Svāmī Prabhuddhānanda Sarasvatī Mahārāja
11. Commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad e alle Kārikā di Gauḍapāda
Agama Prakaraṇa
Mantra 6 e Kārikā I.1-2
L’inizio dello stato di veglia è l’inizio della creazione (sṛṣṭi), la dissoluzione dello stato di veglia è la dissoluzione della creazione (laya): non c’è altra sṛṣṭi, non c’è altro laya. L’inizio del tuo pensiero è sṛṣṭi, la dissoluzione del tuo pensiero è laya; non c’è alcuna evidenza di qualsiasi altra sṛṣṭi e di qualsiasi altro laya. L’inizio dello stato di veglia e la dissoluzione dello stato di veglia sono sperimentati dall’uomo e sono anubhava viṣaya, sono esperienze oggettivate. L’intero stato di veglia è oggettivato; il suo inizio è oggettivato e anche la sua fine è oggettivata e colui che oggettiva è il nirviśeṣam. Tutto ciò che ha un inizio e una fine deve essere esaminato con grande attenzione. Tutto ciò che ha un inizio e una fine ha una origine, perché le cose non appaiono nel vuoto. Questa affermazione deve essere considerata molto seriamente: le cose non appaiono nel vuoto, perché per apparire è necessaria la tua presenza. È necessaria la tua presenza anche quando vedi un uomo in cielo: lo stai vedendo in te stesso a causa di un tuo errore: quella è solo una percezione. Ma non pensare che sia percepito sul vuoto: non è percepito sul vuoto, è visto in te stesso1. Similmente, il sogno non è un errore proiettato su qualcosa di esterno, come è l’errore di percezione del serpente proiettato sulla corda: il sogno non è un’idea sbagliata proiettata qualcosa di esterno, il sogno è un’idea sbagliata del soggetto. Come puoi avere un errore sull’oggetto, puoi anche avere un errore sul soggetto, perché come l’oggetto è percepito dai sensi, il soggetto è evidente a se stesso, è auto evidente. Quando non riconosci correttamente ciò che è evidente, allora lo conosci erroneamente. Perciò la veglia ha un inizio e una fine, la sṛṣṭi ha un inizio e una fine e questa è l’esperienza di ciascuno.
Nella dissoluzione pensi come segue: volendo non percepire il serpente, chiudi gli occhi e pensi “il serpente è lì ma non lo vedo”. Questo è ciò che pensi, ma in realtà quando non vedi il serpente non c’è alcun serpente, e anche quando vedi il serpente non c’è alcun serpente. Quando non vedi il serpente come può esserci un serpente? Quando chiudi gli occhi, non puoi dire “il serpente c’è, ma io non lo vedo” e sostenere che “anche se io non vedo il serpente, gli altri lo vedono”. Si tratta sempre di una percezione. Allo stesso modo, quando vai a dormire non vedi il mondo; ma un profano pensa che “anche se non vedevo il mondo, il mondo c’era”; e anche quando dici “gli altri lo hanno continuato a vedere”, si tratta sempre di una percezione. Invece laya è un’esperienza, sṛṣṭi è un’esperienza e colui che sperimenta sṛṣṭi e laya è mukhya ekatvam perché sṛṣṭi e laya hanno mukhya ekatvam come origine. Quando pensi alla tua esistenza come origine, cioè quando pensi che tu sei l’origine com’è insegnato dalla śruti, questo è un pensiero; e anche quando dici che il nome dell’origine è Oṃ, è un pensiero; tu sei colui che vede sia il nome sia il nominato. Che l’Ātman sia l’origine, che il nirviśeṣam sia l’origine è un pensiero: è un insegnamento ed è un pensiero. La śruti dice che Oṃkāra è il nome dell’origine; ma tu puoi dare un nome all’origine perché origine-creazione è una relazione (sambandha). Ovunque ci sia un sambandha è possibile una descrizione: jāti, guņa, kriyā e sambandha. Può anche essere una relazione di reale e non reale (satya-mithyā sambandha), non importa. Pertanto, quando pensi alla tua esistenza come origine dell’universo, quel pensiero è fatto, è un pensiero; e quando dici che il nome dell’origine è Oṃ, è sempre un pensiero; e colui che pensa in merito all’origine e al nome dell’origine, come entrambi pensati da te, è il nirviśeṣam, è il soggetto. Come pensatore di entrambi sei kartā, come verità di entrambi sei nirviśeṣam, il mukhya ekatvam. Tu sei il pensatore dell’oggetto che ha una non comprensione di se stesso; in questo senso il pensatore di un oggetto è anche l’origine dell’oggetto; e la śruti insegna che il pensatore di un oggetto è l’origine conosciuta come nirviśeṣam. L’origine, dal punto di vista della Realtà (svarūpa dṛṣṭi), è nirviśeṣam perché la radice di ciò che pensi è all’interno del pensatore, non c’è altro soggetto all’infuori dell’Io che vede, sente, gusta, tocca, odora, pensa, ricorda, sperimenta la veglia, il sogno, il sonno profondo, la vita, la morte. Quell’Io è il nucleo, è l’origine dell’intero jāgat. Ti consideri in relazione con ciò che vedi, sei in relazione con la forma in quanto vedente della forma; sei in relazione con il suono in quanto uditore del suono. Queste sono le relazioni fondamentali non sociali, queste sono le relazioni senza inizio (anādi): la relazione vedente-visto, uditore-udito, pensatore-pensato, sono tutte relazioni anādi. “Sono un medico, sono un genitore” sono, invece relazioni che hanno un inizio (sādi), sono relazioni sociali. Queste relazioni sociali presuppongono anche le relazioni anādi e di esse la śruti afferma: “Non hai né relazioni sādi né relazioni anādi; tu sei davvero la verità di entrambe”. All’inizio, la prakriyā del Vedānta ti dice “tu sei l’origine di entrambi”: dal punto di vista di entrambi sei l’origine, dal tuo punto di vista sei nirviśeṣam. Questo è l’insegnamento chiamato adhyāropa apavāda nyāya. Dal punto di vista di ciò che vedi sei l’origine, dal tuo punto di vista sei nirviśeṣam e questo diventa il metodo del Vedānta (Vedānta adhyāropāpavāda prakriyā). Oṃkāra è visto da me, è pensato da me; quel nome è pensato da me e la mia stessa esistenza come origine è anch’essa pensata da me; ma quando l’origine è capita, allora è nirviśeṣam, è il mukhya ekatvam, la pura unicità letterale sia del nome sia del nominato. Il nome (abhidhānam) e il nominato (abhidheyam) si annullano a vicenda quando sono mutuamente identificati: il nome è il nominato, il nominato è il nome. “Il nome è il nominato” significa che non è davvero il nome. “Questo mondo è una creazione” significa che non è un blocco che giace lì da sempre, ma che è visto nella verità. Quindi, mukhya ekatvam non è incomprensibile. Due pensieri correlati hanno la loro identità reale nel proprio Sé. Anche jīva e jagat correlati, vale a dire “penso di essere un jīva e vedo il jagat”, sono entrambe percezioni, pensieri; jīvatvam e jagatvam sono due pensieri correlati. Questi due pensieri correlati non sono fatti, non sono realtà; sono pensieri correlati, percezioni correlate ed è perciò che diciamo “anche questa correlazione è una percezione”. Non è che due percezioni abbiano una correlazione: questo è solo un gioco di parole (vācārambhaṇam), ma è la correlazione a essere una percezione, il che significa che quanto abbiamo stabilito prima è vero. Questo è l’intero errore: tutte le correlazioni sono solo una percezione e l’origine della percezione è nirviśeṣam; viene insegnata come origine, ma invece è nirviśeṣam. Questo è un punto molto importante: viene insegnata come causa del mondo (jagat kāraṇam), invece è il nirviśeṣam non duale, questo è davvero il punto importante. Il mukhya ekatvam di due pensieri correlati non può essere un altro oggetto perché entrambe le percezioni sono radicate in chi le percepisce e quindi la loro pura unità è il tuo essere. I tuoi occhi sono pensati da te, il fatto che tu sia chi utilizza gli occhi è pensato da te e gli occhi e la vista sono entrambi una correlazione; ma gli occhi sono oggettivati da te e sembra che non siano oggettivati da te perché tu sei identificato con loro. Quindi, la tua illusione ti gioca brutti scherzi facendoti pensare che solo l’oggetto esterno sia oggettivato e non il corpo, perché ogni volta che ci si identifica con la vista e con gli altri sensi, non sembra che sia tu a essere oggettivato. Gli occhi sono oggettivati; infatti, nonostante l’identificazione, la loro natura oggettivata non cambia. Nonostante l’identificazione con gli occhi, la loro oggettività non cambia, quindi gli occhi sono oggettivabili, la vista è anche oggettivabile e dove sono oggettivati è in te stesso. Tu oggettivi in te stesso. Non puoi dire “sto oggettivando qualcosa lì”: anche l’idea di ‘lì’ è oggettivata da te in te: sembra fuori di te mentre è in te. Tu oggettivi il sogno dentro di te. Una svolta molto importante nella riflessione è che quando si diventa ṛṣi (veggenti) non si oggettivano gli oggetti che sono lì, si oggettivano certe forme, certi suoni e certe percezioni in se stessi. Queste oggettivazioni sembrano oggetti esterni perché, quando ti identifichi alla vista, sembrano tutti diversi dalla vista e sembrano tutti altri da te. Quindi gli occhi e la vista oggettivabili sono correlati, ma queste due oggettivazioni hanno le loro radici in te. Quel ‘te’ viene insegnato come origine, ma è nirviśeṣam, ciò che è insegnato come causa (kāraṇam) è in realtà nirviśeṣam. Su questi punti bisogna fare manana.
Quando [chiudi gli occhi e] non vedi il serpente, pensi che il serpente sia lì, ma se non lo vedi il serpente non è lì. Tenendo conto di questo fatto, lo śastra dice che l’intera sṛṣṭi ha laya e il Bhāṣyakāra dice che all’interno della sṛṣṭi non c’è alcun jagat. Che “gli altri lo stiano vedendo” è solo dal punto di vista della veglia. Anche se accetti che mentre stai dormendo gli altri lo stanno vedendo, la loro è pur sempre una percezione. Soltanto perché gli altri lo vedono, la semplice percezione non diventa un fatto: io vedo il serpente nella corda, tu vedi il serpente nella corda, ma quando chiudi gli occhi e non vedi il serpente pensi di aver lasciato indietro il serpente, perché concludi che gli altri lo stiano ancora vedendo. Quando si pensa che anche gli altri lo vedano, si pensa che sia un fatto. Tuttavia ciò che è universale non deve necessariamente essere un fatto: ciò che è una percezione è solo una percezione. È universalmente percepito che la terra sia piatta, ma questo non è un fatto. Anche un errore può essere universale; per esempio tutti pensano che la felicità sia altrove. Questo è un errore: solo perché tutti lo pensano questo non diventa un fatto. Quindi, quando gli altri vedono un serpente, anche quella è una percezione. Nello stato di sonno profondo non vedi il mondo e Śaṃkarajī dice che non lo vedi perché il mondo non c’è. Al contrario i mūlāvidyāvādin dicono che lì non vedi il mondo perché non hai i sensi, ma il mondo c’è. Questo è un errore: anche quando vedi il mondo il mondo non c’è e nemmeno quando non lo vedi non c’è. Perciò nello stato di sonno profondo c’è laya del jagat. Se qualcuno dice che il jagat non ha laya, ma che sono i tuoi occhi che hanno laya, la tua mente che ha laya, sbaglia del tutto. Quello non è Vedānta perché anzitutto diciamo che il jagat è una percezione e non c’è percezione in suṣupti: quando non c’è percezione non c’è jagat. L’obiezione “ma gli altri lo vedono” è priva di base perché anche la loro è solo una percezione.
Quando rivedi il jagat, anche questa è percezione. Chiamarlo mondo è una percezione, chiamarlo mondo immanifesto (avyākṛta prapañca) è anch’esso una percezione e tutto questo è tuo pensiero2. Tu affermi che il serpente è manifesto, ma quando affermi “quando chiudo gli occhi il serpente diventa immanifesto”; anche questa è percezione, anche questo è errore. Gli oggetti del sogno ci sono quando si vedono e non ci sono affatto quando non si vedono. Quando non li si vede si chiamano laya e quando li si vede si chiamano sṛṣṭi. Quando non li vedi non dici “non li vedo, ma ci sono”; quando li vedi in realtà non ci sono, e quando non li vedi sicuramente non ci sono. Allo stesso modo, anche quando una persona trasmigra nel saṃsāra, non c’è alcun saṃsāra: è solo una percezione nella verità. Così, ti è evidente la correlazione, ma la tua realtà non compresa è l’origine; la tua non libertà dalla forma, quando non la comprendi, è l’origine. È insegnata come origine, ma in realtà è nirviśeṣam. Quindi anche mukhya ekatvam è evidente. La correlazione ti è evidente, ma anche mukhya ekatvam è evidente. Non devi sentirti disorientato da questa affermazione perché la tua esistenza ti rende auto evidente; ed essa ti rende evidente ogni relazione, ogni correlazione. La correlazione dell’immaginazione prodotta dall’ignoranza (avidyā kalpita) è evidente, la correlazione śāstra kalpita3 è evidente; il primo tipo di correlazione è immaginazione prodotta dall’ignoranza senza inizio (anadi avidya kalpitam), mentre il secondo tipo è insegnato allo scopo di farti riflettere. Vedente è una correlazione, occhi e vista sono una correlazione: sono tutte correlazioni a te evidenti, come anche la loro origine, il mukhya ekatvam, è a te evidente, perché tutte appaiono nel nirviśeṣam e suṣupti non è altro che nirviśeṣam. Quindi suṣupti deve essere considerata in questi due modi. C’è una grandissima confusione a proposito di suṣupti e molte persone rimangono sconcertate quando riflettono su suṣupti. La loro comprensione rimane impantanata nel tentativo di capire suṣupti, perciò bisogna fare vicāra su di essa correttamente. Un profano pensa che suṣupti sia tenebra, mentre lo śastra dice che è nirviśeṣam, perché dove non c’è altro è nirviśeṣam, dove non c’è pensiero è nirviśeṣam. Non è assenza di pensiero: è la tua presenza libera da pensieri, è la tua presenza come nirviśeṣam. Perciò il nirviśeṣam sta come sperimentatore della veglia, il nirviśeṣam sta come sperimentatore del sogno, ma nirviśeṣam non sta mai come sperimentatore della tenebra perché la relazione sperimentatore-esperito è immaginazione prodotta dall’ignoranza (avidyā kalpitam). Lo śāstra stabilisce che questa relazione appare per ignoranza (avidyakam). Di fatto, ciò che intercorre tra te e quello che sperimenti è la relazione origine-creazione. Nirviśeṣam è insegnato come origine e la veglia è insegnata come apparenza; nirviśeṣam è insegnato come origine e il sogno come apparenza; ma anche i pensieri che riguardano la loro assenza in suṣupti sono un’apparenza. L’assenza è insegnata come origine, mentre è nirviśeṣam. All’inizio si indaga su suṣupti dal punto di vista profano, e allora appare come uno stato di tenebra, uno stato di nulla, uno stato di “lì non conoscevo nulla”. Un profano non è capace di vedere che il sonno profondo è presenza di gioia (sukham): dice che suṣupti è solo assenza di sofferenza (duḥkham), è solo assenza di oggetti. Invece, la śruti lo nega: il sonno profondo è presenza di Ānanda e quell’Ānanda è insegnato come origine. Quindi il primo punto di vista è un punto di vista profano e il secondo punto di vista è che si tratta di Īśvara in quanto origine di jāgrat e di svapna. Che sia Īśvara è un’indagine più approfondita. La prima indagine è profana, è una interpretazione (anuvāda), è il modo in cui la pensa il mondo, mentre invece è Īśvara. A questo la śruti serve come valido mezzo di conoscenza (śābda pramāṇa). Tutti pensano che suṣupti sia tenebra. La śruti è un pramāṇa solo per quanto riguarda la tua presenza, poiché il nirviśeṣam è l’origine della veglia, e jāgrat appare in te, sembra emergere da te, appare in te che sei nirviśeṣam: è come il suono che appare nel silenzio ed essendo apparso nel silenzio è come fosse silenzio. Il problema che si presenta è questo; il sogno appare dentro di te, ma sembra stare di fronte a te. È come quando guardi nello specchio: ciò che vedi nello specchio è proprio qui, stai vedendo te stesso davanti a te. Così, allo stesso modo, in sogno stai vedendo una percezione dentro di te come fosse fuori di te.
Il secondo punto di vista è quello in cui la śruti è usata come pramāṇa. La śruti è un pramāṇa solo per quanto riguarda il nirviśeṣam, ossia la propria natura in quanto origine della veglia (jāgrat) e del sogno (svapna); la śruti è un pramāṇa quando jāgrat, che appare all’interno del proprio io, sembra esterno; il sogno sembra esterno mentre sta apparendo all’interno del proprio io. Anche in questo caso del sogno la śruti è un pramāṇa. Senza quel pramāṇa qualsiasi cercatore pensa in direzione sbagliata. Può perfino fare questa affermazione, ma non ne capisce il senso. A meno che la śruti non gli indichi l’evidenza: “Mio caro signore, questo è evidente: il tuo stato di sonno profondo è evidente, la tua libertà dal pensiero è evidente”. La libertà dal pensiero è auto evidente, non è un’immaginazione; il che significa che la libertà dal pensiero non è resa evidente da alcun altro pensiero. Quindi, suṣupti è descritta qui dallo Sāstra usando la śruti come pramāṇa: come dire che suṣupti è descritta qui come Parameśvara, l’origine.
Questo Ātma nirviśeṣam è insegnato come Signore universale (Sarveśvara); ed è davvero Sarveśvara, è davvero l’origine dell’intera creazione, dei cieli e di tutto ciò che è oggettivabile. L’origine, invece, è non oggettivabile, l’aspetto non oggettivabile del soggetto. Per la verità, il soggetto non ha alcuna parte oggettivabile. Quando ci si identifica con il corpo si chiama questo corpo “la mia parte oggettivabile”; invece, non è affatto una parte oggettivabile del soggetto, A volte si è condizionati dall’uso di espressioni sbagliate, perché in realtà il soggetto non ha alcuna parte oggettivabile, è unicamente un essere cosciente e non è una mescolanza di oggettivabile e di non oggettivabile. L’individuo particolare (jīva aṃśa) non è una parte dell’Ātman: è un errore sovrapposto all’Ātman. La sensazione dell’individualità non è una parte oggettivabile del soggetto, perché il senso dell’individualità è un errore oggettivabile sul soggetto non oggettivabile. Anche se diciamo “questo è il jīva aṃśa, questo è Brahma aṃśa “, invero la Realtà non ha alcun aṃśa, l’esistenza della parte e del parziale (aṃśa–aṃśi bhāva) non c’è perché quando si è unicamente un essere cosciente ciò che rimane è tutto solo apparenza (upādhi). Il cristallo è del tutto incolore e se un fiore posto vicino proietta il suo colore sul cristallo, quello è solo un upādhi. È uno sbaglio pensare che sia il colore del cristallo, il quale è del tutto incolore. Allo stesso modo la nostra vera natura è solo Pura Coscienza. Nirviśeṣam è l’origine del corpo, dei sensi, della mente, dell’intelletto e di ciò che è esterno; l’ādhyātmika prapañca, l’ādhidaivika prapañca e l’ādhibhautika prapañca, tutti e tre i prapañca hanno come origine l’Ātman. Sarvajñā, l’onnisciente, significa colui che illumina tutto: Ātman è sarvajñā. Sarvajñā non significa colui che conosce il francese, colui che conosce l’eschimese, ecc. Tutto l’anātman è illuminato dall’Ātman e quando l’intero anātman è illuminato dall’Ātman allora l’Ātman può essere chiamato sarvajñā. Io posso anche non conoscere il francese, ma il francese è sotto forma di suoni e i suoni sono illuminati dal Sé; anche la conoscenza del francese è illuminata dal Sé che è l’origine di tutto. Non è solo l’illuminante, il conoscitore, ma, in quanto origine, è Sarveśvara, è l’origine stessa che illumina la forma, la creazione. È come dire che è la stessa acqua, che è l’origine dell’onda, che sostiene l’onda, che illumina l’onda, e così la si chiama sarvajñā. Sarvajñā non significa che devi avere tutte le informazioni nella tua mente: quelle informazioni le hai in quanto kartṛ, ma in quanto akartṛ sei colui che illumina. Il Sé illumina anche la relazione conoscitore-conosciuto. Come colui che illumina ogni cosa sei sarvajñā, e persino una zanzara è sarvajñā. Sarvajñā significa ciò nella cui luce si vede ogni cosa. Non sei, dunque, solo l’origine, sei sarvajñā. Antaryāmin significa il controllore interno di ogni cosa, come l’acqua che è l’antaryāmin dell’onda. La Realtà è come se prestasse se stessa per far apparire le forme. Ciò che ‘È’ presta la sua esistenza alle forme apparenti. Gli oggetti non hanno esistenza, ciò che è evidente che esiste è il Sé: gli oggetti non esistono. Anche se diciamo “questo è, questo è”, si tratta di avidyā. La śruti fa da pramāṇa nel dire solo “sto vedendo questo, sto vedendo quello” e “io sono”; in realtà in tutte le percezioni ciò che esiste è solo la propria esistenza. L’avidyā ti fa pensare “questo è”, “quello è”; invece la śruti dice “tu solo sei”. Quindi, se dici “è qualcosa che presta la sua esistenza interiore alla forma esterna”, va bene Jī, è solo un’affermazione popolare; tuttavia, in realtà, il Sé non presta l’esistenza, presta Se stesso perché la forma appaia in esso. Quando l’acqua appare come onda, è esistenza affinché la forma appaia. La forma non ha esistenza, “ma sembra che abbia esistenza”; questa è l’avidyā, questo è il tuo punto di vista, questo è il modo in cui pensi. Ma la śruti interviene come pramāṇa e inverte la situazione: “Mio caro signore, l’oggetto non c’è: ci sei solo tu, c’è solo il soggetto”. Il risveglio non esiste, solo chi lo sperimenta è la Realtà. Ciò che viene sperimentato è apparenza: sembra apparire al di fuori di chi lo sperimenta, ma in realtà è un’apparenza all’interno della natura di chi lo sperimenta, che è chiamata nirviśeṣam; all’interno del nirviśeṣam appare la relazione sperimentatore-sperimentato detta adhyāsa. Nel non-duale appare una relazione; la relazione appare in ciò che è privo di relazioni, non appare in un’altra relazione. Ogni relazione appare nel proprio Sé privo di relazioni perché non si vede la relazione all’esterno; tu vedi “sono in relazione, sono in relazione”; stai vedendo la relazione in quanto Io. Quindi vedi ogni relazione nel tuo proprio Sé, nella tua propria esistenza, dove vedi l’incarnazione. Nel tuo Sé, nella tua esistenza, vedi un’incarnazione in te, vedi una mente pensante in te, vedi duḥkha in te. In te, che sei libero da tutte queste cose, vedi una relazione e questo ti svela che è adhyāsa. Pertanto, una relazione non può apparire in una cosa inerte, una relazione appare nell’essere cosciente, nel nirviśeṣam.
Il sonno profondo è uno stato di presenza, non è uno stato di assenza. Non puoi mai sperimentare uno stato di assenza: se lo sperimenti come uno stato di assenza significa che sei presente perché non è possibile sperimentare uno stato di negazione. Stai sperimentando uno stato di negazione di ciò che è sovrapposto (adhyasta) su di te. È uno stato di libertà dall’incarnazione, è uno stato di libertà da tutto ciò che è pensabile, è uno stato di libertà dall’individualità, è uno stato di libertà dalle relazioni, è uno stato di libertà dal vincolo temporale, dalla collocazione spaziale, ecc., è uno stato di libertà da tutto ciò che viene visto erroneamente, è uno stato di libertà dal pensare te stesso. Al contrario, non è uno stato di libertà dalla tua presenza, non è uno stato di tua assenza, è uno stato di libertà dal pensare a un ‘te stesso’, non è uno stato di libertà da te stesso, perché sperimenti la libertà dallo stesso tuo pensiero. Pertanto, la verità è molto, molto evidente: devi osservarti da vicino. La śruti dice che sei il nirviśeṣam e in relazione all’universo puoi essere chiamato origine, creazione di tutto e dissoluzione di tutto. Nirviśeṣam è la yoni, l’origine. La śruti è un pramāṇa allorché dichiara che il nirviśeṣam è la yoni. La śruti è un pramāṇa solo in questo argomento e in nessun’altro. La śruti non è un pramāṇa quando afferma che “i rituali ti danno una certa pace” perché questo lo sai già; oppure quando dichiara che “l’autocontrollo ti dà una certa pace”; anche questo lo sai già. In tutto ciò che puoi capire da solo, la śruti non è un pramāṇa. La śruti è un pramāṇa solo nel caso della tua incapacità di comprendere in che modo nirviśeṣatvam sia l’origine di tutto. In questo caso la śruti è śābda pramāṇa.
Pertanto, suṣupti deve essere indagata due volte. Per la verità, dovrebbe essere osservata in tanti modi: dal punto di vista profano è tenebra; dal punto di vista manifestato è uno stato non manifesto, il che significa che è il nirviśeṣam descritto con nomi e forme non manifeste4; e suṣupti è anche insegnata come origine (kāraṇa) non manifestata anche se è sperimentata come nirviśeṣam. Perciò, tenendo in considerazione l’anubhava, proprio quell’anubhava che è il nirviśeṣam, suṣupti è insegnata come causa, come l’immanifesto e come tutto il resto. Quindi dobbiamo considerare suṣupti nel modo in cui la vede un profano, perché la maggior parte delle correnti di pensiero ha un punto di vista profano. Al contrario, la śruti dice che non è affatto uno stato di tenebra, ma uno stato di tua presenza silenziosa e libera da tutto. Così, osserva suṣupti perlomeno da due punti di vista: dai diversi punti di vista profani è tenebra, mentre dal punto di vista dell’esperienza intuitiva è nirviśeṣam. La śruti insegna che è nirviśeṣam preso come fosse l’origine e, come tale, è Sarveśvara, ossia il Brahman. Questo è il senso dei pochi versi iniziali della śruti, dei primi sei mantra della Māṇḍūkya Upaniṣad che abbiamo esaminato.
I.1. Bahiṣprajño vibhurviśvo hyanttaḥprajñastu taijasaḥ ǁ
Ghanaprajñastathā prājña eka eva tridhā smṛtaḥ ‖
Viśva è cosciente degli oggetti esterni ed è onnipervadente; Taijasa è cosciente degli oggetti interni. Similmente, Prājña è cosciente della sua unità di coscienza indifferenziata. Pur essendo soltanto uno, è pensato in tre modi.
I.2. Dakṣiṇākṣimukhe viśvvo mansyntastu taijasaḥ ǁ
Ākāśo ca hṛdi prājñastridhā dehe vyavasthitaḥ ‖
Viśva sta nell’apertura dell’occhio destro, che è il suo luogo di esperienza, mentre Taijasa è dentro la mente e Prājña è nello spazio all’interno del cuore. [L’Ātman]sta nel corpo in tre modi.
Ora il Kārikākāra Gauḍapāda scrive in alcuni versi che tutti e tre gli stati esistono solo dal punto di vista della veglia. Il sogno è chiamato sogno solo nello stato di veglia; il profano chiama ‘sogno’ il sogno dal punto di vista della veglia. Invece, dal punto di vista della śruti (śruti dṛṣṭi) il sogno è un errore, come anche la veglia è un errore. Quando dici “tutto ciò che vedo nella veglia lo vedo anche in sogno”, stai cercando di creare un rapporto di continuità di causa ed effetto tra la veglia e il sogno. Questo punto di vista è da profani. Il punto di vista della śruti è che jāgrat è un’apparenza nella Realtà. Anche svapna è un’apparenza nella Realtà: non c’è differenza tra jāgrat e svapna. Anche se tu li chiami entrambi ‘stati’ (avasthā), la śruti afferma che sono un errore sulla Realtà: tutto ciò che è oggettivabile è errore (mithyā, bhrānti). L’individuo li chiama tre stati (avasthātraya), ma la śruti li definisce un unico errore, all’interno del quale si possono sperimentare stati molteplici: gli stati celesti (deva loka), gli stati del pitṛ loka. Ci sono tanti stati (loka), ma tutti questi stati rientrano in un unico errore di sovrapposizione (adhyāsa). Quest’ultimo è il punto di vista della śruti, mentre la visione dei profani che è gli stati sono molteplici. Molti sono gli stati che costituiscono la visione del un profano, ma essi sono un unico errore. La percezione del serpente e la memoria del serpente sono un unico errore. Il profano dice “se non lo vedo, come posso ricordarlo?”. Questo pensiero crea un rapporto di causa ed effetto tra la percezione del serpente e la memoria del serpente, ma la śruti dice “la percezione del serpente è un errore sulla Realtà, come anche la memoria del serpente è un errore sulla Realtà; entrambi sono un solo errore sulla Realtà”. Un profano può creare una relazione di causa ed effetto tra il serpente e la paura, ma la śruti dice che anche la paura è un errore dovuto alla sovrapposizione sulla corda: anche i risultati della percezione del serpente sono una percezione, un errore. Un profano pensa: “Se non vedo il serpente come posso avere paura?”, perciò crea un rapporto di causa ed effetto. Invece anche questo rapporto di causa ed effetto che l’uomo immagina è descritto dalla śruti come adhyāsa. Secondo la śruti non c’è alcun problema se non l’adhyāsa. Anche il karma è adhyāsa perché l’idea di essere un agente (kartṛtvam) è adhyāsa, e quando si fruisce dei risultati del karma, allora il bhogtṛtvam è adhyāsa. Non c’è karma, è solo kartṛtvam che viene percepito; non c’è bhoga, è l’idea di essere un fruitore (bhogtṛtvam) che viene percepito. Kartṛtvam è adhyāsa, bhogtṛtvam è adhyāsa. Quindi, secondo gli Sāstra il problema è solo l’adhyāsa. Tutto questo verrà detto dal Kārikākāra nei prossimi 4-5 versi. Quello che noi chiamiamo tre stati, egli lo chiama solo adhyāsa.
- I buddhisti sostengono che l’illusorietà degli oggetti del mondo è una proiezione d’un pensiero (mānasa vṛtti) sul vuoto (śūnya), che è come dire che le percezioni in continuo fluire sono prive di sostrato (adhiṣṭhana). L’Advaita Vedānta, invece, afferma che l’oggetto percepito, sebbene falsa apparenza, deve essere proiettato sul sostrato reale che è lo stesso Sé. Senza la corda, nessun serpente (ghirlanda, rivolo d’acqua, ecc.) può essere erroneamente percepito [N.d.C.].[↩]
- Come si è dichiarato ripetutamente in questo commento e in altri scritti apparsi sul Sito VVM, la metafisica pura del Vedānta (Vedānta śuddha paramārthavāda) insegna il Brahmātman come l’unica Realtà assoluta. Tutto ciò che non è Brahmātman è non reale (atattva, avastu, atathya); perciò è falso (mithyā, bhrānti), è ignoranza (avidyā), sovrapposizione apparenza (adhyāsa), illusione (māyā), apparenza(moha), immaginazione (kalpita). L’universo com’è pensato dai realisti è del tutto inesistente: questa è la dottrina vedāntica vivartavāda, ovvero della non realtà del mondo. Tutte le altre correnti di pensiero sostengono, invece, il pariṇāmavāda, la teoria secondo la quale il Brahmātman, considerato come il Principio del mondo, si manifesta a un certo punto sotto la forma di mondo o ne diventa il Creatore. Per i pariṇāmavādin il mondo ha sempre un certo grado di realtà che varia a seconda delle diverse credenze sulla modalità della comparsa del mondo, ovvero se sia stato manifestato, emanato o creato. In ogni caso, il mondo avrebbe due modalità di realtà espresse in forme diverse: una non manifestata e una manifestata (avyakta-vyakta), una potenziale e una attuale (avyākṛta–vyākṛta), una in non-essere e una in essere (asat-sat), una non ancora o non più esistente e una esistente (abhava-bhava), una assente e una presente (anupalabdhi-upalabdhi), una invisibile e una visibile (adṛṣṭa-dṛṣṭa). Queste differenze terminologiche sono determinate dalle diverse concezioni, secondo le quali il mondo prima di apparire così come lo percepisce l’uomo ordinario, era in mente Dei, nella Prakṛti, negli atomi (aṇu), nei cinque elementi e così via. Tutte queste credenze o atti di fede sono respinte dalla metafisica advitīya, in quanto dualiste. Perciò il mondo non è né possibile né reale, ma soltanto un errore di conoscenza (mithyā jñāna) [N.d.C.].[↩]
- Śāstra kalpita o kalpita saṃvṛti (lett. sovrapposizione immaginaria) indica la procedura adottata dagli Śāstra e dal guru come mezzo per insegnare i pramāṇa utilizzati per conoscere la verità. Per esempio, il seguente passaggio: “Egli è non nato (aja) sia all’interno sia all’esterno (Muṇḍaka Upaniṣad, II.1.2), dove ‘interno’ ed ‘esterno’ sono solo attribuiti a ciò che in realtà, non essendo nato, è privo di qualsiasi ‘interno’ o ‘esterno’ [N.d.C.].[↩]
- Ossia descritto dal punto di vista della veglia per viam negationis, in modo apofatico: “Lì non c’è nulla, non c’è il mondo né gli oggetti, né tempo, né spazio e nemmeno ci sono io”. Essendo anche questo un punto di vista della veglia, è evidente che tale descrizione fa sempre parte dell’avidyā kalpita [N.d.C.].[↩]