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12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà

Questo capitolo è espressamente dedicato a coloro che sono già discepoli di Advaita Vedānta o che, perlomeno, siano dei mumukṣu1 già iniziati che si trovino in una situazione spirituale di ricerca di un maestro qualificato e realizzato. Queste note, tuttavia, possono anche essere di un certo interesse per coloro che desiderino avere una informazione più completa sulla via della conoscenza.
Colui che intraprende il jñāna mārga non deve coltivare opinioni erronee a proposito del fine di questo metodo diretto (sākṣāt sādhanā) poiché gli sarebbero di totale impedimento per la realizzazione finale. Tra queste le più frequenti sono:

1. Credere che alla fine della cerca operata tramite Ādhyātmika yoga si entri nel nirvikalpa samādhi, vale a dire in quello che lo Yoga darśana considera come uno stato d’unione intima tra l’ego e il Sé. In questo stato transitorio (anitya sthāna) o di transe, non c’è alcuna esperienza immaginativa né alcun grado di coscienza, corrispondendo, come s’è già detto, a una immersione temporanea in suṣupti.

2. Aspettarsi che, come risultato dell’Adhyātma, si fruirà di esperienze inusuali e straordinarie, come udire musiche celestiali o godere di visioni divine.

3. Sperare che, alla fine della pratica dell’Ādhyātmika yoga, si possano acquisire permanentemente le siddhi o, in altre parole, i poteri miracolosi.

Queste siddhi sono poteri che esercitano un’attrazione per taluni insuperabile e le loro esperienze appaiono seducenti e gravide di potenza e affermazione nel mondo; perciò molti vanno alla ricerca di queste siddhi aspettandosi risultati che rafforzino il proprio aham ed estendano il proprio mama. Ma deve essere chiaro che tutto ciò non ha nulla a che fare con nididhyāsana, perché tutto ciò che s’inizia a intraprendere e che in seguito si porta a compimento non è eterno, ma è cosa transitoria, limitata nel tempo. Ciò che si deve conoscere con la contemplazione vedāntica è la propria eterna natura in quanto Brahman, che è al di là dei concetti mentali di spazio e tempo. L’unico scopo è rimuovere la dualità nella sua integralità per mezzo della conoscenza e perciò si deve arrivare a capire che questo comporta, alla fine, anche la rimozione del proprio senso dell’“io” e del “mio”, e non il loro illusorio potenziamento.
Il sādhaka deve, quindi, indagare con l’Ādhyātmika yoga fin quando, senza alcuno sforzo di facoltà individuali, non si stabilirà nella pura Coscienza (śuddha caitanya) dell’Ātman. Ciò è chiamato jñāna niṣṭhā, conclusione del desiderio di conoscere (jijñāsā), e il mezzo più diretto per raggiungerla è proprio l’attenzione contemplativa. Quando si parla di questa conclusione del desiderio di conoscere si deve stare ben attenti a distinguerlo dalla meditazione continuata e dallo sforzo per avere “l’impressione di essere il Sé”. Infatti, jñāna niṣṭhā consiste nell’attenta contemplazione della propria esistenza come un tutt’uno. Ciò vale a dire che le singole esperienze della propria vita e di quelle dell’intera manifestazione non hanno più senso se non vengono inglobate in una visione totalizzante sintetica (aiśvarya). A questo si giunge esercitandosi a essere cosciente del Tutto, non come composto d’innumerevoli particolari, ma come un’unica esistenza cosciente. Così, con la consapevolezza non duale di “essere” esattamente come anche l’intera esistenza “è”, dopo aver portato a conclusione il processo di discriminazione, bisogna arrivare a riconoscersi come il Testimone cosciente di Tutto.
Oggi, a causa della decadenza generale, ci sono molti guru, anche di Vedānta, che raccomandano la meditazione, upāsanā, e le tecniche per indurre la meditazione, che sono in una certa misura utilizzabili nella vita profana. Con upāsanā s’intende uno sforzo di concentrazione mentale su un unico oggetto, sia esso un pensiero, una parola pronunciata o un’attività rituale. Vale a dire che, in questo caso, si medita compiendo un’azione mentale (mānasa kriyā), verbale (śābdika kriyā) o corporea (daihika kriyā), impegnandosi per un lasso di tempo più o meno lungo, azione che si deve ripetere regolarmente ogni giorno a un orario stabilito. Per mantenere questa concentrazione sono anche impartite da quei maestri alcune tecniche sussidiarie, al fine di non permettere ai pensieri di andare e venire incontrollati, o di passare inconsapevolmente dalla meditazione al torpore della sonno, nidrā. Queste istruzioni sono illustrate dai guru dettagliatamente nel loro funzionamento e nel modo corretto con cui si deve metterle in pratica. Ma non è mai data una precisa spiegazione sul loro significato dottrinale, rimanendo un tale insegnamento, tutt’al più, nell’ambito del simbolismo e del mito. Esse perciò sono della natura delle ingiunzioni e non di quella dell’insegnamento della conoscenza.
Nididhyāsana è del tutto distinto da questi metodi. Infatti, l’insegnamento dell’Advaita Vedānta da parte del guru consiste nella dottrina metafisica stessa basata sulle Upaniṣad. La dottrina, attivata dalle parole del maestro2, risveglia l’attenzione del discepolo non su un singolo oggetto, ma sull’esistenza universale presa nella sua totalità. In questo modo si giungerà a non considerare più se stesso come una particella minuscola e transitoria di questo immenso e perpetuo mondo in divenire. Si maturerà, invece, la coscienza che è il mondo a esistere all’interno del proprio Sé. E una volta inghiottito3 l’universo nel proprio Sé, la dualità scompare, come anche scompare la triade composta da conoscitore, conoscenza e oggetto conosciuto. Infatti, una volta raggiunta quella realtà, “Chi si potrebbe conoscere e con che cosa?”
In questa prospettiva, ogni azione mossa da desiderio deve essere abbandonata. Ciò significa che persino le azioni operate con il desiderio di raggiungere il più elevato dei cieli, il Brahma loka, devono essere evitate in quanto, seppure al sommo livello, anche il Brahma loka è uno stato saṃsārico, frutto del karma. Le sole azioni che permangono sono quelle che si svolgono naturalmente senza l’impulso del desiderio: respirare, nutrirsi, riposare, rispondere a domande4, ecc. Tali azioni non costituiscono né producono karma.
Dopo aver sentito di questo Adhyātma, alcuni possono pensare di averlo capito come se si trattasse di una materia di studio che può essere compresa intellettualmente, come se fosse qualcosa di filosofico e di libresco. Avendo verificato che, dopo averlo capito, essi rimangono esattamente nella medesima condizione di prima, allora si chiedono che cos’altro c’è da fare per realizzare, oltre a capire. Questo dubbio indica che essi non hanno ancora acquisito le qualifiche necessarie per avere l’intuizione che la loro propria natura è l’Ātman. Per loro il Vedānta si limita soltanto a essere argomento per esercizi di noetica teorica. Alcuni di questi, desiderosi di passare dalla teoria all’operatività, pensano che dopo essersi impadroniti della dottrina speculativa si debbano praticare certi esercizi e discipline al fine di raggiungere, nel corso di un certo periodo di tempo, certi risultati concreti e persino tangibili. Essi distinguono la teoria dalla pratica per abitudine mentale derivata dall’evidenza della vita ordinaria sotto la spinta di una certa inerzia prodotta dagli studi scolastici. Tuttavia, qui abbiamo già dichiarato che ciò che ha inizio, si sviluppa e si conclude, è necessariamente qualcosa di non eterno e limitato nel tempo5. Questa loro dimenticanza rappresenta una vera e propria squalifica per la conoscenza pura, poiché non arrivano a comprendere che tutto quello ch’è sottoposto a limitazioni temporali è non-Sé. Soltanto ciò che è della natura impermanente (anityā) dell’anātman può essere prima conosciuto teoricamente o virtualmente, e successivamente effettuato o realizzato con una pratica. Nel caso dell’Ātman, che è il centro del proprio essere e la cui conoscenza è di natura immediata e diretta, non può esistere alcuna distinzione tra teoria, virtualità ed effettività, poiché il proprio Sé è la Realtà (Satya) delle realtà. In questo caso l’unico sforzo, se tale lo si vuole considerare, che si deve affrontare è quello di cancellare con il “neti neti” l’impulso naturale di identificare se stessi con i non-Sé, a partire dal senso dell’“io” fino ad arrivare al corpo grossolano. Su ciò Śaṃkara dichiara:

Pertanto, noi dobbiamo soltanto eliminare quello che l’ignoranza attribuisce al Brahman: non c’è alcun ulteriore sforzo da compiere per acquisire la conoscenza di Brahman che è per sua natura evidente.6

A conclusione di questa esposizione sulle opinioni erronee è necessario prendere in esame per sommi capi quali possano essere le difficoltà e gli ostacoli che talvolta si presentano al jijñāsu e quali siano gli accorgimenti per superarli, appoggiandoci principalmente alle Kārikā che Gauḍapādācārya aggiunse a commento della Māṇḍūkya Upaniṣad e alla Bhagavad Gītā. Ovviamente questa parte sarà trattata in poche righe al solo scopo illustrativo, visto che l’affioramento d’un ostacolo appartiene all’esperienza iniziatica di ciascun sādhaka, e che perciò dovrà essere sottoposto solo all’esame del guru al fine di trovarne la soluzione caso per caso.
Gauḍapāda menziona i seguenti ostacoli: la distrazione (vikṣepa), l’assopimento (laya), l’ottundimento (sakaṣāya kaṣāya) e, infine, il compiacimento (rasāsvāda).

1. Vikṣepa, la distrazione. Quando un sādhaka inizia ad applicarsi all’Ādhyātmika yoga, talvolta la sua mente divaga pensando a oggetti o situazioni mondane che lo distraggono, spinto dal desiderio inconsapevole di godere dei piaceri prodotti dagli oggetti esterni. Questo lo conduce ad aver una mente agitata e poco controllata. Per vincere questo ostacolo, l’iniziato dovrà dedicarsi al vairāgya, ossia al distacco e alla rinuncia. Il vairāgya è di due tipi. Il primo consiste nell’osservare incessantemente che gli oggetti sono limitati e che quindi i piaceri da loro provenienti sono scarsi e transeunti7. Allorché si osservano gli aspetti di scarsezza e transitorietà nella fruizione delle cose mondane, l’attrattiva diminuisce e il desiderio viene a cadere. I buddhisti e gli iniziati ad altri sampradāya mettono in pratica soltanto questa tecnica di rinuncia. Ma questa è solo metà della rinuncia. Invece, nel Vedānta si prescrive ai discepoli la rinuncia completa. Questa rinuncia suprema può essere descritta semplicemente nel modo seguente: il sādhaka deve ricordare che tutta l’apparenza di dualità è falsa. Pur essendo il Sé la realtà dell’intero universo, si è portati dall’ignoranza a confondere il Sé con il mondo. Il Sé è non duale, senza origine e assoluto anche quando appare come questo mondo. Perciò la Realtà è sempre senza inizio (anādi). Nella prospettiva della Realtà, anche adesso il mondo come appare non esiste. Questo secondo tipo di vairāgya è chiamato “ricordo della Verità senza inizio”. Quando il sādhaka contempla questa verità sulla stabile base di una visione sintetica dell’esistenza, allora può raggiungere la completa rinuncia, il vero vairāgya8.

2. Laya, l’assopimento. Durante la cerca conoscitiva com’è indicata dall’Ādhyātmika yoga, alcune menti sono prese dalla noia e cadono in sonno profondo. L’ostacolo è causato dall’inerzia, tamas. Per superarlo si deve allertare la mente impegnandola a fondo nella discriminazione sia nei confronti del mondo esterno sia al proprio interno. Si dovrà regolare la vita con una dieta appropriata, e disciplinare il ritmo delle proprie attività naturali di veglia, di sogno e di sonno profondo. In questo modo si potrà equilibrare tamas con la corretta compresenza di sattva rajas.

3. Sakaṣāya kaṣāya, l’ottundimento. Alcune volte capita che la riflessione della mente arrivi a un punto morto o s’imbatta in qualche intoppo durante la discriminazione. Questa è la condizione mentale in cui si è trovata Maitreyī9, quando non riuscì a seguire il senso profondo dell’insegnamento trasmessole oralmente da Yājñavalkya. Anche se in questa condizione d’ottusità della mente non si cede al sonno, qualora non si trovi una pronta soluzione, si può essere indotti al vikṣepa. Vale a dire che, in tale situazione, la mente è pronta a rivolgersi verso l’esterno non appena l’attenzione viene a cadere o s’allenta. Per vincere questo ostacolo si deve ripetere manana sullo stesso punto da cui è sorta la difficoltà, fino a riuscire a risolverla e a riprendere la discriminazione interrotta.

4. Rasāsvāda, il compiacimento. Quando la mente (antaḥkāraṇa) s’è riavvolta durante il processo di discriminazione, si può provare un senso di benessere e di godimento derivato dalla comprensione folgorante d’un singolo passaggio di viveka, a seguito dell’attenzione contemplativa. Benessere e godimento sono un impedimento allo stabilirsi nella reale natura del Sé. La parola rasāsvāda è composta da rasa che significa gusto, piacere e da āsvāda, assaporare. Per superare questo ostacolo ci si deve dedicare a un attento processo di discriminazione nel modo seguente:

Questo compiacimento è un riflesso del Sé nella mente, prodotto dalla contemplazione. Poiché io sono il Sé, io sono il Testimone di questa sensazione di compiacimento. Ma, poiché io sono il Sé non duale, non può esistere la triplice idea di godimento, gaudente e goduto. Io sono della natura della beatitudine (ānanda), che è permanente nello stato di sonno profondo. Invece, questo godimento è un concetto che appare e che scompare, quindi nella sua vera essenza è soltanto una falsa apparenza.10

Solamente riflettendo in questo modo si può superare l’ostacolo. Tutta l’argomentazione che riguarda il superamento degli ostacoli è riscontrabile nella Bhagavad Gītā11, che suddivide i rimedi in due gruppi. Il primo gruppo corrisponde ad abhyāsa, l’intensificazione del metodo atto a purificare la mente. Esso consiste nella pratica dell’umiltà, considerando che la mente, pur essendo lo strumento della discriminazione, è una falsa apparenza sovrapposta al Testimone come l’immagine del serpente sulla corda; in questo modo la mente purificata ritorna a essere un prezioso mezzo di discriminazione interiore tra Ātman anātman. Il secondo gruppo di rimedi è rappresentato dalla rinuncia (vairāgya), che, oltre a essere trattata nei medesimi passaggi della Gītā testé menzionati, è anche un argomento importante delle Kārikā di Gauḍapāda12. Seguendo i consigli di questi due testi si può vincere qualsiasi ostacolo s’opponga all’Adhyātma yoga.
Inoltre, per penetrare i misteri degli insegnamenti vedāntici si deve forzatamente realizzare questi quattro punti fondamentali:

– Si deve avere l’intuizione del Sé come Testimone eterno dell’“io”;

– Si deve mettere in pratica il metodo adhyāropāpavāda: in altre parole accettare intenzionalmente la sovrapposizione di false apparenze su ciò che è reale, per poi in seguito confutarne la veridicità tramite discriminazione;

– Si deve distinguere con certezza tra questo metodo dell’attenzione od osservazione della realtà (vastutantra) e i metodi che si basano sullo sforzo per raggiungere una meta (kratutantra), utilizzati dalle vie iniziatiche che fanno parte del dominio della conoscenza non suprema, e capire la differenza tra i loro risultati;

– Infine si deve comprendere con chiarezza la differenza tra la vera visione metafisica (paramārta dṛṣṭi) e il punto di vista diveniristico dell’esperienza empirica (vyavahāra dṛṣṭi).

La tecnica adhyāropāpavāda dovrà essere impiegata su qualsiasi argomento metafisico presente nelle Upaniṣad. La discriminazione che riguarda gli stati di veglia, sogno e sonno profondo e l’accertamento di quale sia la causa dell’universo, si basano prevalentemente su questa tecnica. Per esempio, gli stati della manifestazione sono cose apparenti sovrapposte alla reale natura del Sé come il serpente alla corda; questa sovrapposizione (adhyāsa) è imputabile all’ignoranza di chi immagina che sia così. Questa fase iniziale d’ignoranza (avidyā), che è naturale nell’uomo ordinario, per l’iniziato vedāntin è il punto di partenza per la cerca conoscitiva: cio è quanto costituisce l’adhyāropa. A conclusione dell’indagine spirituale, il sādhaka conosce che tutto nella sua essenza è il Brahman. In virtù di questo accertamento, allorché alla fine, l’insieme delle false nozioni è stato rimosso, questa distruzione delle false cognizioni è chiamata apavāda. All’inizio dell’insegnamento, tutte le cose sono accettate come reali, perché la via della conoscenza comincia da quello stato nel quale si è nati come esseri umani, in cui la sovrapposizione dovuta all’ignoranza (avidyā) nasconde la verità. Questo stato, che è sempre quello di veglia, è definito visione empirica (vyāvahārika dṛṣṭi) del mondo in quanto sottoposto all’azione e ad altri condizionamenti, quali il tempo, lo spazio, la causalità, il numero ecc. Invece, a conclusione dell’insegnamento del guru ed, eventualmente, anche a seguito di manana nididhyāsana, tutte le convinzioni erronee precedenti sono eliminate dal raggiungimento della visione dell’Assoluto. Questa negazione di tutte le sovrapposizioni (adhyāsa), raggiunta per mezzo del “neti neti”, è chiamata visione assoluta, metafisica (paramārta dṛṣṭi). Aggiungeremo, infine, che quest’ultima non è affatto un semplice “punto di vista” (dṛṣṭi), come lo è la vyāvahārika dṛṣṭi, ma è l’unica e incomparabile visione dell’Assoluto.

  1.  A proposito di superamento di opinioni erronee, cogliamo l’occasione per specificare che mumukṣā, il desiderio ardente del mokṣa, non è affatto un desiderio (kāma) che spinge a una azione (karma) volta a ottenere un risultato (phala). Si tratta, al contrario, dell’intuizione intellettuale che il “proprio” Sé è eternamente il Brahman, pura Coscienza, unica Esistenza. Ciò induce il mumukṣu a rimuovere qualsiasi altro desiderio che coinvolge fatalmente gli individui nella ricerca di risultati contingenti.[]
  2. Ciò implica, ovviamente, che la sola lettura testuale della dottrina metafisica upaniṣadica è insufficiente per far superare il livello dell’apprendimento teorico. L’ascolto dell’insegnamento orale da parte del guru, come si è ripetuto varie volte, è già contemplazione e ha il potere di mettere in diretto contatto con Īśvara, il maestro interiore.[]
  3. Abbiamo volutamente impiegato questo termine in luogo di quello più in uso di ‘riassorbito’, alludendo all’episodio mitico in cui Yaśodā, guardando nella bocca di Kṛṣṇa bambino, vi scorge l’intera esistenza universale.[]
  4. Ciò comporta una notevole differenza tra la funzione di un maestro di Vedānta e quella di qualsiasi altro guru.[]
  5. Quante volte ci si è imbattuti in persone, anche iniziate, che apparivano come se dominassero le dottrine tradizionali e che, alla fine, hanno imboccato una strada diversa, se non opposta? Tale conoscenza non era altro che il risultato di una azione conoscitiva paragonabile a qualsiasi altra investigazione profana, filosofica, teologica o scientifica: l’azione che ha inizio fatalmente finisce.[]
  6. BhGŚBh XVIII. 50. Ricordiamo, a questo proposito, quanto abbiamo scritto sopra sull’Ātmā pratyaya.[]
  7. Per esempio, per ridurre l’attrazione della gola, basta considerare che il piacere derivante dall’ingestione del cibo si limita, in spazio e tempo, soltanto al suo passaggio sulla superfice della lingua. Il risultato sarà un distacco dal piacere e, perciò, da allora si mangerà soltanto per nutrirsi.[]
  8. Il vero vairāgya è la povertà interiore, che può portare anche spontaneamente all’assunzione del saṃnyāsa. Tuttavia diventare saṃnyāsin non sarà altro che il segno esteriore di aver già raggiunto il vairāgya. E qui con saṃnyāsin intendiamo il vero rinunciante, che non deve essere confuso con colui che entra nel quarto stadio della vita (āśrama). Per la medesima ragione, quest’ultimo tipo di saṃnyāsin non può essere considerato del tutto al di là delle caste e degli stadi della vita, (ativarṇāśrami).[]
  9. BU II.4.13.[]
  10. MUGK III. 44-47.[]
  11. BhG XIII. 7-11; XVIII. 51.[]
  12. MUGK III. 38-43.[]