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Śrī Śrī Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī

12. SAGGI SUL VEDĀNTA

12. APPLICAZIONE DEL METODO. SCHIAVITÙ E LIBERAZIONE

122. Il Vedānta, in quanto dottrina della non dualità che sostiene la Realtà Assoluta dell’unico Ātman, non può evidentemente ammettere che esso cada in schiavitù e che raggiunga la Liberazione o il Sommo Bene dopo aver praticato rituali e discipline. Eppure, le Upaniṣad parlano del mokṣa, della pratica della meditazione e di altre tecniche metodiche per raggiungere lo stato di libertà. Come si può spiegare questa contraddizione?

123. Gli advaitin della tradizione di Śaṃkara dicono che le Upaniṣad contengono insegnamenti diversi indirizzati a differenti livelli intellettuali. Va da sé che il riconoscimento di questi livelli è solamente una concessione al punto di vista empirico. Dal punto di vista assoluto, infatti, si trascende la distinzione di schiavitù e Liberazione. Distinguere tra vyavahāra e paramārtha è stata forse una innovazione proposta dalla paramparā di Śaṃkara? Per poter rispondere a questa domanda, si devono cominciare a raccogliere alcuni brani delle Upaniṣad che parlano della Liberazione e del vyavahāra, ovvero del comportamento empirico composto da pensiero, parola e azione. Quelli che seguono sono alcuni testi scelti perché contengono parole direttamente derivate dalla radice verbale muc (liberare):

“Conoscendo la causa [dell’universo] tramite il Sāṃkhya-Yoga, si è liberati da tutti i legami”. (ŚU VI.13)

Tuttavia, il Supremo Puruṣa è al di là di avyakta (la forma potenziale dell’universo, la Prakṛti); conoscendo l’onnipervadente esente dal liṅga [śarīra] (l’aggregato di condizionamenti sottili, come la mente ecc.), il jīva è liberato e raggiunge la sua natura immortale”. (KU. VI.8)

Coloro che hanno pienamente compreso ciò che è insegnato nei Vedānta (nelle Upaniṣad), per mezzo della conoscenza diretta, che con il loro impegno hanno purificato la mente con lo Yoga della rinuncia, essi, dopo la morte, diventano completamente immortali nei mondi di Brahmā e[, infine,] sono liberati da tutti i legami”. (MuU III.2.6)

124. È ovvio che la Liberazione ottenuta attraverso la conoscenza può solo significare la libertà dalla non conoscenza della Realtà, perché la conoscenza non è qualcosa che spezza catene reali. Ecco perché le Upaniṣad parlano spesso di Liberazione dall’ignoranza o di sciogliere i suoi nodi:

A quel Nārada, che ha lavato via l’impurità dalla mente, il venerato Sanatkumāra (ora) indica la riva oltre l’oscurità (l’ignoranza). (ChU VII.26.2)

Tu sei davvero il nostro (vero) padre perché, attraverso l’avidyā, ci hai portato all’altra riva. (PU VI.6.8)

Tutto questo è veramente il Puruṣa, il karma e il jñāna. Colui che conosce questo supremo immortale che risiede nella caverna del cuore, o mio caro, scioglie qui il nodo dell’avidyā”. (MuU II.1.10)

125. Il mokṣa, quindi, è la Liberazione dall’ignoranza e dai suoi frutti, come i desideri, la paura, il dolore, l’illusione, gli abbagli della mente, la debolezza del cuore, la vecchiaia, la morte e tutti gli altri mali della vita mondana:

Quando tutti i desideri che dimorano nel cuore di questo jīva sono distrutti, allora il mortale diventa immortale e raggiunge Brahman qui [-ora]. (KU 6.14)

Quando tutti i nodi del cuore sono tagliati, allora questo jīva mortale diventa immortale. Questo è tutto l’insegnamento (dei Vedānta)”. (KU VI.15)

Conoscendo la beatitudine di Brahman, non si ha più paura di nulla. (TU II.9)

O Janaka, invero hai raggiunto l’assenza di paura! (BU 4.2.4)

Là, quale illusione, quale dolore possono esserci per chi ha realizzato l’unicità (totale). (ĪU 7)

Il nodo del cuore è sciolto, tutti i dubbi sono cancellati e i karma sono tutti distrutti, quando costui realizza quel (Brahmātman) che è sia Supremo sia non-Supremo. (MuU II.2.8)

Attraverso l’Ātman si raggiunge vīrya (la capacità di realizzare) e, attraverso la conoscenza, l’immortalità. (KeU II.4)

126. Essendo l’io individuale legato e limitato solo dall’ignoranza, il cercatore raggiunge la sua natura di Brahman e diventa il Tutto non appena acquisisce la conoscenza. Questo punto di vista dell’adhyāropa è utilizzato a scopo d’insegnamento, perché ognuno è sempre stato Brahman, e quindi non c’è né schiavitù né Liberazione per nessuno. Questo è l’apavāda (la confutazione) di cui le śruti si servono per insegnare la verità eterna:

Chiunque, infatti, conosce il Brahman Supremo, diventa proprio quel Brahman. Nella sua discendenza non nasce nessuno che non conosca il Brahman. Egli attraversa la sofferenza, attraversa i demeriti e, liberato dai nodi del cuore, diventa immortale. (MuU III.2.9)

Così all’inizio il Brahman era solo. Conosceva se stesso così ‘Io sono Brahman’; e, come conseguenza di questa conoscenza, divenne tutto questo. Chiunque abbia conosciuto ciò lassù tra gli Dei, solo quello è diventato tutto questo. Lo stesso è accaduto tra i ṛṣi e tra gli uomini. Osservando questo Vāmadeva scoprì il mantra ‘Sono diventato Manu, e Surya…’. E anche adesso chi conosce che ‘Io sono Brahman’ diventa tutto questo. Neanche gli Dei sono in grado di impedirgli di diventare tale, perché egli è diventato il loro stesso Sé. (BU I.4.10)

I pescatori sono Brahman, gli schiavi sono Brahman, e anche questi giocatori sono, in verità, solo Brahman. (Brahmasūkta dell’Atharva Veda)

127. È dal più alto punto di vista scritturale che Gauḍapāda e Śaṃkara dichiarano a una sola voce che quando si è realizzato che tutto è Brahman, ossia l’Ātman, non c’è più nessuna necessità di ingiunzioni, pramāṇa (mezzi di conoscenza), pratiche metodiche, schiavitù o Liberazione:

Non c’è né dissoluzione né nascita (dell’universo) né chi sia in schiavitù né chi pratichi i metodi per la Liberazione né alcuno che desideri la liberazione né alcuno che abbia raggiunto la Liberazione. Questa è la Verità suprema. (MUGK II.32)

Avendo conosciuto il mondo interno come la Realtà stessa, avendo conosciuto il mondo esterno come la Realtà stessa, ed essendo diventato uno con la Realtà e prendendo piacere solo in essa, non si dovrebbe mai deviare dalla Realtà. (MUGK II.38)

Perciò è solo fin quando non appaia l’intuizione ‘Io sono Brahman’ che tutte le ingiunzioni e tutti gli altri pramāṇa hanno ragion d’essere. Perché, quando quell’Ātman che non deve essere né attirato né respinto è stato intuito, i pramāṇa non possono continuare ad essere, poiché allora non avrebbero né oggetti di conoscenza né conoscitori che desiderano il loro aiuto. (BSŚBh I.1.4)

Questa distinzione tra il Sé incorporato e il controllore interno è dovuta al condizionamento associato al corpo e ai sensi proiettati da avidyā, e non è reale. Perché ci può essere un solo Ātman interiore, e non due sé interiori. Lo stesso Ātman è trattato come se in lui ci fosse una distinzione, proprio come si parla dello spazio in un vaso e dello spazio universale. Da questo punto di vista tutto diventa possibile: le śruti che insegnano la distinzione del conoscitore, del conosciuto ecc., i validi mezzi di conoscenza come la percezione ecc., l’esperienza del saṃsāra e i testi che ingiungono doveri e divieti. Di conseguenza, la śruti pone tutte quelle procedure convenzionali nel dominio dell’ignoranza quando dice “Dove c’è dualità, per così dire, lì si vede qualcos’altro.” (BU IV.5.15); invece respinge tutte le (pratiche umane d’uso comune) dalla sfera della conoscenza quando dice: “Quando, tuttavia, per questo conoscitore tutto diventa solo Ātman, lì cosa si potrebbe vedere e con cosa?” (BU IV.5.15). (BSŚBh. I.2.20)

Il conoscitore del Brahman, in definitiva, sa quanto segue: “Al contrario di essere della natura d’un agente e di uno sperimentatore (del frutto delle azioni), come pensavo d’essere in precedenza, io sono quel Brahman che non è affatto un agente o uno sperimentatore nella sua natura in nessuna delle tre le divisioni del tempo. Non sono mai stato un agente o uno sperimentatore nemmeno prima di questo né tale sono ora né lo sarò in futuro”. È solo così che la Liberazione è possibile, perché altrimenti non ci sarebbe alcuna Liberazione, dato che i karma, che hanno continuato a susseguirsi da tempo immemorabile, non potrebbero esaurirsi; né la Liberazione può essere un evento come frutto dei karma, che dipende da un qualche luogo, tempo o causa perché, in tal caso, sarebbe impermanente. Questo è così anche per un’altra ragione, cioè che il risultato della conoscenza (dell’Atman) ragionevolmente non può essere altro [da Sé]. (BSSBh IV.1.13)

Sulla sovrapposizione reciproca di Sé (Ātman) e di non Sé (anātman), chiamata avidyā, si basa l’uso di tutti gli strumenti convenzionali come i pramāṇa (mezzi di conoscenza), i prameya (oggetti di conoscenza) sacri o profani che siano, come anche tutti gli Śāstra che trattano di ingiunzioni, di proibizioni e della Liberazione. (BSŚBh Adhyāsa Bhāṣya)

Ciò significa che qualsiasi attività umana presuppone avidyā.

Domanda: Ma come possiamo sapere che i mezzi di conoscenza, quali la percezione ecc., come pure gli Śāstra, sono destinati solo agli ignoranti?

Risposta: Allorché una persona non considera corpo, sensi, ecc. come se stesso (aham) e come sue proprietà (mama), non può essere un conoscitore (pramātṛ) e i pramāṇa non possono funzionare nel suo caso. (BSŚBh Adhyāsa Bhāṣya)

L’uso della percezione e degli altri pramāṇa non è possibile senza i sensi; e i sensi non possono funzionare senza il corpo come base; e nessuno potrebbe essere attivo senza identificarsi con il corpo. Né potrebbe esserci una cognizione dell’Ātman distaccato da tutto, senza presumere tutto questo. E senza una cognizione non ci può essere funzionamento dei mezzi di conoscenza. Perciò, i mezzi di conoscenza quali la percezione ecc., come pure gli Śāstra, sono solo per gli ignoranti”. (BSŚBh Adhyāsa Bhāṣya)

Chiunque immagini di essere un conoscitore non può prescindere dall’identificarsi al corpo da cui dipendono i sensi. Ma in realtà, la sua vera natura di Ātman non è affatto collegata al corpo o ai sensi che egli chiama ‘io’ e ‘mio’.

Questa citazione da Paiṅgi (Yāska) non mira ad attribuire la natura di sperimentatore alla mente insenziente, ma intende solo dichiarare che il ‘conoscitore del campo’ (kṣetrajña) senziente, vale a dire il sé individuale, non è (realmente) uno sperimentatore in quanto è della natura del Brahman. A tal fine, sovrappone la natura di sperimentatore alla mente che è soggetta a piaceri e ad altri umori mutevoli. (BSŚBh. 1-2-12)

Questo è un caso di sovrapposizione deliberata di qualche proprietà al fine di negarne qualche altra sovrapposta all’Ātman.

Invero, questa natura di essere agente e sperimentatore è un’invenzione falsa dovuta alla non discriminazione tra le rispettive nature della mente e del Sé. In realtà, tuttavia, non può concepibilmente appartenere a nessuno dei due, perché la mente è insenziente (acit) e il Sé è immutabile (nirvikāra). È del tutto inconcepibile nel caso della mente, dato che è della natura di un’apparenza proiettata da avidyā. Di conseguenza, la śruti che inizia con “Dove c’è dualità, per così dire, lì si vede qualcos’altro” (BU IV.5.15) mostra come tutte queste convinzioni, come quella di un agente di azione ecc., appartengano alla sfera dell’ignoranza e siano simili al comportamento che si assume nei confronti di un elefante ecc. visto in sogno. Invece l’assenza di ogni caratteristica, come quella di agente, ecc. nel caso di un vivekin, è dichiarata dall’affermazione che inizia con “Quando, tuttavia, per questo conoscitore tutto diventa solo Ātman, lì cosa si potrebbe vedere e con cosa?” (BU IV.5.15). (BSŚBh. 1-2-12)

Qui Śaṃkara chiaramente dimostra che l’attività umana è limitata alla sola sfera dell’ignoranza ed essa è insegnata così dalla śruti applicando il metodo dell’adhyāropāpavāda.

128. È con il metodo della sovrapposizione deliberata, quindi, che i vedāntin attribuiscono tutti i mali della vita mondana al non-sé per negare ciò che di solito, nella vita empirica, è concepito come una proprietà del Sé. In realtà, ciò che si definisce sé individuale è sempre stato libero da tutte le limitazioni del saṃsāra. Ecco un verso sanscrito attribuito a Śaṃkara, cantato ogni giorno da centinaia di indiani iniziati al Vedānta, che riassume questo metodo:

Io non sono il corpo, perciò come mi verrebbero nascita e morte? Io non sono i prāṇa, perciò come mi verrebbero fame e sete? Io non sono la mente, perciò come mi verrebbero sofferenza e illusione? Io non sono l’aham, perciò come mi verrebbero schiavitù e Liberazione?