Svāmī Prabhuddhānanda Sarasvatī Mahārāja
13. Commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda
Agama Prakaraṇa
Kārikā I.3
In apertura, l’autore dell’Avadhūta Gītā si è chiesto: “Come posso salutare il Non-duale?”. Noi diciamo che se si può parlare così a lungo del Non-duale, lo si può anche salutare assumendo la adhyāropa dṛṣṭi. Ogni interazione con la Realtà, le preghiere, le meditazioni, le devozioni e i loro sviluppi rituali, è tutto nell’ottica della adhyāropa dṛṣṭi, anche se la sua natura è svarūpa. Come si può essere allo stesso tempo genitori, figli, e coniugi, dal punto di vista dell’adhyāropa si può svolgere qualsiasi ruolo. Da quel punto di vista ogni interazione è possibile; dal punto di vista dell’adhyāropa si può anche pensare alla Realtà come origine, ecc. Tuttavia, la sua vera natura (svarūpa) è del tutto libera dall’intera adhyāropa dṛṣṭi, la sua reale Natura è libera e indipendente dal “punto di vista”.
Se la Natura reale è libera dal punto di vista, allora è libera anche dalla descrizione del punto di vista. Se dico che “è in relazione con la creazione in quanto origine”, si tratta di adhyāropa dṛṣṭi. Invece il svarūpa, libero dalla relazione origine-creazione, è nirviśeṣam. Quando si parla di nirviśeṣam, di svarūpa, l’unico metodo valido per descriverlo è “neti neti”. “Neti neti” è l’unica formula per trasmettere la verità di com’è. “Neti neti” è come dire: “libero da, libero da”. “Neti” si applica sia ad avidyā sia allo śāstra: se è libero da avidyā e libero dallo śāstra, è anche libero da adhyāropa dṛṣṭi. “La Realtà stessa ha l’errore su di sé”: anche questa affermazione è adhyāropa dṛṣṭi. Qualsiasi affermazione che descriva la Realtà proviene da adhyāropa dṛṣṭi; ma quando si dice “neti neti”, si tratta d’una affermazione correttiva, volta a correggere l’errore.
Si può dire che la Realtà ha ignoranza ed errore solo se considerate dall’adhyāropa dṛṣṭi, mentre dalla svarūpa dṛṣṭi è libera dall’ignoranza e dall’errore. Secondo gli Śāstra, dal punto di vista dell’adhyāropa si può dire qualsiasi cosa sulla Realtà. Nei confronti della Realtà, l’intero dharma è una preghiera alla Realtà, una meditazione sulla Realtà, è una definizione della Realtà, ma sempre dal punto di vista dell’adhyāropa. Dal punto di vista dell’adhyāropa, la Realtà può benedirti, il dharma può benedirti, le tue preghiere possono benedirti. Dal punto di vista dell’adhyāropa, il tempio è utile, le preghiere sono utili, qualsiasi interazione è utile. Invece dal punto di vista della propria reale Natura (svarūpa dṛṣṭi), la Realtà è libera da tutte le interazioni, libera dalle interazioni della tua individualità. Non puoi chiederti “come posso salutare la Realtà?”; puoi certamente salutare la Realtà dal punto di vista dell’adhyāropa, mentre dalla svarūpa dṛṣṭi non esiste nessuno che possa salutarla. La relazione salutante-salutato non esiste; chi saluta c’è soltanto nella relazione tra chi saluta e chi è salutato. La tua esistenza non può essere negata: il tuo senso di individualità non può essere mantenuto se la tua esistenza non può essere negata: il tuo senso di individualità, il tuo senso di incorporazione non può mantenersi. Si concluderà con la dissoluzione (laya); ossia quando lascerai il corpo esso sparirà, la tua intera individualità sparirà essendo legata a questa forma. In quanto individuo, il tuo punto d’appoggio (āśraya) è solo questa forma. Dall’interno dell’incorporazione puoi pensare alla tua forma; all’interno dell’incorporazione hai famiglia, figli, relazioni, ma fuori dell’incorporazione sei nirviśeṣam. Perciò puoi sempre salutare la Realtà dalla adhyāropa dṛṣṭi, puoi parlare della Realtà dalla adhyāropa dṛṣṭi, puoi anche meditarla dalla adhyāropa dṛṣṭi.
Nel nirviśeṣam non puoi nemmeno dire “come posso salutare?”, perché la relazione tra chi saluta e chi è salutato, in realtà non c’è. Tutte le relazioni finiscono nella la natura della Realtà, sebbene ogni relazione si appoggi sulla Realtà. La sabbia del deserto è libera dal miraggio, ma il miraggio si appoggia sulla sabbia; la corda è libera dall’essere serpente, ma il serpente è appoggiato sulla corda. Oltre a “cos’è questo universo” e a “cos’è questo io”, non c’è altro da spiegare: fare una terza domanda sull’evidente, è impossibile, non si può porre una terza domanda. Sono possibili solo queste due domande: “cos’è ciò che vedo?”, e “chi è che vede?”. Il Vedānta parla solo del vedente (dṛk) come origine e del veduto (dṛṣyam) come apparenza. Tuttavia, anche questa affermazione è dal punto di vista del dṛṣyam, cioè dell’adhyāropa dṛṣṭi. Dunque, chiunque può salutare il non-duale.
Se gli Śāstra parlano di meditare su Parameśvara, allora perché non sul jīva? Quindi, la tua conoscenza non ostacola le tue preghiere, perché anche seguendo la via del jñāni hai problemi da risolvere, problemi quotidiani risolvibili con il karma. Agisci in preghiera, mentre l’ignoranza sul Sé ti viene rimossa dalla conoscenza. I problemi quotidiani si possono risolvere con l’azione orante, il dovere orante, lo sforzo orante. Diverso approccio è quello di vivere “soddisfatti di ottenere ciò che viene spontaneamente” (yadṛcchalābhasantuṣṭa). Kṛṣṇa raccomanda di accontentarsi di qualsiasi cosa provenga dal proprio prārabdha, senza opporsi. Qualsiasi cosa ti arrivi, sopravvivi con quello e, se riesci a sopravvivere con ciò, va benissimo. In realtà yadṛcchalābhasantuṣṭa è universale perché alcuni si abbandonano al prārabdha, altri gli si oppongono, ma comunque ciò che arriva è secondo il prārabdha. Quindi, finché c’è incorporazione, la preghiera è valida.
Una persona che ha la sensazione che gli oggetti siano esterni è chiamata bahiṣprājña [cosciente dell’esterno]; Īśvara, quando appare come vegliante, è chiamato Bahiṣprājña. La stessa Realtà di chi sogna è chiamata Antaḥprājña [Cosciente dell’interno]. La stessa Realtà presente nel non-manifesto è chiamata Ghanaprājñaḥ [Cosciente dell’indifferenziato], presente come punto risolutivo. È meglio tradurre Ghanaprājñaḥ come quel punto di soluzione in cui tutti i pensieri non possono essere differenziati, diventando tutti non manifesti (avyākṛtam). Tra lo stato non-manifesto di un pensiero e lo stato non-manifesto di un altro pensiero che differenza c’è? Non c’è alcuna differenza e questo si chiama Ghanaprājñaḥ; sono tutti non-manifesti all’interno della Coscienza e colui che è presente nella creazione non-manifesta come punto di risoluzione è chiamato Prājñaḥ. È l’unica Realtà che appare come vegliante, sognatore e come loro punto di soluzione. Come vegliante hai un senso di individualità assieme a un senso di incorporazione: la Realtà con un senso di incorporazione. Anche come sognatore, la Realtà ha un senso di incarnazione. Invece, nello stato di sonno profondo la Realtà non ha alcun senso di incorporazione. La Realtà sta come nirviśeṣam in quanto esperienza, ma dal punto di vista dell’incorporazione la si chiama Ghanaprājñaḥ, la si chiama Prājñaḥ o punto risolutivo. Suṣupti è chiamata così, ma non è sperimentata come punto risolutivo, è sperimentata come nirviśeṣam. Anche la descrizione della Realtà come punto risolutivo è adhyāropa dṛṣṭi; nello stato di veglia descrivi la Realtà come ‘Colui che veglia’, nel sogno, ‘Colui che sogna’. Colui che dorme, è il punto risolutivo, ed è identificato con il non-manifesto dal punto di vista adhyāropa.
Svarūpa dṛṣṭi e anubhava dṛṣṭi sono la stessa cosa. Che cos’è l’anubhava in suṣupti? È ciò che non è sperimentato come un oggetto e che non è nemmeno sperimentato come stato non-manifesto; è descritto come non-manifesto quando si è in veglia, ma non è sperimentato come non-manifesto. Per poter sperimentare la non manifestazione del mondo devi avere un ricordo del suo stato manifesto. Questi sono i punti più sottili del Vedānta: cioè distinguere quali siano i ‘punti di vista’ e qual è la reale Natura. A volte, anche un punto di vista viene preso come fosse la reale Natura; e su questo si litiga. Io dico che è un punto di vista, tu dici che è Brahmā, altri adorano Brahmā, altri ancora adorano Śiva: ma che quelle divinità siano l’origine è solo adhyāropa dṛṣṭi. Che l’origine sia il sostrato è anche adhyāropa dṛṣṭi e che sia il punto di soluzione è anche adhyāropa dṛṣṭi: la Realtà può essere descritta in tanti modi nell’adhyāropa dṛṣṭi, ma quella descrizione deve essere corretta: è soltanto adhyāropa dṛṣṭi. Come in relazione ai tuoi figli sei un padre e in relazione a tua moglie sei un marito, allo stesso modo qualsiasi descrizione attribuisci alla Realtà è dalla nāma-rūpa dṛṣṭi. Nāma-rūpa dṛṣṭi significa sempre adhyāropa dṛṣṭi: dal punto di vista della veglia è il vegliante, Bahiṣprājña, dal punto di vista del sogno è Antaḥprājña e dal punto di vista dell’immanifesto è Ghanaprājñaḥ. Prājña, dal punto di vista della svarūpa dṛṣṭi, è nirviśeṣam. Quindi comprende i tre stati in questo modo: il me stesso illimitato guarda il vegliante, guarda il sognatore, guarda anche il punto risolutivo. Ma come fa l’individuo a essere il punto risolutivo dell’individualità? Non può, perciò nel sonno profondo non c’è individuo. Come puoi tu, che sei limitato, essere il punto risolutivo della tua limitazione? Il limitato non può essere il punto risolutivo della limitazione, quindi come vegliante sei un jīva, come sognatore sei un jīva, come dormiente hai esistenza reale (Sat sampatti), sei il punto risolutivo della tua individualità e non sei il punto risolutivo di qualcos’altro. Sei il punto risolutivo del tuo errore circa te stesso. E l’universo? Anch’esso è legato a te in quanto individuo, la soluzione di te stesso come individuo significa anche la soluzione dell’universo.
Quindi cos’è suṣupti? Sei tu come punto di risoluzione dell’errore su te stesso e ciò che si sta svegliando è l’illimitato, simultaneamente a un senso di incorporazione. È te stesso con un senso di incorporazione. Anche qui in veglia sei l’illimitato con un senso di incorporazione, nel sogno sei tu con un senso di incorporazione e lo stato di sonno profondo sei tu con un punto risolutivo della tua individualità. Non fissarti su suṣupti come punto risolutivo di qualcos’altro: lo stato di sonno profondo è la tua esistenza come punto risolutivo della tua incorporazione, del tuo pensiero di avere un corpo. Tu stesso sei la causa della tua individualità, sei il supporto della tua individualità, sei il punto risolutivo della tua individualità. Quel ‘Tu’ è illimitato, è l’illimitato che ha il senso della limitazione nella veglia, che ha il senso della limitazione nel sogno, che come sonno si pone come punto risolutivo della limitazione; quindi diventi l’origine della tua incorporazione, diventi il supporto della tua incorporazione, diventi il punto risolutivo della tua incorporazione. Tuttavia, quando si pensa alla relazione origine-creazione pensi che l’origine sia qualcosa di diverso da te, che anche la creazione sia qualcosa di diverso da te. Sto sospeso, non sei da nessuna parte: pensi alla causa come a qualcosa di diverso da te, alla creazione come qualcosa di diverso da te in cui ti ritrovi. Perciò è importante per te capire che suṣupti è l’origine, che sei tu la causa della tua incorporazione, che sei tu l’origine del tuo corpo, dei tuoi sensi, del tuo intelletto, della tua intera vita, dell’intero te nel contesto dell’universo. Il ‘Tu’ illimitato è l’origine del tu incorporato e, all’interno di questa incorporazione, c’è la percezione dell’universo. L’incorporazione e il tuo ‘io’ non sono paralleli; ma, l’incorporazione del sogno e la percezione del sogno non sono paralleli. La percezione del sogno è all’interno dell’incorporazione del sogno, la percezione della veglia è all’interno dell’incorporazione della veglia. Una volta che ti riferisci all’incarnazione della veglia ti sei riferito all’intera creazione; quindi quando dici “io sono l’origine dell’incorporazione” significa che sei l’origine dell’intero universo, della creazione. Così l’errore è sentito come te, l’origine è insegnata come te, il nirviśeṣam è te e non puoi mai uscire dal “tuo te”. Per questa ragione “Tu” (Tvam) è il termine più adatto per trasmettere la verità e quel “Tu” è qualcosa che non si può interpretare diversamente da esso. La parola “Tu” non ti permette di uscire da te stesso, ma riporta la tua attenzione a te stesso. “Tu” è un termine bellissimo: “Tu” è il termine più adatto”, “Tu” ti riporta a te stesso.
Deho’ham, “io sono il corpo” è l’errore sulla Realtà. Aham è la fonte dell’errore, ma è anche libero dall’errore, è nirviśeṣam. La stessa Realtà è incorporata, è la fonte dell’incorporazione ed è libera dall’incorporazione. La stessa acqua guarda se stessa come l’onda e viene insegnata come l’origine dell’onda ed è anche libera dall’onda, è nirviśeṣam. Quando ci si sveglia non si è l’origine di qualcos’altro, ma si è l’origine della propria incorporazione. La Realtà non diventa realmente l’origine di qualcos’altro, ma diventa l’origine dell’incorporazione in se stessa, una creazione in se stessa e si sostiene da sola. Perciò tra l’errore e il Fatto non c’è estraneità, c’è affinità: esattamente come nella verità di “questa è una corda” e nell’errore di “questo è un serpente”, “questo” è l’affinità. Allo stesso modo, “tu sei un individuo” e “tu sei l’origine di un’individualità”, “tu” sei il punto di risoluzione dell’individualità. Quindi l’affinità è tra te e te, l’affinità è “Tu”, quindi la tua esistenza comune è l’affinità tra lo stato di veglia e quello di sonno profondo. Non puoi dire “l’affinità tra lo stato di veglia e lo stato di sonno profondo è che sono oggetti della mia esperienza”: non dire così, c’è affinità tra lo stato di veglia e lo stato di sonno profondo perché l’incorporazione è te, la libertà dall’incarnazione è anch’essa te. Porta l’attenzione su te, sull’esistenza piuttosto che su qualcosa di fronte a te. In realtà oggetto e oggetto non hanno affinità, sei tu e te ad avere affinità. Tra tu che ti svegli e tu che sogni c’è affinità, c’è unità; tra tu che ti svegli, tu che sogni e tu che dormi c’è affinità. “Svāmījī, e i miei figli?”. No, non c’è affinità, non deve esserci affinità con tutto ciò per cui hai affetto: tra i tuoi figli come forma e la tua forma non c’è affinità. Tra te come vegliante, tra te come sognatore, tra te come dormiente, sì che c’è affinità! Un’affinità inestricabile.
Ākāśa dovrebbe essere considerato come la creazione non manifesta, l’incorporazione non manifesta. L’incorporazione non è nella creazione, ma la creazione è nell’incorporazione. L’errore di avere un corpo (deha adhyāsa) è il presupposto per la creazione. Ciò che è fantastico è che l’intero universo si trova all’interno del senso di incorporazione, la tua vita è all’interno dell’incorporazione. In apparenza, la nostra incorporazione sembra essere all’interno del mondo. Invece no: i cinque elementi sono all’interno del senso dell’incorporazione e quando l’incorporazione diventa non manifesta la creazione diventa anch’essa non manifesta nella Realtà. Questa Realtà è lì come reale sostrato del non-manifesto. Ci si riferisce al non-manifesto solo nell’ottica del manifesto e questo è chiamato adhyāropa dṛṣṭi. Il mondo manifesto è la base per definire il non-manifesto e, perciò, si tratta di adhyāropa dṛṣṭi. Non si può parlare di suṣupti in suṣupti, si può parlare di suṣupti solo in jāgrat; quindi, qualsiasi cosa si dica di suṣupti è da adhyāropa dṛṣṭi. Invece svarūpam è sempre una questione di anubhava.
Si dice dakṣinā akṣi viśve mukhaḥ [l’occhio destro è l’apertura sull’universo, MUŚBh 3], quando si usano i sensi e si percepisce il mondo. La propria presenza è nell’occhio destro, che si suppone sia il più forte dei due occhi. Tra i jñānendriya, gli occhi sono gli organi più forti e i jñānendriya sono più forti dei karmendriya e sono le facoltà più essenziali nel dominio dell’incorporazione. I cinque sensi rappresentano l’intera incorporazione, gli occhi rappresentano tutti i cinque sensi e l’occhio destro rappresenta entrambi gli occhi. Ciò significa che l’occhio destro rappresenta l’intera incorporazione. Nell’occhio destro l’illimitato è chiamato viśva, non c’è altro che l’illimitato. Quando nello stato di veglia chiudi gli occhi e ricordi ciò che hai visto, ciò che ricordi lo vedi come un oggetto. Lo percepisci con un senso di esteriorità e anche lo ricordi con un senso di esteriorità; lo percepisci come qualcosa di reale e anche lo ricordi come qualcosa di reale; lo percepisci con un senso di solidità e anche lo ricordi con un senso di solidità. L’intero sogno può essere paragonato al ricordo ad occhi chiusi. Qualunque sia la sensazione che si ha di un oggetto nella veglia, quella stessa sensazione si ha in sogno. Quindi, non c’è differenza tra percezione e memoria, ovvero non c’è differenza tra la percezione della veglia e la percezione del sogno. Tutto questo lo si percepisce all’interno della mente, e questo è adhyāropa dṛṣṭi. Tuttavia, in verità, lo si percepisce all’interno della Realtà. Se oggettivi gli oggetti nella tua memoria, la stessa Realtà è chiamata Taijasa e, in quanto pervasivo dell’intero sogno, sei Hiraṇyagarbha. Voglio dire che se guardi te stesso come pervadente la tua incorporazione ciò che vedi come oggetto, allora sei Hiraṇyagarbha. Anche qui, nella veglia, se guardi te in quanto pervadi il corpo e lo spazio intero, allora sei chiamato Virāṭ, Vaiśvānara, vale a dire quell’illimitato nirviśeṣam. Alla fine, ciò di cui si tratta è nirviśeṣam; il nirviśeṣam che viene insegnato come jagat kāraṇam. Che viene insegnato come fosse jagat kāraṇam ma che in realtà è nirviśeṣam. Quando ti siedi con gli occhi chiusi e non percepisci, non ricordi, stai tranquillo, come essere tranquillo sei la realtà di fondo della percezione e della memoria non manifesta. Il pensiero della percezione e il pensiero della memoria sono entrambi non manifesti e tu sei silenzioso, essendo l’essere silenzioso sottostante sia alla percezione sia alla memoria. Come realtà di fondo della percezione e della memoria non manifesta o della veglia e del sogno non manifesti, tu sei Prājña. La descrizione della propria identità di veglia, di sogno e di sonno si riferisce solo all’interno dell’incorporazione. All’interno dell’incorporazione ti vedi come un vegliante, all’interno dell’incorporazione ti vedi come un sognatore, all’interno dell’incorporazione ti vedi come un dormiente. Ma, senza incorporazione non sei nessuno dei tre, perché all’interno del senso dell’incorporazione sei un individuo che veglia, sei un individuo che sogna; invece dire: che sei “un individuo che dorme” è sbagliato perché come dormiente non sei un individuo. Perciò, man mano che ci si addentra nella natura della Realtà, l’intero vyavahāra e tutto il suo linguaggio scompaiono, come tutte le descrizioni di se stessi scompaiono nel sonno profondo. Allo stesso modo, all’interno dell’incorporazione, ti descrivi come vegliante, sognatore, dormiente, ma all’interno del sonno non si può usare quello stesso linguaggio: quando sei libero dall’incorporazione non sei né vegliante, né sognatore, né dormiente. Sei solo una presenza silenziosa. Quindi i tre stati si riferiscono solo all’interno dell’incorporazione, e fuori dell’incorporazione non ci sono I tre stati. Pertanto, qual è la natura della Realtà? Essa è libera dai tre stati, è libera dall’incorporazione, è libera da jagat. Se è libera dall’incorporazione è anche libera da jagat. Perciò suṣupti non è sperimentata nell’incorporazione: è enumerata come uno dei tre stati nell’incorporazione, ma non è sperimentata nell’incorporazione; suṣupti trascende l’incorporazione.
I.3. Viśvo hi sthūlabhuṃnityam taijasaḥ praviviktabhuk ǁ
Ānandaśca tathā prājñam tridhā tṛpti nibodhata ‖
Viśva fruisce sempre del grossolano; Taijasa fruisce del sottile. Similmente, Prājña fruisce della beatitudine. Apprendi che la fruizione è di tre tipi.
Passiamo alla terza Kārikā. Come i tre stati sono all’interno dell’incorporazione, anche i tre tipi di piacere si riferiscono all’interno dell’incarnazione. I tre tipi di piacere sono: il piacere della veglia, il piacere del sogno e il piacere del sonno. Invero, il sonno è libero da piacere e da dolore, essendo Ānanda svarūpam, anche se ma l’uomo dice che è assenza di sofferenza (duḥkham). L’uomo chiama il sonno assenza di duḥkham, mente, invece, è presenza di pace (śānti). Sthūla bhuk, significa che gode degli oggetti grossolani, cioè della veglia. Come oggetto di percezione è sthūla, come oggetto di memoria è chiamato sūkṣma, sottile. Quando vedo l’oggetto nella veglia lo chiamo sthūla, e quando lo vedo in sogno lo chiamo sūkṣma perché lo vedo indipendentemente dagli occhi della veglia. In realtà non fa differenza se si oggettiva un oggetto in veglia o se lo si oggettiva in sogno o, perfino, se lo si oggettiva dopo la morte in cielo: per chi lo osserva appare sempre e solo come sthūla. Il fatto è che ti vengono offerte così tante cose che, se ne devi parlare, devi metterle a confronto. Se ti fosse servito solo il tè, allora non fai confronti, ma se vi viene offerto di scegliere tra tè, caffè o bevande fredde, allora fai confronti. Se si oggettiva una cosa nella veglia, nel sogno o nei cieli, il fenomeno stesso dell’oggettivazione non può essere paragonato, perché la veglia è oggettivata, il sogno è oggettivato, il cielo è oggettivato; tra un’oggettivazione e un’altra oggettivazione non c’è differenza, è sempre oggettivata. In quanto oggetti, sono tutti grossolani, ma quando dobbiamo considerarli tutti, devi metterli in comparazione: “Ok, la veglia è più grossolana, gli oggetti del sogno sono più sottili, gli oggetti celesti sono ancora più sottili”. Fai così un confronto perché gli occhi della veglia non sono utili per oggettivare il sogno; altrimenti non c’è modo di fare un confronto; i buoni maestri dicono sempre che non c’è differenza tra la veglia e il sogno. Infatti, entrambi sono percezioni, entrambi sembrano reali, entrambi sono uguali. Tuttavia, si può dire che quando ti svegli la stessa veglia continua, mentre il sogno non continua. Il sogno si chiama il sogno solo nella veglia ma quando sei all’interno del sogno lo chiami veglia e lì lo vedi come fosse continuo: all’interno del sogno si torna a casa perché la casa c’è. Nella veglia c’è senso di continuità, non è che la veglia abbia davvero continuità. Dentro la veglia c’è solo un senso di continuità: non è che realmente la veglia abbia continuità e che il sogno non ce l’abbia. Questo paragone è difettoso perché nella veglia c’è il senso di continuità della veglia, ma anche nel sogno c’è il senso di continuità del sogno. Non c’è nessuna differenza: il sogno è oggettivazione, la veglia è oggettivazione e lo stato di sonno profondo non è oggettivato. La veglia è oggettivata per certo numero di anni, il sogno è oggettivato per un certo numero di anni e nel sonno profondo non c’è durata e, perciò non c’è oggettivazione, come prima della nascita. La nostra vera dimora non è un dominio di oggettivazione, la nostra vera dimora è libertà dall’oggettivazione. Nirviśeṣam è il nostro svarūpam, l’oggettivazione non è svarūpam.
L’uomo in veglia fruisce degli oggetti della veglia, come sognatore fruisce degli oggetti più sottili, come dormiente pensa di sperimentare l’Ānanda. In base all’adhyāropa dṛṣṭi hai goduto del sonno profondo, ma tu non hai goduto, non sei stato un bhoktā, in realtà sei stato solo Ānanda, sei rimasto in silenzio. Bhuk significa relazione fruitore-fruizione-fruito, c’è nella veglia che è un errore; nel sogno, che è anche un errore, c’è relazione fruitore-fruizione-fruito. Nel sonno profondo non c’è alcuna relazione; eppure nello stato di veglia dici “ho goduto nel sonno profondo” perché porti nello stato di sonno profondo la tua relazione fruitore-fruizione-fruito; questa idea, quindi, è errata. La fruizione da svegli è un atto di godimento ed è un errore. La fruizione in sogno è un atto di godimento ed è un errore. Invece il sonno profondo non è un atto di godimento; in base all’anubhava non hai sperimentato alcun atto di godimento. Suṣupti è solo uno stato di Essere non di karma, è uno stato di Essere non uno stato di percezione, non uno stato di fruizione. Soltanto dal punto di vista della veglia dici “mi è piaciuto”, e attribuisci l’atto della fruizione anche nel sonno, quindi pensi che c’è una triplice fruizione.