Svāmī Prabhuddhānanda Sarasvatī Mahārāja
12. Commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda
Agama Prakaraṇa
Kārikā I.2
Quindi suṣupti deve essere osservata due volte, sia dal punto di vista dell’avidyā sia dal punto di vista degli Śāstra sia dal punto di vista del svarūpa. Si tratta dell’avidyā dṛṣṭi e dell’adhyāropa dṛṣṭi, che fanno parte dell’insegnamento e, infine, della svarūpa dṛṣṭi, che è l’intuizione della Realtà. Queste sono le tre dṛṣṭi che riguardano suṣupti e tutte e tre vanno comprese osservandole per due volte: il primo punto di vista è il pensiero universalmente condiviso, avidyā dṛṣṭi, che significa come l’uomo pensa; pensa che non ci sia nulla in suṣupti: “non conoscevo nulla”. Anche quando si dice “ho dormito tranquillo” lo si interpreta solo come assenza di duḥkham e non come presenza di sukham. Per questo, interpretare suṣupti in termini di assenza di tutto si chiama āvidyaka dṛṣṭi, che è la visione universalmente condivisa. Osservando suṣupti come assenza di tutto, si pensa che il corpo non ci sia e che quando il corpo non c’è “anch’io non ci sono”; quindi lo si considera come uno stato di assenza di tutto, assenza della propria esistenza. In questo modo ciò che è chiamato visione universale nasce dall’ignoranza. Si osserva suṣupti come quando ci si sveglia da suṣupti dicendo “non era niente”; si interpreta suṣupti in termini di assenza di tutto, compresa la propria esistenza. L’uomo pensa che quando il corpo non c’è la sua propria esistenza non c’è, che quando la mente non c’è la sua esistenza non c’è. L’uomo pensa a se stesso come a una forma, e quando la forma non c’è pensa “non vedo la mia esistenza” e, quando i pensieri non ci sono, allora “io non sono esistente”. Questo è il modo in cui l’uomo interpreta suṣupti nello stato di veglia. Questa è chiamata visione universale, questa si chiama visione avidyaka. Lo Śāstra afferma che questo non è vero. Lo Śāstra dice di osservare suṣupti più da vicino, di usare il ragionamento, la riflessione: se è uno stato di esperienza, allora non è uno stato di inferenza, non è uno stato di credenza, non è uno stato di accettazione cieca. È uno stato di esperienza perché colui che sperimenta l’assenza di tutto è il Testimone dell’assenza. L’unica prova di tutto è quella che sperimenti, è la tua conoscenza, che può essere una conoscenza che implica pensiero oppure una conoscenza che non implica pensiero. Anche l’assenza di pensiero è conoscenza: è conoscenza che non comporta pensiero. Perciò suṣupti non è l’assenza di tutto, compresa la tua esistenza, è la tua esistenza libera da tutto; suṣupti dice che è la tua presenza libera da tutto.
La seconda volta che si osserva suṣupti, la comprensione immediata è che si tratta di uno stato di presenza libero da tutto. Questa è una parte dell’insegnamento e la śruti dice che la presenza di se stessi è l’origine di tutto, è il kāraṇa; anche questo fa parte dell’insegnamento. Afferma che “è uno stato non manifesto” (avyākṛta o adṛṣṭa avasthā), il che anche fa parte dell’insegnamento, e dice che cos’è il svarūpa che sta per arrivare con il settimo mantra. Ecco perché c’è un solo mantra dell’Upaniṣad dedicato a descrivere la veglia, c’è un solo mantra per lo stato di sogno, mentre per lo stato di sonno profondo ci sono due mantra. Il quinto e il sesto mantra sono dedicati a osservare suṣupti in due maniere. La prima è “non conoscevo nulla”, la visione universale che non c’è nulla, compresa la mia esistenza. La śruti sostiene che non è vero, che devi usare il tuo ragionamento. Se anche la tua esistenza è assente, allora come fai a testimoniare l’assenza di tutto? Chi è che testimonia l’assenza di tutto? Quindi, colui che testimonia l’assenza di tutto è la tua esperienza, vale a dire che la tua presenza è lì libera da tutto. Quando chiudi gli occhi non vedi nulla, questa è la tua esperienza. Tu testimoni con la tua esperienza che non vedi nulla. La percezione è testimoniata dall’esperienza: ciò che percepisci testimonia con la tua percezione che “sì, c’è un oggetto, lo vedo, è la mia conoscenza. L’albero è verde, io lo testimonio: è la mia conoscenza”. Quindi, ciò che testimonia la presenza delle cose è conoscenza e ciò che testimonia l’assenza di qualcosa è anch’esso conoscenza. Conoscenza significa la tua presenza, la presenza di colui che conosce. Il ricordo di ciò, nello stato di veglia, è un’altra cosa, ma solo ciò che è sperimentato può essere ricordato, il ricordo1 non è frutto di deduzione (anumāna). Se vedi solo un certo effetto e non ne vedi la causa, poiché conosci la relazione tra causa ed effetto, dici che l’effetto deve avere una causa: questo si chiama deduzione. Se vedo il fumo e non vedo il fuoco, ne deduco che ci deve essere del fuoco nei dipressi: questa si chiama deduzione. Ma dello stato di sonno profondo non si traggono deduzioni, lo si ricorda: e il ricordo è diverso dalla deduzione. Non facciamo congetture sul sonno profondo. Se ricordi lo stato di sogno e lo stato di sonno profondo, ricordi anche lo stato di veglia, la stessa casa, gli stessi oggetti. Quindi il sonno profondo non è uno stato di inferenza, di presunzione o di credenza accade in certi tipi di teologie; nessuno ci obbliga a pensare che esista uno stato di sonno profondo. L’uomo dice: “Non ricordo nulla, quindi non accetto lo stato di sonno profondo”. Invece è libertà dagli oggetti. Come si fanno a ricordare gli oggetti? Libertà dagli oggetti non è il ricordo degli oggetti, perché lì gli oggetti non ci sono. Gli oggetti del sogno si possono ricordare: di suṣupti non si ricorda la libertà dagli oggetti, si ricorda la libertà. Prima di nascere era tutto buio: non è deduzione, è ricordo. Infatti è ricordata anche la precedente eterna assenza di questa incorporazione. “Prima che nascesse questa vita, c’era questo corpo?” “No.” “Ne sei sicuro?” “Sì.” “Come fai a saperlo?” “È la mia esperienza”. Si chiama assenza precedente(prāgabhāva), ed è anche un ricordo. Questo tavolo non c’era cinque anni fa; è un’illazione o un ricordo? È un ricordo. Allo stesso modo, prima di questa vita c’era un’oscurità totale; l’uomo esprime la sua totale oscurità dicendo “non ricordo nulla”. Che non ricordi nulla è un ricordo, non è che ricordi che c’era una cosa “ma non la ricordo”. Non puoi dire “c’era una cosa”. Il momento in cui l’affermi “c’era una cosa” è un ricordo. Prima di questa vita non c’era nulla; Non hai visto questa vita, non ti è mancata questa vita. “Non c’era nulla” è un ricordo, quindi l’assenza precedente di questa vita è un ricordo. Dunque, il sonno profondo è un ricordo. Se non lo si è sperimentato non se ne può avere il ricordo. Sperimentare non significa che c’è per forza una divisione tra chi sperimenta e ciò che è sperimentato. L’esperienza dell’assenza di un oggetto non avviene attraverso un altro pensiero: è semplicemente Essere senza l’oggetto, è una presenza non duale del tuo Essere. Prima di questa vita c’è Essere senza pensiero. Nello stato di veglia lo chiami “è la mia esperienza”. Crei la divisione tra chi sperimenta e cosa è sperimentato; ma se fai maggiore attenzione al tuo ricordo di sperimentare l’assenza, è Essere senza qualcosa: per esempio Essere senza la veglia. Nello stato di veglia essere senza il sogno è altrimenti definito come esperienza della mia assenza dal sogno. L’essere umano, che non ha confidenza con gli Śastra, pensa solo in termini di relazioni. Cerca di interpretare persino il “lì non c’era niente” di suṣupti come una relazione tra sperimentatore e sperimentato. Invece la relazione tra sperimentatore e sperimentato non c’è, c’è solo l’Essere che diciamo “libero da tutto”, ma che, per esperienza è solo Essere: è l’Essere non-duale.
Perciò lo stato di sonno profondo deve essere considerato due volte: la prima è la visione avidyaka, l’altra è la visione śāstrika, che fa parte dell’insegnamento Śāstra. La terza sarà lo svarūpa, che arriverà con il settimo mantra, cioè la terza volta che lo si considera. Viene insegnato come kāraṇam, come origine del non manifesto, ma per esperienza è nirviśeṣam. Lo svarūpa non può essere indicato con termini qualificativi; una cosa è il termine qualificativo, altra cosa è il termine correttivo. Poteste ricordare queste due frasi: quando diciamo “quell’albero è verde” o “quest’uomo è alto”, si tratta di termini qualificativi, di termini descrittivi. Supponiamo che ci sia un cristallo incolore e che qualcuno lo veda come un cristallo rosso perché gli è addossato un fiore rosso; quando dico “il cristallo non è rosso, è incolore”, si tratta di un’affermazione in termini correttivi. L’incolore non può essere indicato se non come privo di colori, quindi non si può usare un’affermazione qualificativa per descrivere l’incolore. Così il nirviśeṣam non può essere descritto in termini qualificativi; è privo di tempo, di spazio, di corpo, di pensiero, di saṃsāra, di dolore-piacere dei sensi, di nascita, di morte, di tutto ciò che l’uomo vede, d’ogni dettaglio; di tutti i dettagli che l’uomo sperimenta nello stato di veglia e di sogno, dettagli fisici, biologici e psichici da cui l’uomo è libero. Suṣupti deve essere considerata tre volte: una è l’avidyaka dṛṣṭi; la seconda è l’insegnamento, come viene insegnata, cosa ne pensa la śruti; infine la terza, quello che dice l’esperienza. La mia esperienza personale dice che è uno stato di libertà da tutto. Lo Śāstra dice che il nirviśeṣam, in relazione all’universo, è chiamato origine, che è insegnato come origine. Anche i sāṃkhya dicono che l’Ātman è nirviśeṣam, ma il loro Ātman nirviśeṣam esclude l’universo; ma se esclude tutto, allora diventa saviśeṣam, dato che c’è qualcosa di parallelo a esso, dato che ha una relazione, in quanto qualsiasi cosa parallela è una relazione. Altro significa relazione. Quando i sāṃkhya dicono che l’Ātman (Puruṣa) è nirviśeṣam, ma da lui escludono la materia (Prakṛti), la coscienza è nirviśeṣam a esclusione della materia. Si tratta di una definizione errata di nirviśeṣam; nirviśeṣam è ciò che non ha nulla di parallelo ad esso; non deve esserci nulla altro da esso. Il Vedānta dice che l’Ātman è nirviśeṣam, e che è allo stesso tempo l’origine di tutto rimanendo sempre nirviśeṣam. Come l’acqua è allo stesso tempo origine dell’onda e libera d’ogni altra cosa parallela; anche la corda è origine del serpente che vedi al suo posto ed è, allo stesso tempo, libera d’ogni altra cosa parallela. Perciò suṣupti deve essere osservata a partire dall’avidyaka dṛṣṭi, per poi proseguire con la seconda śāstra dṛṣṭi e con la terza dṛṣṭi, l’anubhava. La stessa śāstra dṛṣṭi, una volta compresa, è svarūpa. La dṛṣṭi adhyāropa, quando è compresa, è svarūpam; l’origine, quando è capita, è nirviśeṣam. Quando dici all’onda “tu sei acqua”, ed essa lo capisce, è nirviśeṣam.
Per lo stato di veglia c’è un mantra, per lo stato di sogno c’è un mantra, per lo stato di sonno profondo ci sono, dunque, due mantra più un terzo. Il quinto mantra è avidyaka dṛṣṭi: nel quinto mantra, fino alle parole ‘tat suṣupta’, è avidyaka dṛṣṭi. Dobbiamo aggiungere qualche altra considerazione: il pensiero che “non c’è nulla, quindi anch’io non ci sono” e i due versi di śāstra dṛṣṭi “suṣupta sthāna ekī bhūtaḥ prajñānaghana evānanda bhuk”, che descrivono suṣupti come se tutto rimanesse non manifesto, appartengono all’adhyāropa dṛṣṭi. Il sesto mantra parla sempre di suṣupti, ma qui la śruti, pur considerando che è nirviśeṣam, la tratta come origine dell’universo, come Īśvara: suṣupti come origine di jāgrat e di svapna, come mantenimento di jāgrat e di svapna, come loro dissoluzione, è Īśvara. Il settimo mantra parlerà dello svarūpam, della vera natura del tuo essere che è nirviśeṣam. È preso per errore come fosse individuale, viene insegnato come origine, ma è nirviśeṣam. La realtà che si identifica con il corpo di veglia e vede gli oggetti di veglia è chiamata bahiṣprājña, come se ci fosse qualcosa di esterno; è un senso di esteriorità. La realtà che porta con sé un senso di esteriorità è nel dominio di avidyā: questo senso di esteriorità lo rende bahiṣprājña. È come quando tu vedi il serpente lì, anche se la percezione del serpente è dentro di te. Tu che vedi il serpente sei l’origine della percezione del serpente, ma tu lo vedi come esterno a te; questo fa di te bahiṣprājña per il senso di esteriorità nei confronti del serpente. Pensi che il serpente sia un oggetto e che sia esterno a te. Pensare a qualcosa esterno a te, è chiamato bahiṣprājñatvam. Quindi, il senso di esteriorità non è una credenza, è l’esperienza di tutti. Tuttavia, la Realtà è essere uno e, in quella “realtà”, il senso di esteriorità è illogico; se l’acqua pensa che l’onda sia a lei esterna, è in errore. Chi è dunque davvero? È l’onnipervadente Viṣṇu; la parola “Viṣṇu”, la parola “Brahmā”, la parola “Śiva” non si riferiscono all’individualità, ma alla loro natura di essere illimitati. Brahmā, l’origine, non è un altro individuo: è l’origine. Viṣṇu significa onnipervadente; Śiva significa il punto di dissoluzione. La stessa realtà è Brahmā, Viṣṇu, Śiva, ed è una cosa molto bella della letteratura vedica. La stessa verità può essere chiamata anche Gaṇeśa, perché è solo la verità che può liberarmi da tutti gli ostacoli. Ogni Devatā non è altro che la verità presentata come risposta. “Io adoro Gaṇeśa, io adoro la Devī, io adoro questo, io adoro quello”. Tutto ciò significa che la verità è la risposta a tutto. Tu che guardi con senso di esteriorità non sei altro che l’onnipervadente. È come se lo spazio all’interno della sala pensasse che le pareti siano esterne a lui: questo si chiama senso di esteriorità che, invero, non è esterno, ma interno. Non è interno come un contenuto separato da esso, non è come i vermi nell’intestino, o i batteri nello stomaco, questi vermi e batteri sono paralleli a me; sono in me, ma non sono me. Invece, la percezione del serpente non è fuori di me, è dentro di me; o meglio, non è nemmeno in me: è me.
Il vegliante è chiamato viśva: è un individuo sveglio con un senso di esteriorità rispetto alle cose, ma fondamentalmente per natura è Vibhū [onnipervadente]. È il Signore stesso, l’Essere illimitato che si presenta come un individuo; l’individuo sveglio con un senso di individualità rispetto alle cose è chiamato bahiṣprājña. Poi c’è lo stato di sogno, e come sognatore sei detto cosciente dell’interno (antaḥprājña). Questo è di nuovo il punto di vista della veglia, perché guardi il sogno come fosse qualcosa che hai visto dentro di te. Hai visto tutto dentro di te; ma quando ti trovavi all’interno del sogno, anche lì c’era un senso di esteriorità. Stando in veglia puoi capire che, invece, era tutto dentro di te e, quindi, il tuo punto di vista da sveglio sul sogno è che lì sei antaḥprājña e che lì sei chiamato Taijasa. Perché il sognatore è chiamato Taijasa? Perché tutto ciò che vedeva erano solo percezioni come fossero oggetti; vedeva come oggetto proprio il ‘tejas’, il suo stesso pensiero. Quando vai a dormire, allora la tua intera individualità diventa non manifesta come coscienza omogenea senza distinzioni (ghanaprajñā) nel tuo stesso Sé e, al mattino, ritorna manifesta (vyākṛta). Quindi, la tua visione da sveglio dello stato di sonno profondo, com’è insegnata dagli Śāstra, è che “Io sono ghanaprajñā”. Ossia, dove c’è prajñā senza alcuna divisione, tutto diventa indistinguibile: non c’è divisione nello stato di sonno profondo. Quando tutto diventa non manifesto non c’è divisione, come l’albero di Banyan, che ha tanti rami, tronchi e radici aeree, quando è non manifesto, racchiuso nel suo seme, appare senza alcuna divisione. Tutte le suddivisioni che si trovano in un albero adulto si trovano anche nel seme, in quanto stato non manifesto di tutte le divisioni. Interpretare la verità come detentrice della non manifestazione di tutte le divisioni è chiamato ghanaprajñā e il suo nome è Prājña. Prājña è inteso come “generalmente ignorante” (prāyeṇa ajña) dal punto di vista dell’avidyā dṛṣṭi; invece, dal punto di vista dello śāstra, Prājña è origine del mondo (jagat kāraṇam), e da quello dello svarūpa dṛṣṭi, Prājña è nirviśeṣam. Prājña, dunque, significa che dal punto di vista dell’ignoranza, anche il pensiero ignorante è Coscienza. Universalmente si pensa che sia uno stato di ignoranza, ma lo Śāstra considera il sonno profondo come Prājña, cioè una condizione dell’Essere cosciente; è uno stato di chi lo sperimenta, è uno stato d’Essere come origine di tutto. Ciò che si chiama Prājña, è uno che è sperimentato come fossero tre: come sperimentatore dello stato di veglia è uno; lo stesso che sperimenta lo stato di veglia sperimenta anche lo stato di sogno; e lo stesso Essere che sperimenta gli stati di veglia di sogno sperimenta anche il sonno profondo. Tuttavia, una cosa che tu sperimenti nella veglia, nel sonno profondo non c’è, quindi non c’è nulla a cui tu possa rinunciare: non ci sono oggetti a cui rinunciare, c’è solo la presenza del tuo Essere. La veglia e il sogno appaiono e scompaiono in suṣupti, ma suṣupti non appare né scompare. Suṣupti è libertà dall’apparizione-apparenza della veglia, libertà dall’apparizione-apparenza del sogno, libertà dall’apparizione-apparenza del pensiero; quindi se suṣupti non appare e non scompare, come fanno la veglia e il sogno che appaiono e scompaiono in suṣupti, quest’ultima non è una parte della creazione, è il punto di dissoluzione della creazione, è l’origine della creazione. È come il silenzio che è origine del suono e dove il suono si dissolve: perciò il silenzio stesso non è parte della creazione, mentre il suono lo è. Quindi, non dire “tutti e tre gli stati appaiono e scompaiono”: solo i due stati di veglia e sogno appaiono e scompaiono. Il sonno profondo è interpretato come uno dei tre stati soltanto dal punto di vista della veglia; ma non è sperimentato come uno dei tre stati, è sperimentato solo come non-duale, unico e privo di stato (anavasthā). Perciò la stessa Realtà appare come l’universo del vegliante e del risvegliato, che sembra esterna, ma non è esterna, è interna. Ciò che vedi come esterno lo vedi in te stesso, questo è l’insegnamento degli Śāstra; stai vedendo l’oggetto dentro di te, è fatto della tua esistenza. Così, come all’interno del sogno pensi che gli oggetti ti siano esterni, dopo il risveglio capisci che gli oggetti del sogno non sono esterni a te, sono dentro di te. All’inizio si dice: “sono visti dentro di te e tu sei la loro sostanza; l’essere cosciente è la sostanza per ogni pensiero. Ti trovi con un pensiero che è fatto di te stesso. Allo stesso modo in cui ti trovi nella veglia che è fatta del tuo essere, ti trovi nel sogno che è anch’esso fatto del tuo essere”. È proprio nello stato di sonno profondo che, senza alcun intervallo di tempo, appare la veglia. Quindi tra il sonno profondo e la veglia c’è una relazione origine-creazione: è evidente, è l’intuizione della Realtà (anubhava siddham); la relazione origine-creazione tra suṣupti e jāgrat è evidente. Se ti svegli proprio nel silenzio, significa che il tuo intero stato di veglia è fatto di silenzio. Non puoi lasciare il silenzio, non è possibile; come l’onda non può lasciare l’acqua e può apparire solo all’interno dell’acqua. Nessuna creazione può lasciare la sua origine, nessuna dissoluzione può avvenire al di fuori della sua origine; quindi non vediamo alcun divario tra il sonno e la veglia. I divari sono un prodotto del pensiero all’interno della veglia, ma tra sonno e veglia non c’è alcun divario. In tutta evidenza il tuo pensiero inizia nell’Essere libero dal pensiero. Suṣupti non è una parte della creazione; suṣupti, com’è insegnato dalla śruti in quanto origine della veglia e del sogno, non è una parte della creazione e che sia l’origine della veglia e del sogno è dimostrato dalla nostra stessa esperienza: questo è il primo punto. Il secondo punto è che la nostra stessa esperienza del sogno dimostra che vedi tutto dentro di te e che il senso di esteriorità è un errore e che in realtà lo vedi dentro di te. Proprio poiché riesci a vedere il sogno dentro di te, la śruti dice che anche la veglia è vista dentro di te. Quindi, osservando molto da vicino i tre stati come cambiano, se c’è un divario temporale, se c’è un divario spaziale, capisci che la veglia e il sogno appaiono e scompaiono nell’assoluto, in suṣupti, nel tuo proprio Essere evidente. Proprio perché l’uomo non presta attenzione a ciò che è evidente, la śruti interviene per farti notare ciò che è evidente, che è la tua stessa esperienza. Quindi, cerca di guardare la tua esistenza non come un individuo limitato, ma da Vibhū quale sei. Così, il vegliante è chiamato bahiṣprājña, il sognatore è chiamato Taijasa, dormiente è chiamato Prājña, che sono tutte descrizioni individuali. Il viśva è anche Vaiśvānara: se ti vedi limitato alla tua forma, sei chiamato viśva, se ti vedi come completo, sei Vaiśvānara; se ti guardi come limitato al corpo del sogno, sei chiamato Taijasa, se ti guardi come completo dell’intero stato di sogno, sei Hiraṇyagarbha. Non è possibile confinare la tua esistenza, non è possibile limitare il silenzio: ogni rumore nasce nel silenzio, si dissolve nel silenzio. Ogni rumore mentale nasce anch’esso nel silenzio e si dissolve nel silenzio; non è confinato, la nostra esistenza non può essere confinata, per natura siamo completi, universali, tutto ricade nella nostra esistenza. La nostra esistenza è kṛtsna, completa; l’Essere cosciente è totale per natura; una volta che parliamo di natura reale non può essere altrimenti. Poiché la nostra natura è quella di essere completa, onnicomprensiva e non qualificata da alcunché. Il senso di confinamento nella forma è avidyaka, è ignoranza, è un errore. Perché c’è? Perché non ti osservi correttamente, dai per scontata la forma, continui a vivere e poi muori con l’errore; vivi con l’errore, nasci con l’errore, cresci con l’errore e muori con l’errore. La śruti insegna che il tuo senso di confinamento è falso perché non vedi correttamente la tua esistenza. Pertanto, come confinato nella forma di veglia sei viśva, come comprensivo dell’intero stato di veglia sei Vaiśvānara, Virāṭ. Come confinato nella forma del sogno sei Taijasa, come completo dell’intero stato di sogno sei Hiraṇyagarbha. Come confinato a un senso di ignoranza sei chiamato Prājña: ossia, come ignorante dello stato di sonno profondo sei Prājña; ma la Coscienza non è davvero confinata nell’ignoranza, perché comprende anche l’oscurità (tamas) e come comprensiva dell’origine di tutto è chiamata Īśvara. Così abbiamo tre stati considerati dal punto di vista del singolo individuo (vyaṣṭi) e dal punto di vista universale (samaṣṭi).
Vyaṣṭi è viśva e samaṣṭi è Vaiśvānara; vyaṣṭi è Taijasa e samaṣṭi è Hiraṇyagarbha; vyaṣṭi è Prājña e samaṣṭi è Īśvara. In questo modo lo stesso Vibhū appare come Vaiśvānara, Hiraṇyagarbha e Īśvara. L’ordine di (krama) apparizione è il seguente: come origine è Īśvara, che appare in quanto Hiraṇyagarbha, per poi apparire ulteriormente qualeVirāṭ. Invece, l’ordine di riassorbimento è Virāṭ che si dissolve in Hiraṇyagarbha, Hiraṇyagarbha in Īśvara, Īśvara in nirviśeṣam. È nirviśeṣam che appare come Īśvara, Hiraṇyagarbha e Virāṭ. È nirviśeṣam che ha l’aspetto del vegliante, del sognatore e del dormiente. È lo stesso nirviśeṣam che, pur avendo l’aspetto del vegliante, del sognatore e del dormiente, continua a rimanere nirviśeṣam.
Tra tutti gli organi di senso, i jñānendriya sono considerati superiori ai karmendriya. Il senso della vista, dell’udito, del gusto, del tatto, dell’olfatto, questi cinque jñānendriya sono intesi come decisamente più sottili dei karmendriya. Tra i cinque jñānendriya, la vista è considerata la più importante (netṛ), l’organo di senso principale. Gli occhi rappresentano tutti gli organi di senso e gli occhi rappresentano l’intero stato corporeo. Si suppone che l’occhio destro sia più forte di quello sinistro. L’occhio destro, dunque, sta per entrambi gli occhi; gli occhi stanno per tutti i sensi e tutti i sensi stanno per tutte le facoltà, l’intero stato incorporato. Colui che si identifica con tutte le facoltà, con l’intero corpo è chiamato viśva. A chi vede le cose all’interno del suo pensiero, il suo stesso pensiero sembra una cosa; ciò è detto in un modo che può essere molto fuorviante, perché significa che vede i pensieri come oggetti. Non vede tutto nel suo pensiero, vede i suoi pensieri come oggetti: questo è chiamato stato di sogno. Egli vede le proprie percezioni, i propri pensieri come oggetti e colui che vede le proprie percezioni come oggetti, che vede i propri pensieri come oggetti, è chiamato sognatore (svapnadarśaka). “Svāmījī, ma all’interno dello stato di sogno c’è anche un senso di esteriorità”, mi dirai. Sì, ma si giudica lo stato di sogno più correttamente dalla veglia; infatti l’errore è sempre giudicato correttamente a posteriori, nella visione retrospettiva. L’errore che è percepito nel dominio dell’errore, non appare come errore2. Nello stato di veglia diciamo che il sogno non è altro che vedere le cose nel proprio ego: si chiudono gli occhi e si vedono le cose dentro di sé. C’è un senso di esteriorità, ma in realtà non c’è alcuna esteriorità, non c’era nulla di esterno a te, tutto era visto dentro di te e, in quanto vedente dei propri pensieri come oggetti, sei chiamato Taijasa. Lo stesso essere cosciente è presente come origine del non manifesto; tutto diventa non manifestato, la veglia diventa non manifestata, il sogno diventa non manifestato e il punto in cui tutto diventa non manifesto è chiamato Prājña. Anche il senso di qualcosa di esterno è non manifesto: quando tutto diventa non manifestato c’è solo Prājña. Lo stesso essere cosciente appare in tre modi: il vegliante, il sognatore e il dormiente. Secondo il profano il sonno è “non conoscevo nulla”. Secondo gli Śāstra è la libertà da tutto.
- È ben noto che per il Vedānta il ricordo (smṛti, smaraṇa) è l’esperienza passata rievocato dalla memoria (citta, smaraṇaśakti), che è una funzione della mente individuale (antaḥkaraṇa). È un termine sempre usato con la cautela di precisare che tale esperienza passata richiamata dalla mente deve essere stata sperimentata nello stesso stato in cui ci si ritrova presentemente. Perciò, in veglia, la mente della veglia può ricordare solo eventi accaduti nel suo passato di veglia. Per questa ragione si ribadisce che il ricordo del sogno che si ha in veglia, in realtà non è un ricordo, perché l’esperienza di sogno è stata sperimentata dalla mente del sognatore. Ciò che la mente del vegliante, confusamente e per pochi istanti, crede di ricordare, è invece una intuizione sulla testimonianza del Sākṣin, il quale è presente simultaneamente in tutti e tre gli stati. O, più precisamente, la testimonianza dell’apparizione delle tre avasthā nel Testimone. Ciò che Svāmījī spiega nelle prossime righe come “ricordo” riguarda, dunque, non la memoria individuale, ma l’esperienza del Testimone [N.d.C.].[↩]
- Come il serpente: finché si è in errore esso appare reale. Quando si conosce la corda si supera il dominio dell’errore e il serpente è riconosciuto come un’immaginazione sbagliata [N.d.C.].[↩]