è un fuori dello spazio, allo stesso modo non c’è un fuori della Coscienza; ecco perché nello stato di sonno profondo si è liberi dall’idea di fuori e di dentro. Lì si è solo l’Essere, è presenza non-duale e non si può pensare a un fuori del proprio Essere. Per questa ragione lo stato di veglia è come il sogno; il sogno è l’esempio migliore per capire la veglia: ti trovi con il sogno in te stesso, ma ciò che sogni in te stesso sembra fuori e quindi ciò che sembra fuori di te è visto in te stesso. In te significa nel Sé illimitato: non è visto nell’essere limitato, è visto nell’Essere illimitato.

Quindi la creazione non è una necessità di Dio, una volontà di Dio o un desiderio di Dio, non è un pensiero di Dio. È una tua percezione; anche l’idea che “è una mia percezione” è una percezione, la percezione non appartiene a nessuno, perché perfino gli stessi individui sono un risultato della percezione. Anche nel sogno l’idea di te e degli altri è sognata, quindi è una percezione di ciò che stai percependo. Stai percependo la tua natura illimitata in forma limitata e, nell’ottica di essere una forma, percepisci l’intero universo come un aspetto della tua forma. C’è quindi una differenza tra il modo universale di pensare alla Realtà e il modo vedāntico di pensare alla Realtà. L’umanità pensa che ci siano Dio e la sua volontà. Per il fatto che tutto ciò che fai può essere attribuito alla tua volontà, allora inizi a immaginare che se Dio ha fatto qualcosa deve essere per forza per sua volontà. L’uomo non arriva a pensare che l’universo è solo una percezione distorta di Sé; per sua natura non può pensare in quella direzione. Solo il Vedānta piò iniziarlo a pensare in quella direzione. Il Vedānta dice che lo stato di veglia è come un sogno, e fa sì che l’uomo rifletta per conoscere che la vita è solo una percezione della Realtà.

Coloro che hanno concluso che il mondo è tutta una creazione di Dio, che nasce dalla volontà di Dio, dal desiderio di Dio, dicono sempre “icchā mātram”: ha semplicemente desiderato che ci sia un universo, che ci sia un sole e l’universo e il sole furono. È bastato che Dio abbia fatto un cenno e tutto fu lì. Questa è una immaginazione infantile da parte dell’uomo: Dio ha fatto un cenno e c’è stato il sole, un altro cenno e c’è stata la luna; Dio ha desiderato e c’è stato l’universo. Non è solo falso: è del tutto illogico. Perché l’illimitato dovrebbe avere desideri? Solo ciò che ha un corpo può avere un desiderio; il jīva può volere in quanto ha un senso di limitazione. Dietro qualsiasi pensiero c’è il senso di limitazione; senza il senso di limitazione non si può pensare, non si può volere, non si può desiderare, non si può agire. E se Bhagavān è illimitato, non può avere alcun senso di limitazione, essendo per natura libero dal senso di limitazione.

C’è chi pensa che l’universo si sia evoluto nel tempo, che la materia si sia evoluta nei cinque elementi, che sono una parte dell’evoluzione. C’è chi pensa che le cose nascano nel tempo, ma anche questo è un errore perché il tempo è solo una parte della creazione. La creazione non può evolversi nel tempo perché il tempo è una parte della creazione: il tempo non è una cosa fissa, il tempo non è qualcosa che è eternamente lì; il tempo non è il contenitore di tutto quanto appare e scompare: quando appare la veglia appare il tempo di veglia, quando scompare lo stato di veglia scompare anche il tempo di veglia. Il tempo fa dunque parte della creazione; lo stato non è nel tempo ma il tempo è dentro lo stato. Questa è una correzione molto importante: il tempo di veglia è nello stato di veglia, ma lo stato di veglia non è nel tempo di veglia. Il tempo è uno dei dettagli del mondo di relazione; può essere un dettaglio pervasivo, ma è comunque un dettaglio nello stato di veglia. Lo stato di veglia appare nella Realtà senza tempo, nell’eterno, e così anche il tempo appare nell’eterno senza tempo. La creazione appare nell’eterno, seppure ci sia chi pensa che la creazione sia un’evoluzione nel tempo.

Tendi a credere che anche l’individuo si evolva, ma un individuo non si evolve perché l’evidenza insegna che quando sei libero dal pensiero, il pensiero appare nell’Essere che è libero dal pensiero. Prima che il pensiero appaia c’è libertà dal pensiero; ciò significa che all’interno della libertà dal pensiero appare il pensiero; quindi, non puoi dire che il pensiero si evolve per essere libertà dal pensiero, questo è un grave errore. Jīvatvam non è il risultato dell’evoluzione, l’individualità non manifesta diventa manifesta, quindi l’immanifesto diventa manifesto. Questo è il significato del vākya vedāntico che annulla l’idea del divenire dell’individualità in evoluzione. L’albero potenzialmente presente nel seme appare, l’albero immanifesto appare, l’albero immanifesto si manifesta. Ciò che c’è nell’immanifesto diventa manifesto, ciò che non c’è nell’immanifesto non diventa manifesto, quindi la si può chiamare creazione nell’eterno, percezione nell’eterno, apparizione nell’eterno; ma non è in alcun modo il risultato di un processo chiamato evoluzione.

Altri pensano che Dio abbia creato questo mondo per il proprio godimento (bhoga artham), per il proprio piacere. Questa è una teoria per persone sentimentali che improvvisano le più svariate teorie; i pensatori seri e le persone logiche sono molto pochi. La pace perfetta non ha alcun desiderio del piacere: la serenità è, la pace è. Perciò le persone sottomesse alle emozioni elaborano spiegazioni avendo ognuno una teoria e le loro conclusioni diventano il loro pane quotidiano. Le loro conclusioni diventano dogmatiche; essi iniziano a diffondere quella loro conclusione e subito appaiono i credenti di quella teoria. Questo mondo è pieno di idioti sentimentali!

Ha senso che Dio abbia creato il mondo per il suo divertimento? Come si può arrivare a questa conclusione? Egli è illimitato, è pace; perché mai dovrebbe volere un qualsiasi piacere? Alcuni pensano che Dio abbia creato il mondo per sua fruizione (bhoga) e altri pensano che sia il suo gioco (krīḍalīlā); ma perché dovrebbe giocare con la vita delle persone? Una creazione così seria sarebbe per il divertimento di Dio? Dio si sta divertendo del fatto che l’uomo sia sottoposto alla sofferenza? Questa è davvero una conclusione stupida!

Il Vedānta dice che la tua vita non è dovuta alla volontà di qualcuno, né è di divertimento per qualcuno, né è di fruizione per qualcuno. La tua vita è la tua percezione errata e male interpretata di te stesso, il ‘Te’ illimitato è visto come limitato. La natura del Tutto che non può avere una volontà, il Tutto non può avere un desiderio di divertimento, come può avere desiderio di qualcos’altro dal Tutto? Perciò “Dio ha voluto ed è stata la creazione”, deve essere inteso che c’era solo la sua presenza. Dio è presenza, non ha desiderio, volontà: il Tutto non può avere un desiderio né una volontà, né altro. Quindi la creazione non è la volontà di Dio o il pensiero di Dio. Ti percepisci come incorporato, il ‘Tu’ libero da qualsiasi corpo lo visualizzi come incorporato.

Tu sei libero dagli oggetti del sogno, il ‘Te’ senza sogni è visualizzato come sognatore, ma essere un sognatore non è una tua qualità. “Svāmījī, forse ‘sognatore’ non è l’aggettivo giusto, ma è ‘potenziale’”. Anche l’idea che sia potenziale è un errore; come si dice che la corda ha la potenzialità di essere vista come serpente, un fatto anche avrebbe la potenzialità di essere frainteso. Ma sei tu che lo chiami potenziale: non è affatto una potenzialità del fatto, solo un tuo errore. Quando si riconosce che il serpente è in verità una corda, allora si dice che “la corda ha il potenziale di essere fraintesa”. Anche questa affermazione fa parte dell’errore. Ciò che chiamiamo potenziale è solo una parte dell’errore, non solo il serpente è un errore, anche il serpente potenziale è un errore. Non solo il sogno è sognato, anche la potenzialità del sogno è sognata, l’onda manifesta è una nozione e anche l’onda non manifesta è una nozione.

Quindi, né il mondo è per il piacere di Dio, né è per volontà di Dio, né per bisogno di Dio; non coinvolgere Dio nella creazione, Dio è una presenza dietro la creazione, la quale è un’apparenza della Sua presenza. La Realtà è presenza. Il silenzio è una presenza dietro il rumore, il silenzio è una presenza dentro e attraverso il rumore. Ci vuole molto tempo per passare da “dietro” a “dentro e attraverso”. Ci vorrà molto tempo prima di capire che il silenzio non sta solo dietro il rumore, ma è dentro e attraverso il rumore. L’acqua non sta solo dietro l’onda, ma è dentro e attraverso l’onda. “Il legno sta dietro al tavolo” è solo un’espressione figurativa, mentre in senso letterale è dentro e attraverso; lo spazio non sta solo dietro l’aria, l’acqua e la terra, lo spazio sta dentro e attraverso l’aria, l’acqua e la terra; la materia sta sempre dentro e attraverso la materia. Così, proprio come il silenzio sta dentro e attraverso il rumore, la presenza di Bhagavān sta anche dentro e attraverso la creazione. Pertanto, ciò che sta dietro l’universo, la presenza di Dio – non la volontà di Dio, non il piacere di Dio, non il bisogno di Dio – è la presenza della Realtà. Dietro la tua percezione dell’universo c’è la tua presenza silenziosa. Non è la tua propria volontà, non è il tuo proprio bisogno, non è il tuo proprio desiderio: dietro l’universo c’è la tua propria presenza silenziosa. Dietro lo stato di veglia c’è la presenza silenziosa del Sé.

Perciò Dio è solo presenza silenziosa e nient’altro: non è qualcuno che vuole né è qualcuno che desidera.